Se non nuoce al mercato non è democrazia
In democrazia la classe politica ha interesse ad ostacolare i piccoli lavoratori autonomi per costringerli a produrre da dipendenti, perché da autonomi, (e quindi capaci di essere autosufficienti) non hanno bisogno dei politici e nemmeno dei banchieri.
Non portano voti perché non credono che la politica democratica sia in funzione del “bene comune”, non portano soldi perché non hanno un grosso reddito tassabile e nemmeno mazzette alla gigantesca inestirpabile consorteria dei corrotti.
Perciò, se un piccolo imprenditore si scandalizza del malgoverno democratico, di democrazia, (comunista o liberista che sia), non ha capito granché.
Per i piccoli lavoratori autonomi, (che ovunque nel mondo sono e restano risibile minoranza) dover dipendere dalla politica democratica è garanzia di fallimento.
Da quando ho memoria, gli economisti italiani hanno sempre ripetuto fino alla nausea: “l’economia va tanto meglio quanto meno i politici ci mettono le mani”. Come dire, funzionali al sistema economico, sono soltanto i governi democratici che non governano: i governi acchiappafarfalle.
Solo un popolo di dipendenti ha bisogno di una classe politica a cui chiedere lavoro o reddito di cittadinanza. Un imprenditore, fosse pure venditore di caldarroste o artigiano ferracavalli, per produrre ha bisogno di clienti pagatori, non di politici borseggiatori.
Voi riuscireste ad immaginarvi un adulto in buona salute mentale e fisica che va a comprarsi le stampelle? Certamente no.
Un imprenditore è come un adulto in buona anzi in ottima salute. Se non subisce infortuni da burocrazia inefficiente o tasse rapina, non entrerà mai in banca a chiedere credito o peggio in una segreteria di partito per procurarsi le stampelle dell’aiutino politico in cambio di voti o mazzette.
Quindi, giusto per capirci, le democrazie sono il paradiso dei dipendenti, (per protezione sindacale e politica sopravvivono a prescindere dalla loro reale capacità produttiva) e l’inferno degli imprenditori onesti, che se sono (come in questo povero paese) chiamati a finanziare a colpi di rapine tributarie: improduttività, sprechi e furti pubblici e privati, o si rassegnano a l’illegalità, o falliscono o si suicidano.
Gli imprenditori devono guardarsi dai politici. Dipendendo dal consenso della maggioranza, (e quindi dai lavoratori e pensionati, che insieme sono una schiacciante e immodificabile maggioranza), quasi tutti i politici finiscono per essere loro malgrado, con effetto domino, una calamità naturale per il mercato e per tutti i piccoli imprenditori che, per onestà o povertà, non sono in grado di comprarsi a colpi di mazzette la protezione mafiosa dei politici “onesti” e soccombono sotto il peso di sprechi e appropriazioni indebite altrui
Chi volesse trovare una conferma, provi a pensare che fine ingloriosa ha fatto il “boom economico” italiano.
Da quarta potenza industriale ci siamo ridotti a prima impotenza planetaria. La politica tassa gli imprenditori per tenere i lavoratori disoccupati: dicono che così gli imprenditori arricchiscono tutti come Paperoni.
Ieri in un supermercato, un cliente che servivo da agente di commercio quasi 20 anni fa, mi chiama:
Franco non mi riconosci?
Certo Giovanni, ché mi racconti di bello?
Ci siamo liberati, l’industria l’abbiamo venduta ai cinesi.
Gli avrei urlato volentieri, “è la democrazia bellezza”, ma per non riaprirgli una ferita, risposi auguri Giovanni avete fatto bene.
Gli Imprenditori onesti italiani, che non riusciranno a svendere le loro ex attività produttive, ai nuovi colonizzatori, (salvo intervento personale del padreterno) alla lunga porteranno i libri contabili in tribunale.
E i lettori che hanno colto il senso di questa mia rassegnata opinione, avranno capito che democrazia e mercato sono compatibili come il diavolo e l’acquasanta.
Per tre quarti di secolo i potenti del mondo ci hanno illuso che con la globalizzazione stavamo costruendo scientificamente la pace: poi è arrivata la guerra dopo la pandemia a dimostrarci che la pace gli è servita per preparare scientificamente la barbarie della guerra.
Franco Luceri da il rebus della cultura