Se l’arbitro gioca la propria partita e…

Se l’arbitro gioca la propria partita e i giocatori in campo non sanno più qual è la porta avversaria
Due mesi per un governo che si poteva fare in ventiquattro ore.
E non è finita

Se l’arbitro gioca la propria partita e i giocatori in campo
non sanno più qual è la porta avversaria

Due mesi per un governo che si poteva fare in ventiquattro ore. 
E non è finita

 Con le elezioni politiche del 2013  tre forze politiche si divisero l’elettorato in parti pressoché uguali. Era palese che nessuno aveva vinto eppure la sinistra non solo ottenne tranquillamente la presidenza del consiglio ma occupò sistematicamente tutte le cariche istituzionali mentre manine misteriose favorivano la transumanza degli eletti nelle liste di Forza Italia e dei Cinquestelle verso una maggioranza che gli elettori non avevano voluto. Per cinque anni siamo stati governati da un parlamento e da un esecutivo non legittimati dal voto popolare. Questo è un fatto.

Le elezioni del 4 marzo hanno segnato la vittoria travolgente di un blocco popolare, diciamo pure populista, rappresentato da un centrodestra a guida leghista e dal movimento Cinquestelle.  Un blocco popolare che ha inferto al partito democratico, vale a dire al Pci riveduto e corretto con qualche avanzo democristiano, una batosta dalla quale non potrà più riaversi. E anche questo è un fatto.


La volontà popolare non poteva esprimersi in modo più chiaro; in tutta la storia della Repubblica non si era mai espressa in un modo tanto evidente. Un’evidenza offuscata dal ruolo ambiguo di Berlusconi all’interno del centrodestra e dallo stordimento che il successo ha prodotto fra i pentastellati. È su questi che i burocrati di Bruxelles attraverso i loro scherani italiani hanno fatto leva per trasformare la vittoria del fronte popolare in due mezze vittorie prima e in uno stallo dopo, dal quale solo gli sconfitti, il Pd punito dagli elettori, ci potranno, secondo i loro piani, liberare.  

Il movimento Cinquestelle ha ottenuto un successo straordinario solo ed esclusivamente grazie a Beppe Grillo. Il comico genovese ha saputo interpretare al meglio gli umori di quella parte del Paese rimasta ai margini del regime cattocomunista e per motivi diversi non intercettabile né dall’opposizione istituzionale né dalle formazioni più radicali di destra (quelle di sinistra, centri sociali in testa, fanno parte del regime). Il suo denominatore comune sono l’odio verso i politici (la casta) e la volontà di un cambiamento quale che sia, purché in grado di rovesciare il sistema attuale. Ma il pifferaio Grillo non era in grado di organizzare il popolo che gli è corso dietro e per controllarlo ha preteso di miniaturizzarlo nella rete, gabellando l’operazione come esperimento di democrazia diretta. 

Il risultato è che a fronte di milioni di elettori qualche migliaio di frequentatori di social network ha creato senza alcun criterio una dirigenza politica improvvisata, peggiore di quella che poteva venir fuori da un sorteggio affidato al caso.


Jean Itard, che nutriva una grande fiducia nelle potenzialità di ogni essere umano, era convinto di poter riportare ad una condizione umana il selvaggio dell’Aveyron ma non si spingeva fino al punto di volerlo all’Eliseo; Grillo, più temerario, e senza nemmeno un programma educativo, intendeva spedire Giggetto Di Maio a palazzo Chigi. Dopo averlo sentito nei panni di fornaio o del duca di Mantova (questa o quella per me pari sono), dopo lo sfogo stizzoso e cattivo seguito alla batosta nelle regionali, a pensarlo come capo di governo viene la pelle d’oca. 

E già questo è un disastro. Un disastro che ne ha creato un altro. Approfittando del vuoto culturale, intellettuale, umano e politico nella dirigenza grillina, Travaglio ha pensato bene di mettere il cappello sul movimento e l’ha rimpolparlo col suo livore antiberlusconiano e giustizialista dopo averlo svuotato dell’originaria vocazione populista. Travaglio, che di mestiere fa l’ospite di talk showe a tempo perso il giornalista, se si fosse candidato nel movimento al quale intende dare la propria identità forse avrebbe preso i voti suo e dei propri familiari. Dico forse perché se fossi nei suoi panni mi guarderei bene dal darmi il voto. Ma in compenso il solo sostegno indiretto di Travaglio di voti ne fa perdere parecchi, almeno quanti l’incedere inquietante di Roberto Fico, la capacità ideativa della capogruppo alla Camera di cui mi sfugge il nome o i twitter del manicheo globetrottere neopapà.

Insomma: undici milioni di elettori che volevano dare una spallata al sistema e a Bruxelles ne hanno dato l’incarico alle persone sbagliate, che si sono affrettate a fare da puntello e a lucidare le scarpe ai burocrati che tirano i fili dell’Europa. Si sente dire che Di Maio, diventato europeista e doroteo, ormai è bruciato, e lo è per davvero; ma c’è qualcuno all’interno del movimento che valga la pena di mettere al suo posto?   Di quelli che si sono visti pareva l’unico presentabile; speriamo di non cadere dalla padella nella brace. 

Quanto al pifferaio e al suo schivo compare che stanno dietro le quinte, il primo ha dimostrato ampiamente che quando scende dal palco perde la trebisonda e comincia a vaneggiare, il secondo è chiuso in un silenzio marmoreo che nessun terremoto politico riesce a scuotere. Nemmeno ora che siamo a un punto di svolta, ora che l’ondata populista rischia di perdersi nello stagno del regime. 

 

In queste condizioni Mattarella, al quale Berlusconi non perde occasione di rinnovare  piena, convinta, viscerale e soprattutto sospetta fiducia, che fa? Non formalizza il fallimento dell’esploratore Fico, quando per dichiarare fallito il tentativo della  Casellati gli erano bastate poche ore, fa passare giorni e settimane, insiste a considerare il movimento perno di qualsiasi esecutivo, glissa sul fatto che il centrodestra è, politicamente e elettoralmente, una formazione politica unitaria ed ha la maggioranza relativa in entrambe le Camere, sembra non sapere che Salvini è ufficialmente il capo dichiarato di quella formazione, non si è accorto dei risultati del voto regionale che hanno ribadito senza ombra di dubbio che il centrodestra è di gran lunga la forza politica maggioritaria nel Paese e che fa?

Siamo al punto che lo stesso Renzi predica inutilmente che a “a chi ha vinto”, cioè al Centrodestra e ai Cinquestelle, spetta il compito di provare a formare un nuovo governo mentre la compagna Claudia Fusani su news Tiscali.it scrive testualmente: «adesso non può che passare da lui (Salvini) il Presidente della Repubblica. Se non lo facesse, se scegliesse subito altra strada, quella dell’incarico tecnico per un governo di scopo, balneare o traghettatore o nei mille modi in cui lo possiamo appellare, potrebbe sembrare un salto logico. E di numeri». La Fusani dice che scotomizzando Salvini Mattarella commette un “salto logico”. In politica “salti logici” non ce ne sono ma colpi di Stato sì, anche quando nessuno li denuncia. 


Con una interpretazione quanto meno bizzarra dell’art. 92 della Costituzione il capo dello Stato può non conferire l’incarico a chi non dimostra di potere contare su una maggioranza parlamentare precostituita. Ma così il passaggio parlamentare rimane solo una formalità e per coerenza in parlamento ci dovremmo mandare i partiti dotati del loro valore ponderale e non individui in carne e ossa. 

Il movimento si sta sbriciolando ed è plausibile che un minimo di rapporto, anche indiretto, con la base elettorale convinca almeno una sua parte ad appoggiare un esecutivo di centrodestra col quale condivide le linee programmatiche e la disponibilità ad ascoltare la volontà popolare.  Plausibile per tutti ma non per Mattarella e qualche opinionista come Padellaro, che la considera un’ipotesi “lunare”. O forse Mattarella lo sa bene che l’ipotesi è tutt’altro che lunare e proprio per questo rischia un “salto logico”? Per dirla tutta: Mattarella glissa su Salvini perché sa che sarebbe bocciato in parlamento o perché teme che potrebbe farcela; vuol essere sicuro che ha i numeri o vuol essere sicuro che non li ha prima di conferirgli l’incarico? E, tanto per non sbagliare, fa finta che non esista e non glielo conferisce.


Non è un caso che in questi stessi giorni sul Corriere appaia puntuale un sondaggio, affidabile quanto lo erano quelli precedenti il referendum prima e le elezioni dopo: sale il consenso nei confronti di Gentiloni, ormai sopra il 53%. Una barzelletta. Ci saranno anche, tutto è possibile, sondaggisti seri e professionali, ma da noi, e non solo da noi, i sondaggi hanno la funzione che a Roma aveva la tribus praerogativa, che votava per prima e il cui voto trascinava quello delle tribù che venivano dopo: vengono usati per influenzare l’elettorato e orientare la pubblica opinione. Ma a Roma si tratta pur sempre di risultati veri e non pilotati come quelli dei sondaggi. In questo caso si tenta di far credere che lasciare al suo posto sine die un presidente del Consiglio che non rappresenta più nessuno e non ha alcuna base parlamentare non sarebbe poi un gran male perché il popolo italiano ha fiducia in lui anche se non si riconosce nel suo partito.

Insomma: Mattarella piace a tutti gli italiani, è scrupoloso garante del dettato costituzionale (per la parte in cui non c’è scritto niente) e incarnazione della nostra democrazia; Gentiloni è un buon papà che veglia su di noi; va bene così, tutto il resto, voto compreso, è fuffa. E intanto l’Europa aumenta fino al 2027 gli stanziamenti a favore dell’Italia destinati all’accoglienza. Per Bruxelles, Parigi e Berlino l’Italia deve restare la pattumiera dell’Europa e, ora che i grillini sono stati messi a cuccia, un governo leghista gli italiani se lo possono scordare. Staremo a vedere.

     Pier Franco Lisorini

 Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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