Se la giustizia è una variabile indipendente
L’ultimo e clamoroso atto di stravolgimento della civiltà giuridica ha visto come protagonista Giorgia Meoni con la complicità dei suoi compari di governo. Un signore di cui non vale la penna ricordare il nome una trentina di anni negli Stati Uniti fu coinvolto in una brutta storia di affari truffaldini e circonvenzione di incapace conclusasi con un omicidio di cui fu giudicato responsabile da un tribunale americano che gli comminò una condanna all’ergastolo.
Bene: se dei governi americani si può dire peste e corna, se è lecito – o doveroso – stigmatizzare il peso che hanno sulla politica estera americana la grande finanza e l’industria bellica, non è però assolutamente giustificabile trattare il sistema giudiziario americano come quello della repubblica delle banane. Sono convinto, al contrario, che da quel sistema l’Italia abbia solo da imparare e che, più in generale, si debba portare rispetto ai tribunali di qualsivoglia Paese perché, come cantava il Poeta dal capello fulvo, sono proprio loro che, con i matrimoni e i sepolcri, hanno sottratto l’uomo alla condizione ferina. Quello che i tribunali ci garantiscono è la dimensione terrena della giustizia: se ne diffidiamo dobbiamo essere consapevoli che non c’è alternativa perché una Giustizia assoluta o divina, se mai ci fosse, interverrebbe comunque troppo tardi. Tanto per dire che se uno viene condannato da un tribunale regolare è colpevole fino a prova contraria. E, nel caso in specie, non mi risulta che esista traccia di una tale prova.
Ma se la Meloni e i suoi accoliti esultano per aver riportato l’omicida in Italia e dalle parti di Telemeloni se ne anticipa il tempestivo ritorno in libertà perché possa occupare lo scranno riparatore che lo aspetta nei paraggi, a sinistra è ancora i corso il processo di beatificazione della maestra picchiatrice. E non importa se la signora è stata presa con le mani nel sacco, ma dovrei dire con in mano il bastone: i bastonati – ci dicono i telegiornali – non erano persone ma nazisti o, per la stampa più moderata e imparziale, individui di estrema destra; quindi dov’è il reato? Ho ancora nelle orecchie lo slogan scandito dai compagni : “Uccidere un fascista non è reato”. Ne è passata di acqua sotto i ponti dell’Arno ma in quel di Pisa c’è ancora gente che sentenzia “Lei – la bastonatrice – è dalla parte giusta della storia” e per sottrarla alle mani e alle catene dell’iniquo tribunale magiaro i compagni che oggi si sono specializzati nella dolce morte e in sesso cangiante, né maschile né femminile o tutti e due insieme, per una volta hanno accantonato le loro rivendicazioni e l’hanno messa in lizza per un posticino al parlamento europeo, che, se verrà eletta, si potrà arricchire della sua statura politica.
Certo, i due casi non sono confrontabili: la signora col bastone non ha ucciso nessuno e non è stata ancora condannata. Ma la sua vicenda è stata l’occasione per denigrare senza argomenti seri un intero sistema giudiziario e le istituzioni di un Paese, l’Ungheria, centrale per la storia e la civiltà europee e al quale ci lega l’epopea risorgimentale. Ed è soprattutto una dimostrazione ulteriore del livello culturale politico e morale della sinistra, che ha aperto la strada al peggior governo che l’Italia abbia avuto dall’Unità ad oggi.
Poi c’è il caso surreale dello studente egiziano adottato dall’università bolognese ansiosa di annoverarlo fra i suoi docenti, condannato in patria per aver pubblicato notizie false sulla libertà di religione considerate dai giudici motivo di discredito per lo Stato e incitamento alla sedizione. Autorità accademiche , media e partiti italiani ne hanno approfittato per uno scomposto e maldestro intervento negli affari interni di uno Stato sovrano, al quale la premier che infila i piedi in tutte le scarpe non si è sottratta rimediandone un meritatissimo sgarbo dal giovane attivista (e una lezione di dignità).
Ora si dà il caso che l’Egitto, uscito fortunosamente dalla tragica stagione della primavera araba organizzata in Occidente, sia stretto nella morsa dell’islamismo radicale dal quale può difendersi solo grazie a un forte potere centrale e ad una rigida legislazione; inoltre gli equilibri politici nel mediterraneo, nel quale gli interessi italiani configgono con quelli degli altri Paesi europei, in particolare francesi, dipendono essenzialmente dai rapporti con l’Egitto, di gran lunga il maggiore fra i paesi arabi, rapporti già compromessi dal caso Regeni. Sollevare un altro motivo di scontro diplomatico sarebbe stata una scriteriata sciocchezza e puntualmente i governanti italiani non si sono fatti scappare l’occasione.
Ora i casi sono due: o le relazioni fra gli Stati rinviano ad una condizione di reciproca incomunicabilità, vale a dire di assenza di un comune quadro di riferimenti, o i singoli Stati declinano con sfumature diverse un unico ideale di organizzazione sociale, nòmos, che rende possibile stringere patti e intrattenere relazioni e implica il riconoscimento e il rispetto dei rispettivi sistemi giudiziari. È stupefacente la leggerezza con cui non privati cittadini ma pubbliche autorità trascurino questa circostanza non appena ci sia un qualche interesse politico da perseguire. Col paradosso che un simile relativismo convive allegramente con la pretesa di giudicare i governanti sulla base di criteri etico-giuridici assoluti ma applicati in modo del tutto discrezionale.
Il tribunale di Norimberga ha fatto scuola: in nome di quei criteri accanto ai gerarchi nazisti sul banco degli imputati avrebbero dovuto sedere il presidente americano e i suoi consiglieri responsabili del terrorismo aereo e dell’ecatombe atomica; il tribunale dell’Aja ne eredita l’ipocrisia nel momento in cui per compiacere gli Usa e la Nato condanna Putin come criminale di guerra ma trascura il vero criminale che attacca obbiettivi civili e bombarda ospedali non per errore o come effetto collaterale ma come obbiettivo primario, rivendica la sovranità ucraina sulla Crimea e sul Donbass e per ribadirla non trova di meglio che sparare missili su chi ci abita: difficile immaginare comportamenti più criminali. Ma i giudici dell’Aja non si lasciano sfuggire la questione palestinese e per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, interpretando ancora una volta il dominus americano, pensano bene di condannare come criminali di guerra i capi di Hamas e Netanyahu. Un intervento stupido e tardivo: la condanna di Hamas a distanza di sette mesi dal pogrom non ha senso e quella di Netanyahu non tiene conto del fatto che una buona parte del popolo israeliano, oltre al legittimo desiderio di vendetta, vorrebbe far sparire i palestinesi dalla faccia della terra per conquistare il proprio Lebensraum: menomale che Bibi c’è.
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