Mandato d’arresto dall’Aja per Netanyahu e Sinwar
Mandato di arresto richiesto da Karim Kahn, Procuratore capo della Corte Penale Internazionale, per tre palestinesi, ovvero Yaya Sinwar ( capo di Hamas a Gaza ), Mohammed Deif ( capo delle Brigate Al Qassam ), Ismail Haniyeh ( leader dell’ Ufficio Politico ), e per gli israeliani Yoav Gallant ( ministro della Difesa ) e Benjamin Netanyahu ( Primo Ministro ).
Ora, senza ovviamente voler dare giudizi sulla quantità e qualità dei vari tipi di materiale ( interviste, sopralluoghi, foto, filmati, documenti etc. ) su cui il Procuratore si è basato, dopo aver evidenziato come sia Israele che Hamas abbiano criticato la suddetta decisione ritenendo che non fosse equa nel mettere sullo stesso piano la controparte, vogliamo sottolineare come anche la stampa italiana e estera abbia focalizzato spesso nei contenuti e nei titoli degli articoli, un aspetto della questione che in realtà è incongruo.
Esemplifichiamo così: se un certo delitto secondo la legge è da punirsi, poniamo, con l’ergastolo, non deve risultare scorretto condannare all’ergastolo il reo solo perché vi è un altro criminale che è ancora più criminale di lui.
Se entrambi hanno commesso qualcosa che va oltre il limite superato il quale è oggettivamente giusto l’ergastolo, devono scontare l’ergastolo.
E al primo non si deve decurtare la pena perché lo si confronta col secondo ( a chiunque si voglia pensare parlando di “primo” e di “secondo”, aggettivi non a caso volutamente usati in senso impersonale ).
Anche perché con una siffatta giustizia comparativa, ne scaturirebbe un pericoloso precedente nel dover decidere sulla pena da comminare a chi venisse giudicato da solo.
Eppure questo è proprio ciò che sta accadendo, tale per cui Israele si rifiuta di essere sanzionato allo stesso modo di Hamas ( al quale ultimo il Procuratore addebita l’accusa di “sterminio e omicidio come crimine contro l’umanità” e, in relazione agli stupri “crimini contro l’umanità e crimini di guerra nel contesto della prigionia”; mentre Hamas si rifiuta di essere sanzionato allo stesso modo di Israele ( al quale ultimo il Procuratore addebita l’accusa di aver appositamente provocato “la fame dei civili come metodo di guerra, come crimine di guerra, come arma di sterminio”, e di aver commesso omicidi e attaccato intenzionalmente i civili.
La pena non deve essere relativa. Deve semplicemente tener conto del reato.
Detto ciò, se si guarda ai giudizi che la richiesta di Karim Kahn ha suscitato nei due belligeranti, e si volge lo sguardo alle esternazioni fatte, esse provengono quasi per intero da Israele, e quasi tutte sono improntate ad un atteggiamento aggressivo e perfino intimidatorio, dal quale si evidenzia come Israele proceda ancora secondo l’idea espressa da Ariel Sharon nel 2001, quando era Primo Ministro:
“Israele può avere il diritto di mettere altri sotto processo, ma certamente nessuno ha il diritto di mettere sotto processo il popolo ebraico e lo Stato d’Israele”.
Viene in mente l’ambasciatore di Israele all’ONU Gilad Erdan che recentemente, mentre riduce in pezzi la Carta delle Nazioni Unite in un tritacarte, dice con voce alterata “Vergognatevi!” ai componenti dell’Assemblea, perché nella sua stragrande maggioranza ( i votanti erano 177 ) non ha votato come gli 8 paesi d’accordo con Israele.
E gli otto paesi che sarebbero gli unici a non doversi vergognare, evidentemente più illuminati degli altri, sono l’Argentina di Javier Milei, la Repubblica Ceca, l’Ungheria di Victor Orban, gli USA, e poi quattro paesi che è persino difficile individuare sulla carta geografica: Papua Nuova Guinea, Nauru, Palau e Micronesia.
Se invece restiamo all’azione della Corte Penale Internazionale, il Presidente americano Biden oltre a ribadire pieno sostegno allo Stato ebraico, ha affermato che valuterà azioni di contrasto verso la Corte ed eventualmente contro lo stesso Procuratore.
Parallelamente a tutto ciò, l’attacco a Rafah va avanti.
Ci si potrebbe chiedere come sia possibile dopo che a Netanyahu il Presidente americano aveva al riguardo posto una sorta di veto, assistere all’invasione che attualmente si sta verificando.
A tal fine bisogna tener presente che in politica e in diplomazia un’affermazione va valutata parola per parola.
Così scopriamo che quello che ha detto il Consigliere per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti Jake Sullivan, ovvero di disapprovare l’invasione “su larga scala”, gli ha consentito per un verso di stoppare le critiche di una fetta notevole di opinione pubblica, studenti delle Università in testa, e per l’altro di non ostacolare Netanyahu in quello che aveva pianificato.
In altre parole, dire ad alta voce ai mass media che si disapprova la invasione di Rafah su “larga scala”, significa insieme sussurrare nelle orecchie del governo dello Stato ebraico che il veto di invaderla pezzo per pezzo comunque non c’è, e che perciò nulla osta alla tattica di giungere ad una situazione di fatto irreversibile ( come quella presente in Cisgiordania dove ormai, se anche Israele mostrasse di accettare le tante risoluzioni dell’ONU che gli intimano di restituire i territori occupati, non si potrebbe materialmente sgomberare 750.000 coloni e trovar loro un’altra degna sistemazione ).
I bombardamenti eclatanti su larga scala infatti risulterebbero politicamente troppo imbarazzanti da gestire davanti ad un mondo che guarda ad una caccia all’uomo che ha sortito il risultato, finora, di oltre 35.000 morti ( ma c’è chi sostiene che siano più di 43.000 ) di cui 15.900 bambini, 10.300 donne, 141 giornalisti e 19000 orfani, e ha causato 81.000 feriti e la distruzione di 136.000 edifici, a fronte di nessun ostaggio riportato a casa.
Coloro ai quali anche un’invasione su larga scala sembra invece andare bene, subito e massiccia, sono i coloni ideologicamente vicini alla destra sionista.
A dimostrarlo gli assalti ai camion di derrate alimentari destinate ai gazawi all’altezza del check-point di Turqumiya.
La tempistica di scarico-distribuzione e il tragitto avrebbero dovuto restare segreti, ma sembra che ai coloni siano stati rivelati da componenti dell’esercito stesso, ufficialmente all’insaputa del Governo israeliano.
Il risultato è stato la distruzione e dispersione del carico (farina, sacchi di grano, pasta, latte in polvere…) secondo l’idea che a Gaza tutti sono complici di Hamas e perciò distruggendo il carico di aiuti alimentari e affamando ulteriormente la popolazione, si colpisce anche Hamas.
Una volta portati all’esasperazione e resa invivibile la Striscia, la speranza dei coloni è che finalmente i gazawi la lascino libera “spontaneamente”, senza uso delle armi.
Questa sarebbe solo un’ipotesi (per quanto condivisa da molti e col passare del tempo sempre più palese) se non ci fossero anche documenti, israeliani, a corroborarla. Nonché frasi pubblicamente pronunciate da importanti esponenti dello Stato ebraico.
Eccone due, individuate tra le tante, perché hanno la significativa caratteristica di essere state pronunciate dal primo e dall’ultimo premier in ordine di tempo di Israele:
“Noi dobbiamo espellere gli Arabi e prenderci i loro posti” [David Ben Gurion]
“Israele avrebbe dovuto approfittare dell’attenzione del mondo sulla repressione delle dimostrazioni in Cina, quando l’attenzione del mondo era focalizzata su quel paese, per portare a termine una massiccia espulsione degli arabi dai territori” [Benjamin Netanyahu].