Ripartire
Ripartire significa in genere riprendere la marcia con un veicolo, rimasto fermo per avaria, dopo che si è riparato il guasto. Ma siamo sicuri che il guasto sia stato riparato?
“Uscire dal tunnel”, “tornare alla normalità”. La voglia di considerare la brutta esperienza della pandemia come un semplice incidente di percorso è comune a tutti i livelli.
Un esempio. Dopo un tira e molla durato un paio d’anni, di fronte al dilagare della plastica in ogni angolo del pianeta, la montagna di Bruxelles nel 2019 ha finalmente partorito il topolino: bando a tutti gli oggetti in plastica monouso; ma non subito: si sono concessi due anni di tempo per riorganizzarsi seguendo vie alternative, spostando al 2021 l’entrata in vigore della direttiva SUP (Single Use Plastic).
Apriti cielo! Il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ammonisce che “attivare la SUP significa chiudere un intero settore industriale”. Gli dà manforte l’ineffabile Giorgetti, “leghista bocconiano” rimasto in sordina da quando si è insediato al ministero per lo Sviluppo Economico, che ora apre bocca per mettere in guardia da un “approccio ideologico, che lascia sul terreno morti e feriti”. Eppure, si tratta di una direttiva UE, e Giorgetti è stato proprio il tessitore della “svolta europeista” della Lega.
Che l’UE su tanti, troppi fronti sia deficitaria è fuor di dubbio (pensiamo solo alla sua inesistenza quando si tratta di immigrazione clandestina: è di ieri lo scontato NO di Francia e Germania alla loro redistribuzione), ma quando prende atto di un problema colossale come quello della presenza ubiquitaria della plastica –e in particolare della micro-plastica- e presenta assennate soluzioni di contenimento, non si può opporre un muro in base a posizioni sterilmente conservatrici dello status quo.
All’UE va riconosciuto il primario merito di rappresentare il continente più virtuoso nell’affrontare il problema globale dell’inquinamento, a differenza di Asia, Africa e Americhe.
Se mettiamo sotto la lente una nazione come la Cina, diventata di fatto la fabbrica sporca del mondo, seguita a ruota dall’India ed altre nazioni del Sud Est asiatico, rimango di sasso al leggere la recente decisione del suo governo di alzare da due a tre il numero di figli “concessi” per coppia, dopo il precedente salto a due rispetto al figlio unico permesso dal regime maoista.
Eppure, il pensiero “dietro le quinte” del governo ombra mondiale, con tanto di grafici presunti fino al 2100, è quello di un dimezzamento, spontaneo o più probabilmente forzato, della popolazione mondiale, a maggior ragione in nazioni sovraffollate come proprio India e Cina. Altrove, ad esempio in Nigeria, dove non vige il pugno di ferro di un regime totalitario, il popolo non ha ancora fatto il cruciale passaggio dalla cultura tribale a quella urbana, e le donne sono perennemente incinte, con proiezioni fino a mezzo miliardo di abitanti nel 2050. Una prolificità che aveva un senso quando la mortalità, specie infantile, era altissima, ma totalmente dissennata dopo il fenomeno di inurbamento massivo in atto ormai a livello globale.
Ma perché persino la Cina ha progressivamente ceduto sul fronte del contenimento demografico? Per lo stesso motivo che induce le nazioni dove le coppie si fermano al figlio unico, come l’Italia, a guardare all’immigrazione indiscriminata come la soluzione della sproporzione tra vecchi e giovani, tra pensionati e lavoratori. Ogni decrescita demografica, comunque conseguita, deve fare, più prima che poi, i conti con l’inevitabilità di questo squilibrio. L’Italia l’ha raggiunto dopo il pensionamento dei figli del boom economico esploso dopo le miserie della guerra, quando c’era tutto da ricostruire, quindi lavoro per tutti e, non secondario, un ottimismo diffuso sulle prospettive future. L’esatto contrario di oggi.
Contrario, in quanto ciò che si costruisce oggi non riguarda beni essenziali, bensì per la maggior parte beni superflui, promossi non più per necessità di chi ne usufruisce, ma per tenere in piedi l’apparato produttivo, trasformando i mezzi in fini. Sotto questa visuale, la frase di Giorgetti è perfettamente funzionale: la plastica monouso si deve continuare a fare per mantenere in vita un “intero comparto industriale”. Con buona pace dell’ambiente. E non è ideologia consumistica proprio la sua? Non è rincorsa alla crescita per tener testa, con l’aumento del Pil, alla lievitazione del debito pubblico e privato, e soddisfare l’appetito di banche e finanza?
Si noti come l’utilità, specie sociale, di un bene, non ne determini, ipso facto, la priorità. Faccio un esempio: è assodato che buona parte dell’acqua potabile si perde nelle condotte di trasporto dal punto di prelievo a quello di distribuzione. Con l’acqua che è divenuta un bene sempre più raro e pregiato, si legge di acquedotti, in particolare al Sud, stranamente interrotti dopo anni di lavori, o tarati da perdite di oltre metà del loro carico idrico. In questi casi, mi chiedo se non abbia più senso proporne il completamento o il risanamento, affinché svolgano in pieno la loro funzione di utilità pubblica, anziché privilegiare altre produzioni inquinanti, giustificate soltanto perché “danno lavoro”. Non dà forse lavoro il completamento o la riparazione di opere pubbliche lasciate andare in malora per motivi più o meno confessabili? O il lavoro ha un senso soltanto quando produce rifiuti e profitti privati?
Questa logica distorta conferma quanto ho già avuto modo di enfatizzare: si è accettata l’astensione dal lavoro di mezza Italia in nome della salute collettiva; ma si levano gli scudi se viene fatta la stessa richiesta a un settore ben delimitato, come quello della plastica, a tutela dell’ambiente; come se salute di uomo e ambiente non coincidessero. Eppure, a fronte degli alti lamenti dei settori fermati d’imperio con il lockdown, si è arrivati a dire che, in questo mondo dinamico, quei settori avrebbero dovuto “convertirsi a forme di produzione innovative”, sulla scia delle tanto osannate start up. Quelle stesse bocche si guardano bene oggi dal fare un analogo invito ai produttori di plastiche monouso. Eppure sarebbe, in senso lato, più facile cambiare oggetti di produzione nel campo delle plastiche (passando da monouso a oggetti di lunga vita) che “convertire” una palestra, una piscina, un bar, un ristorante, un negozio, un impianto sciistico, e via dicendo. Chi più ha sofferto la pandemia è stata la vasta schiera dei lavoratori autonomi, le piccole partite Iva che non si è cessato di elogiare come la “spina dorsale della nazione” (salvo tacciarle di evasione fiscale, sorvolando sulla precarietà di lavori in cui ammalarsi vuol dire perdere un reddito, non conoscere orari, festività, ferie; ed essere subissati da continui espletamenti burocratici che succhiano tempo e tanti, tanti soldi).
Tra l’altro, l’auspicato ritorno alla normalità è tribolato anche da un inaudito aumento dei prezzi delle materie prime, dopo la dormienza dovuta al virus. Ciò si configura come una seconda traversata del deserto, dopo quella dovuta al Covid, per migliaia di imprese. Secondo La Stampa del 2 giugno, sono in sofferenza migliaia di imprese artigiane (oltre 15.000 solo nel savonese), con aumenti medi dei costi di energia e materiali di oltre il 50%, con picchi di +88% del ferro, + 77% dello stagno, +73% del rame. Una situazione aggravata dalla loro difficile reperibilità sul mercato, che fa lievitare prezzi già alle stelle. Questi prezzi sono l’ennesima conferma che le materie prime, sia energetiche che minerarie, si devono estrarre da giacimenti sempre più difficili –e quindi costosi- da raggiungere e sino a pochi anni fa impensabili, come miniere terrestri di grande profondità, fondi oceanici, zone artiche e/o impervie; con l’aggravio di costi ed inquinamento in costante salita.
Non ci sono scorciatoie indolori a questa dura lex naturale, anche se il mainstream vuol farcelo credere, parlando di green economy. Sento ancora proporre l’obsoleto linguaggio della crescita in stile berlusconiano, puntando sull’edilizia e sull’automobile, indicati come irrinunciabili motori dello “sviluppo”, senza capire che puntare alle stelle significa accelerare la caduta nelle stalle.
Per raschiare il fondo del barile e tirare avanti secondo i medesimi schemi sinora adottati non c’è che una strada: accelerare lo sconquasso di Africa, Asia e Americhe da parte di Europa, USA e Cina, chiudendo gli occhi sulle conseguenze a medio e ormai anche breve e brevissimo termine, e spalancare le porte ad una immigrazione selvaggia in Europa, per rinviare il redde rationem del calo demografico e del collasso del sistema pensionistico. Si tratta, in tutta evidenza, di un mero rinvio, cui si giungerebbe attraverso sconvolgimenti sociali, economici e culturali che cambierebbero, anche esteriormente, l’aspetto di tutto il territorio urbano e agricolo, abbandonando il resto all’azione di fenomeni sempre più estremi.
Se è questo il mondo che vogliamo lasciare a figli e nipoti, procediamo così. L’alternativa è e rimane: meno consumi, meno persone e, con ciò stesso, meno inquinamento.
Se esiste una frangia politica consapevole dei rischi di questo progresso e insieme dotata del coraggio per affrontarli batta un colpo. Col sistema democratico di elezioni quadriennali non credo ne esista una, avendo un orizzonte di troppo breve respiro. E allora la palla passerà -sta già passando- ad assetti politici di stampo espressamente oligarchico. Come del resto già in fieri in tanta parte del mondo, anche se, purtroppo, non per consapevolezza ambientale, ma per pura sete di potere personale.
Marco Giacinto Pellifroni 6 giugno 2021