Riflessioni intorno alla repressione del brigantaggio

BENE O MALE FU ITALIA UNITA 
Riflessioni intorno alla repressione del brigantaggio

BENE O MALE FU ITALIA UNITA 
Riflessioni intorno alla repressione del brigantaggio
 

Gramellini e Fruttero non me ne vorranno se ho utilizzato parzialmente il titolo del loro ultimo lavoro, anzi è proprio leggendolo che sono stato stimolato ad approfondire gli avvenimenti successivi alla proclamazione dell’unità d’Italia, quelli che vengono identificati con l’espressione “repressione del brigantaggio nel mezzogiorno “.

Nel breve flash che Gramellini dedica all’argomento, esordisce con ”anche l’Italia ha avuto il suo Afganistan e non se lo ricorda più” e continua affermando che quella che lo stato ha combattuto contro i briganti fu una vera guerra con migliaia di morti e violenze inaudite. Il forte piemontese di Fenestrelle si trasformò in un teatro di torture come Guantanamo.

Ero a conoscenza che le cose non fossero andate così come le abbiamo apprese a scuola, ma non ho mai avuto la percezione della dimensione del fenomeno, soprattutto del livello di repressione sulla popolazione inerme e del numero enorme di deportazioni al nord.

Sono rimasto stupito dalla quantità di materiale a disposizione, dalla vastità di documenti, analisi, saggi che negli anni si sono accumulati.

 

6.564 arresti, 5.212 condanne a morte, 54 paesi rasi al suolo, di cui uno dei più efferati fu il massacro di Pontelandolfo e Casalduini, più di un milione di morti. Il regno delle due Sicilie nel 1859 aveva nove milioni di abitanti. Fu sterminata l’11% della popolazione. E’ difficile non pensare ad un genocidio. Alcuni storici la considerano una vera pulizia etnica, la prima perpetrata in occidente delle popolazioni meridionali, regolata dalla legge Pica emessa dal governo Minghetti nel 1863, che permetteva di fucilare seduta stante chiunque fosse trovato in possesso di un’arma.

Che ci si trovasse di fronte ad una repressione capillare, sistematica, paese per paese lo si deduce dalle forze in campo: nel 1865, anno del massimo sforzo della resistenza meridionale, la guardia nazionale aveva a disposizione più di 300.000 uomini. Riferiva “la civiltà cattolica-vol 11°” che, sommando tutti i morti, il loro numero sarebbe senza fallo, assai maggiore di quello dei voti del plebiscito (strappati con la punta del pugnale e la minaccia del moschetto.”) E’ bene ricordare che i SI al plebiscito furono 1.302.064. i NO 10.312 ; senza essere di parte non si può dar torto al redattore della rivista.

Si deve pertanto fare riferimento ad almeno un milione trecentomila vittime, la gran parte fra la popolazione non belligerante. L’azione di repressione piemontese era così scandalosa che persino Massimo D’Azeglio fu costretto a dichiarare pubblicamente: “ so che di qua del Tronto non ci vogliono 60 battaglioni per tenere il regno, di là si…, si deve quindi o cambiar principi o cambiar atti. Agli italiani che non vogliono riunirsi a noi non abbiamo diritto di dare archibugiate.” Invece continuarono archibugiate e cannonate.

Chi erano i briganti, cosa ha rappresentato il brigantaggio? Giustino Fortunato, uno dei più acuti studiosi della questione meridionale, ha sostenuto che il brigantaggio non era stato un tentativo di restaurazione borbonica e di autonomismo, bensì un movimento spontaneo storicamente rinnovatosi ad ogni cambiamento politico, frutto di secolare abbrutimento di miseria e di ignoranza delle nostre plebi.

Le prime forme di una diffusa reazione si hanno dopo il plebiscito del 21 ottobre 1860, per mezzo del quale i piemontesi cercarono di legittimare la loro presenza. L’inizio della repressione dell’esercito unitario fece affluire nelle bande migliaia di uomini: soldati della disciolta armata reale delle 2 Sicilie, coscritti che si rifiutavano di arruolarsi, prigionieri di guerra liberati, pastori, braccianti, intellettuali.

Tutti ritenevano di combattere contro una visione del mondo estranea alle proprie tradizioni civili e religiose. Passarono alla storia come briganti e malfattori.

Alla caduta di Francesco II dopo la battaglia del Volturno, iniziarono le deportazioni al nord. Gli accordi per la resa prevedevano che i soldati e gli ufficiali del disciolto esercito regio potevano essere integrati nell’esercito unitario oppure lasciati liberi. Pochissimi accettarono di continuare la ferma, qualche ufficiale cominciò ad organizzare sacche di resistenza a Napoli. Il generale Cialdini non rispettando gli accordi, stivò almeno 5000 prigionieri in due piroscafi con destinazione Genova. Fu il primo di diversi viaggi per il trasferimento di prigionieri al nord.

Il forte di S.Benigno fu trasformato in un campo di concentramento di transito, mentre a S.Maurizio

Canavese, Alessandria, Parma, Modena, Bologna, Savona (forte del Priamar), vi furono strutture di detenzione stabili, se la parola lager ci sembra troppo forte. Nel Priamar fu relegato Giuseppe Santomartino uff. borbonico fatto prigioniero alla caduta della fortezza di Civitella del Tronto. Fu condannato a morte, pena poi commutata a 24 anni in seguito alle pressioni francesi. Dopo pochi giorni di detenzione fu trovato morto, probabilmente fu “suicidato”…, ma non fu mai aperta un’inchiesta. Fu il primo di una lunga serie di “suicidi” della nostra storia.

Nessuno di questi luoghi sfiorò però la fama sinistra del forte di Fenestrelle. Più che un forte era un insieme di forti collegati da una ciclopica cortina bastionata che seguiva le asperità del luogo, a cui si sommava un clima veramente rigido reso ancor più insopportabile dai guardiani che avevano pensato bene di portar via porte e vetri alle finestre. I prigionieri erano coperti di cenci, senza pagliericci, senza coperte, senza luce e con mezza razione di pane e brodaglia. I più, costretti a muoversi con ceppi, catene, ed una palla al piede di 16 kg . Spesso le persone segregate non sapevano di che cosa fossero accusate e venivano loro sequestrati tutti i beni,( alcuni malpensanti dissero che la vera motivazione fosse questa) molti non erano registrati. Pochissimi riuscirono a sopravvivere. La sopravvivenza media dei prigionieri non superava i tre mesi ed i corpi dei morti venivano disciolti nella calce viva collocata in una grande vasca dietro alla cappella.

Una morte senza onore, senza tombe, senza lapidi affinchè non restassero tracce dei misfatti compiuti. Fu un vero campo di sterminio.

“ Tutti i criminali meridionali dovrebbero essere deportati in un luogo disabitato e lontano migliaia di km dal bel paese, in Patagonia per esempio.” Non si tratta dell’ultima provocazione leghista bensì delle parole di un presidente del consiglio italiano, Luigi Menabrea. E’ il 1868 ed il brigantaggio è ben lungi dall’essere risolto, così il governo italiano decise di cambiare strategia: deportare i briganti in luoghi desertici e lontani in modo da recidere i legami con il territorio.

 

Un progetto perseguito per oltre 10 anni che fallì solo per non aver trovato la disponibilità di alcun paese straniero a cedere le aree. E’ stata la Gazzetta del mezzogiorno di Bari a rendere pubblico il piano di deportazione rintracciandone il progetto nell’archivio storico della Farnesina. Furono contattati gli Inglesi per un’area sul mar Rosso, gli Argentini per una terra in “quelle bagnate dal Rio Negro” cioè la Patagonia. Fu la volta del console generale a Tunisi a cui fu chiesto di studiare la possibilità di insediare una colonia penale italiana. Di fronte all’ennesimo no, Menabrea si rivolse di nuovo agli Inglesi per l’isola di Socotra (tra la Somalia e lo Yemen) o quantomeno fare da tramite con l’Olanda per avere una disponibilità nel Borneo.

Il sud d’Italia uscì da più di 10 anni di guerra al brigantaggio veramente stremato. L’agricoltura azzerata, l’industria, specialmente quella metallurgica, molto fiorente durante il regno delle due Sicilie, chiusa o lasciata decadere. L’industria tessile più moderna trasferita al nord. La popolazione rurale piombò in una miseria assurda. Intravide l’unica salvezza nell’emigrazione, non rimaneva altro che espatriare. Si calcola che dal 1870 al 1900 emigrarono non meno di 5 milioni di persone, la maggior parte in Sud e Nord America. Fu una delle più grandi ondate migratorie di tutti i tempi.

 

I Padri della Patria potevano far meglio? Forse si. Gaetano Salvemini già nei primi anni del 900 affermava: “ bisognava creare un’amministrazione civile, un esercito, una flotta, un sistema tributario e scolastico per popoli vissuti per 12 secoli sotto governi separati con consuetudini eterogenee “.

Salvemini pensava ad uno stato confederale ma non fu il solo. Già Pio IX auspicava per l’Italia una lega federativa che avrebbe incluso stato pontificio, regno di Sardegna, granducato di Toscana, regno delle due Sicilie, con la presidenza di Pio IX stesso e ne fissò i termini in una “bozza del trattato per la lega italiana.” Sicuramente il Papa voleva garantire il suo potere temporale che sentiva in pericolo, ma nello stesso tempo dimostrò una lungimiranza politica notevole. Il granducato di Toscana ed il regno delle due Sicilie erano pronti a costituire la federazione però non venne mai ratificata per la strenua opposizione del Piemonte, spalleggiato dai massoni italiani ed inglesi.

Perché Cavour si oppose così aspramente alla nascita di uno stato confederale e portò avanti con tutti i mezzi una politica di annessione? Una risposta si potrebbe trovare in alcune cifre di quegli anni elaborate dal Banco di Napoli.( una delle tre banche dello stato unitario.)

Bilancia commerciale degli stati italiani al momento dell’unità d’Italia:

Regno delle 2 Sicilie           +41 Milioni

Lombardia                           +42 M

Umbria, Marche                   +11 M

Regno di Sardegna e P         -85 M

 

Riserva aurea equivalente di alcuni stati al momento dell’unità d’Italia:

Regno delle 2 Sicilie:         +445 M

Lombardia                           +8,1 M

Granducato di Toscana       +85 M

Regno di Sardegna e P       + 27 M

 

Risulta abbastanza evidente che il Piemonte con l’operazione unità d’Italia ripianò il suo enorme debito pubblico, aggravato in massima parte dalla 2° guerra di indipendenza, ed il suo deficit commerciale. Alla luce di questi elementi si spiega concretamente la grossa preoccupazione che Cavour nutriva nei confronti di Garibaldi che, una volta liberato tutto il meridione dai Borboni, avesse avuto la tentazione di creare una repubblica del Sud invece di rispettare i patti e facilitarne l’annessione al nascente stato italiano.

La politica di annessione nei fatti si trasformò in una politica colonizzatrice. Gli investimenti al sud furono quasi nulli sino ai primi del 900, quando si realizzò l’unica opera strutturale: l’acquedotto pugliese. Il solco che continua a dividere sia economicamente che culturalmente l’Italia in due ha quindi origini ben note. La politica assistenziale degli anni 50-60 con la Cassa del Mezzogiorno ha assestato il colpo di grazia, nonostante siano state profuse notevoli risorse.

 

Oggi dopo150 anni, ci ritroviamo con una parte del governo che si rifiuta di festeggiare la ricorrenza e manomettendo il significato della parola federalismo, sta insinuando nella politica nazionale una sorta di secessionismo economico con l’obbiettivo non dichiarato di scaricare le regioni del sud.

Rocco Mitidieri

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