Quando il degrado diventa abitudine

 
Quando il degrado
diventa abitudine

 Quando il degrado diventa abitudine

Lo striscione di benvenuto -ben illuminato- sulla facciata della nostra nuova casa in Liguria parlava chiaro: “ADESSO SONO CAVOLI VOSTRI”. Col passare del tempo capiremo che il suo significato, a quel momento, non ci era chiaro per niente. Dopo anni di residenza all’estero eccoci qui, liberi da impegni lavorativi e con un reddito discreto, pronti a godere la così detta terza età. Oramai pensiamo che il periodo di assuefazione non finirà mai, cioè che la possibilità della totale ‘integrazione’ in un ambiente, che pur mi ha dato i natali, è di fatto ridotta al minimo.


Ma questo non è la cosa che ci fa disperare. Abbiamo capito che, dopo una vita passata all’estero, con esperienze die cooperazione e coesistenza con diverse culture a livello sia privato che pubblico, un resto di incompatibilità ci sarebbe dappertutto. Però qui il ‘calvario’ dell’incomprensibilità che porta all’irritazione ed infine all’avversione sembra essere di un’entità superiore ad ogni possibilità di assuefazione. Non parlo della bottiglietta buttata lungo la strada o del televisore abbandonato vicino ad un qualsiasi raccoglitore di immondizia, e neanche della borsa di plastica vuota buttata fuori dal finestrino. No, forse è la somma di questo, o addirittura la paura che questo avvenga. Dover girare l’angolo ed aver timore di vedere questo e doverti costringere a girare l’angolo perché devi passare di li. E quando hai girato l’angolo il degrado è lì, non ti delude! Visibile, palpabile.

Lo registri con tutti i tuoi sensi. ‘Ma questo non è mica abitudine’ mi dirai. Purtroppo ti devo dar ragione. Purtroppo perché oramai l’assuefazione non è rivolta al degrado, ma alla mia incapacità di abituarmici e mi sorprendo a meravigliarmi di me stesso quando -molto raramente- vengo tradito. Un luogo pulito, una persona che spegne il motore della macchina quando si ferma a fare due chiacchiere o va a prendere un caffè, oppure un’altra che si sposta dal marciapiede quando stai per arrivare mentre lei è ferma a twittare, sono tutte situazioni che ormai mi scombussolano non poco. Non mi fido! Mi fermo e controllo se è vero, poi voglio proseguire ma c’è una macchina ferma sulle strisce che chiude il passaggio. L’autista sta ‘sfregiando’ lo smartphone. Oramai il fatto che, senz’altro quando vado di nuovo in posta per sbrigare una qualsiasi formalità, qualcosa nel regolamento è cambiato, mi dà sicurezza. Posso continuare a vivere così come prima, sicuro che l’elettricista verrà in ritardo, oppure telefonerà due ore dopo l’appuntamento per dire che non può venire. Guai se viene davvero al giorno e all’ora prefissati. Mi sento tradito. A volte mi sorprendo ancora -a dir la verità molto di rado- a lamentarmi di qualcosa che non funziona, così per dire qualcosa al bar e scopro che lo faccio solo per sentirmi rispondere: ‘Eh sì, siamo in Italia’. Immerso in questo modo di pensare, che di per sé è degrado, arrivo al punto di credere che senza aver la possibilità di ‘mugugnare’ non posso vivere in questo paese. Una totale distorsione del pensiero.

 

 Le visite degli amici d’oltralpe poi non mi aiutano per niente, con i loro continui tentativi di ‘togliermi’ il ‘mio’ degrado. Le loro bonarie pacche sulle spalle ed i loro ‘rilassati’ dai! Siamo in Italia’. Loro si sono in Italia, di passaggio. Con la pizza, la pasta, il Barolo (o Bardolino a seconda del portafoglio). Io sono qui con un certificato ASL che scade il 31 marzo e che lo si può prolungare solo il 1 aprile, e non sono solo all’ASL il 1 di aprile. Osservando piccoli e meno piccoli cimiteri d’auto disseminati lungo la vallata mi scopro ad inveire contro i rovi che tra poco nasconderanno i cadaveri di Punto, Fiesta e magari pure un vecchio SUV, non vecchio abbastanza e magari con il nome sbagliato. Rovi che paradossalmente stendono un pietoso manto sul veleno che tra non molto intaccherà le loro radici.

 

Ma questi rovi, visti dalla dovuta distanza, nascondono la ruggine velenosa sottostante e si intonano con le croci bianche del cimitero alla loro destra e l’uliveto in prospettiva, creando il tipico paesaggio mediterraneo. Mentre tu non mi capisci, amico lontano, io non capisco loro, i miei concittadini. Sempre troppo vicini e paurosamente rumorosi. Che cos’è che porta il mio vicino -contadino per hobby- a passare e ripassare sotto la finestra con un enorme trattore? La domenica mattina alle sette e mezza? ‘Siamo in campagna’ mi ha detto un giorno. A volte penso che il tutto è semplicemente un malinteso, cioè quello che per me è degrado, per loro è normale. No, non ci sto, perché anche loro nel loro mugugno quotidiano si lamentano del degrado e condiscono il tutto con ‘Siamo in Italia’. Che sia forse disattenzione alla base di tutto? Forse per il fatto che questo popolo è perennemente in contemplazione del proprio ombelico, non si accorge che c’è un contenitore per l’immondizia vicino all’aiuola, sulla quale ha appena buttato la bottiglietta di plastica vuota.

 

Mi arrampico sugli specchi frugando nel mio cervello per trovare situazione simili vissute in altri paesi europei, specialmente del Nord, ma non ho fortuna. Costringo i miei neuroni a trasmettermi immagini o situazioni spiacevoli magari anche da paesi che ‘godono’ di un’immagine simile a quella di questo paese. Niente. Sembra proprio che mi trovo in una situazione unica, ormai abituato a non potermi abituare. Ormai da tempo ho sempre lo stesso sogno: Sono in viaggio in Irlanda, sulla strada fra Athalone e Galway. I bambini che giocano sul prato vicino all’accampamento dei ‘Tinkers’ mi salutano sorridendo. Nessuna traccia di rifiuti attorno al ‘camp’, niente borse di plastica o bottiglie vuote lungo la strada. Mi sveglio sudato e prometto -ancora frastornato- che non andrò mai più in Irlanda. Adesso smetto, senza aver finito. Mi arrendo così, con questa logica dell’incompiuto, con questo esercito di ‘inizi’ non continuati, per un qualsiasi motivo o forse solo per l’incapacità di decidere, conseguenza dell’insicurezza che sfocia nella paura di sbagliare e non ha altra via d’uscita che l’arrognza. Ma forse è semplicemente menefreghismo. Se al momento non ho i soldi per finire la costruzione, perché ho sbagliato i conti, allora fermo i lavori, andando ad infoltire quell’esercito di ruderi grigi che ornano le vallate e le colline. Chi se ne frega se una rete di plastica rossa sostituisce una parte di ringhiera lungo la strada per indicare uno squarcio causato da un incidente. Incidente successo ben sette anni fa.

PAOLO BIANCO

 

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.