Ricordare non basta

RICORDARE NON BASTA

Dedicare un giorno alla memoria della Shoah è certamente un atto dovuto agli ebrei e a tutte le altre vittime che sono “passate per il camino” dei forni crematori dei campi di sterminio nazisti; ma è proprio il minimo.  

RICORDARE NON BASTA

Dedicare un giorno alla memoria della Shoah è certamente un atto dovuto agli ebrei e a tutte le altre vittime che sono “passate per il camino” dei forni crematori dei campi di sterminio nazisti; ma è proprio il minimo;  e per di più sarebbe del tutto inutile se negli altri trecento sessantaquattro giorni dell’anno ce ne dimenticassimo. Ricordare la Shoah, infatti, significa ricordare che non ci sono limiti al male che l’uomo può fare all’uomo, quindi a se stesso. E tanto meno ci sono limiti quanto più il male si commette in nome di un presunto bene. I nazisti assassinavano gli ebrei e gli altri prigionieri, dopo averli sfruttati fino allo stremo delle forze, perché quello era il dovere, il compito, la funzione che il Capo carismatico, il Fuehrer, aveva loro assegnato per la grandezza e la vittoria del Terzo Reich.


 Il fine, per tutti i bravi tedeschi che lavoravano con zelo allo sterminio degli Untermenschen, era buono, e si sarebbero anzi sentiti in difetto se non avessero obbedito agli ordini dei gerarchi hitleriani. Come spiega Hannah Arendt nel suo articolo Colpa organizzata e responsabilità universale (1945): “Il fatto che ognuno, qualunque sia il suo ruolo, attivo o no, in un campo di sterminio, sia costretto a prendere parte, in un modo o nell’altro, al funzionamento di questa macchina di sterminio: questa è la cosa orribile. Infatti, l’assassinio di massa sistematico – la vera conseguenza di tutte le teorie razziali e delle altre moderne ideologie che proclamano che la ragione è del più forte – altera non solo la capacità di pensare degli esseri umani, ma anche la struttura e le categorie del pensiero politico e dell’azione”. Per cercare di capire come è stato possibile che persone “normali” abbiano potuto agire senza fiatare come semplici ingranaggi della mostruosa macchina dello sterminio, la Arendt sostiene che “a nulla ci serviranno le riflessioni sulla storia tedesca e sul cosiddetto carattere nazionale tedesco, le cui potenzialità, quindici anni fa, erano del tutto ignote anche a chi conosceva molto bene la Germania”. Niente infatti faceva sospettare, prima che i nazisti prendessero tutti i poteri, che proprio dalla patria di Kant, di Lessing, di Schiller, di Novalis, di Beethoven, di Goethe, di Heine, di Hegel, di Marx, di Thomas Mann e di Bertolt Brecht venisse all’Europa e al mondo quello che anche papa Wojtila ha chiamato il “male assoluto” di Auschwitz. Per cercare di comprendere l’incomprensibile non serve interrogare la storia ma, semmai “la personalità tipica dell’uomo che può vantarsi di essere lo spirito organizzatore dell’assassinio di massa: Heinrich Himmler non è uno di quegli intellettuali provenienti dall’oscura No-Man’s Land che separa il bohémien dal ruffiano, la cui importanza, nella composizione dell’ élite nazista , è stata in seguito più volte sottolineata.


Heinrich Himmler

Egli non è un bohémien come Goebbels, né un criminale sessuale come Streicher, né un pervertito fanatico come Hitler, né un avventuriero come Goering. E’ un bourgeois, con tutte le caratteristiche esteriori della rispettabilità, tutte le abitudini di un buon paterfamilias che non tradisce la moglie e che si preoccupa di assicurare ai figli un futuro dignitoso; eppure ha consapevolmente creato un’organizzazione terroristica senza precedenti, attiva in tutto il paese, in base al presupposto che la maggior parte delle persone non siano né bohémien, né fanatici, né avventurieri, né maniaci sessuali. Né sadici ma, innanzitutto, onesti lavoratori e buoni padri di famiglia”. C’è qui in nuce l’idea della banalità del male, cioè della sua incapacità di pensare (bene e al bene), di far riflettere sulle azioni orrende che induce a compiere, di vedere al di là del proprio naso o del proprio interesse o piacere  immediato, nel non sentirsi parte di un ingranaggio distruttivo, insomma nel non rendersi (o nel non voler rendersi) conto di quello che  fa e perché lo fa, quindi rifiutandosi di assumersi ogni responsabilità.  Il male, secondo la Arendt (come per Primo Levi, che parla di “zona grigia”), non è stupido, è cieco. “I termini della questione sono stati ben definiti da un corrispondente americano in un servizio che riporta un dialogo degno dell’immaginazione e della forza creativa di un grande poeta:

D. Avete ucciso delle persone nel campo? R. Sì.

D. Le avete avvelenate con il gas? R. Sì.

D. Le avete bruciate vive? R. Sì, qualche volta è successo.

D. Le vittime venivano prelevate da ogni parte d’Europa? R. Penso di sì.

D. Lei personalmente ha preso parte alle uccisioni? R. Assolutamente no. Nel campo ero solo ufficiale pagatore.

D. Che cosa pensava di quello che accadeva? R. All’inizio era spiacevole, ma poi ci siamo abituati.

D. Sa che i russi la impiccheranno? R. (Scoppiando in lacrime) Perché dovrebbero? Che cosa ho fatto di male?

   
Adolf Eichmann

Ecco il punto: che male c’è nell’eseguire degli ordini? Che male c’è nel non essersi ribellati? Che male c’è nello svolgere coscienziosamente il proprio compito senza pensare ad altro? Possibile essere condannati a morte per aver fatto il proprio dovere? E’ quello che si chiedeva anche Adolf Eichmann, responsabile dell’ufficio centrale per la sicurezza del Reich, condannato a morte per impiccagione dopo un lungo processo a Gerusalemme, il 31 maggio del 1962. La Arendt, inviata come giornalista del settimanale New Yorker,  fu colpita dal fatto che Eichmann non avesse un aspetto mostruoso né demoniaco, ma quello di un tranquillo impiegato statale, un uomo comune e mediocre, che pure era stato capace di compiere azioni mostruose e, come lui, tanti altri burocrati dello sterminio. Come è stato possibile che uomini così normali e comuni abbiano potuto commettere delitti così enormi? Secondo la Arendt è stato possibile perché Eichmann, come altri criminali nazisti, ha agito in un contesto che lo deresponsabilizzava, cioè che gli impediva di pensare autonomamente. Nel non pensare dunque, non nella stupidità, è l’origine del male assoluto che ha reso possibile la negazione della vita e dell’umanità di cui Auschwitz è ormai per sempre l’immagine emblematica. Eppure la vita, o meglio, la non vita dei prigionieri costretti a lavorare anch’essi – ultima perfidia degli aguzzini nazisti – per la grandezza e la vittoria del terzo Reich era  minuziosamente regolata e pianificata secondo un’organizzazione pensata in modo tale da sfruttare al massimo la forza lavoro a costo quasi zero rappresentata dai prigionieri stessi. Nei Lager, si potrebbe dire, niente avveniva per caso; come si sa anche l’eliminazione dei vecchi, dei malati e dei bambini era pianificata con criteri, diciamo così, industriali ed economici: con una modica quantità di gas letale si poteva sopprimere un elevato numero di Untermenschen i cadaveri dei quali venivano ridotti in cenere nei forni crematori.


Non era un ciclo perfetto di produzione, consumo e smaltimento delle scorie (umane)? Che male c’è? E qual è la funzione del pensiero in tutto questo? Himmler ed Eichmann, e lo stesso Adolf Hitler non erano forse anche loro uomini? Si fa presto a dire: erano delle bestie, subdole come serpenti e feroci come…lupi? Ma tutti sanno che i lupi sono feroci soltanto se affamati (come, d’altronde, anche i cani aizzati dalla SS contro i prigionieri che uscivano dai ranghi o cadevano per stanchezza nelle marce forzate ai luoghi di lavoro o al ritorno ai loro rispettivi blocchi nel Lager), chi era più feroce, il cane o l’uomo che lo aizzava contro persone inermi e stremate dalla fatica? Fino a prova contraria le bestie agiscono per istinto – anche se, per esempio, gli esperimenti sugli scimpanzé e sui topi dimostrano che imparano a evitare certi percorsi disagevoli e a sceglierne altri più facili per raggiungere il cibo – e non ragionano perché non possono, mentre gli uomini, anche se sovente non sembra, sono dotati di ragione e, se non la usano, non è perché non possono ma perché non vogliono, dato che, in quanto uomini, sono dotati di libero arbitrio e di volontà. Hitler, Himmler, Goebbels e gli altri criminali nazisti non è che non ragionassero, il problema è che ragionavano male e scelsero di andare verso il nulla e la morte propria e degli altri invece che verso l’essere e la vita, propria e degli altri.  Andiamoci piano quindi nel dare delle bestie agli assassini nazisti (o stalinisti o americani o islamisti) e ai tanti assassini, anche adolescenti, di cui ci narrano le cronache passate e recenti. A proposito di uomini e di bestie raccomando all’autore dell’articolo “Il male esiste ed è in mezzo a noi”, uscito su “Trucioli savonesi” domenica scorsa, nel caso non lo avesse già fatto, la lettura della novella “Il fumo” di Luigi Pirandello. 

 FULVIO SGUERSO

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