Qualcosa sull’undicesima Operetta: “Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare”
Torquato Tasso, il grande poeta rinascimentale, venne rinchiuso nel carcere-ospedale di Sant’Anna, a Ferrara, dopo le intemperanze di cui fu protagonista mentre era alla corte del duca Alfonso d’Este. Lì lo troviamo a dialogare col suo Genio Familiare.
Nella presente Operetta Leopardi immagina di essere il testimone invisibile, di cui Torquato non sa, del dialogo tra Torquato stesso e un altro invisibile, il Genio familiare, di cui Torquato invece sa ( o crede di sapere ) e tanto bene, che lo sente e, forse, lo vede.
Sappiamo che quest’incontro tra i due, il poeta della Gerusalemme e lo spirito, avvenne all’ingrosso nei primissimi mesi della prigionia.
Con precisione invece sappiamo che non fu l’unico, perché l’un personaggio per desiderarlo, l’altro per sollevare in veste d’amico, angelo custode, o lare, l’animo del poeta rinchiuso, di quando in quando si incontravano a discorrere.
Non esattamente del più e del meno, perché un uomo, prima ammirato e onorato da tutta la corte, cui viene tolta la libertà, non discorre del più e del meno; ma di cose importanti e profonde.
Dell’amore per Leonora, intanto, che al solo pensarla gli lenisce la sofferenza della solitudine e gli fa rinascere dentro quel brivido di gioia che per un attimo lo rinfranca dalla punta dei capelli alla punta dei piedi e gli ridà forza e speranza.
– Genio: Quale delle due cose stimi che sia più dolce: vedere la donna amata o pensarne?
– Torquato: Non so. Certo che quando mi era presente, ella mi pareva una donna; lontana, mi pareva e mi pare una dea.
Da buon amico, il Genio teme che l’idea tutta romantica ( e in particolare leopardiana…) della dolce vaghezza della lontananza venga meno nei pensieri di Torquato, e perda campo, e da ultimo possa minare la sua salvifica illusione.
Così, per condurlo lontano da acque insidiose che ancor più lo sprofonderebbero, e per cercar di tener insieme speranza e verità, il Genio si affida a una trovata geniale qual da lui che innalza abbassando l’idea di donna salvifica da celeste a terrestre per esser più celeste in umiltà:
– Genio: Coteste dee sono così benigne, che quando alcuno vi si accosta, in un tratto ripiegano la loro divinità, si spiccano i raggi d’attorno, e se li pongono in tasca, per non abbagliare il mortale che si fa innanzi.
– Torquato: Tu dici il vero pur troppo. Ma non ti pare egli cotesto un gran peccato delle donne; che alla prova, elle ci riescano così diverse da quelle che noi le immaginavamo?
– Genio: Io non so vedere che colpa s’abbiano in questo, d’esser fatte di carne e sangue, piuttosto che di ambrosia e nettare [ … ]. E anche mi pare strano, che non facendovi [ a voi uomini ]meraviglia che gli uomini sieno uomini, cioè creature poco lodevoli e poco amabili; non sappiate poi comprendere come accade, che le donne infatti non sieno angeli.
– Torquato: Con tutto questo, io mi muoio dal desiderio di rivederla, e di riparlarle.
– Genio: Via, questa notte in sogno io te la condurrò davanti; bella come la gioventù [ … ]
– Tasso: Gran conforto: un sogno in cambio del vero.
Battuta, questa, che dà il destro a Leopardi per introdurre il tema della verità, tra l’altro paradossalmente sollecitato da chi vero non è ma appare tale, e che sùbito rimanda alla stessa domanda di Pilato a Cristo: Che cosa è la verità? Questa la risposta:
– Torquato: Pilato non lo seppe meno di quello che lo so io.
– Genio: Bene, io risponderò per te.
E gli dice che tra il vero e il sogno l’unica differenza è che qualche volta il secondo è molto più bello e dolce del primo, per cui non c’è da rammaricarsi che un piacere nasca dal sogno.
Ma da una domanda soddisfatta ne sorge un’altra da soddisfare ad essa legata, proprio sulla natura del piacere; che per il Genio nessuno conosce realmente ma solo per speculazione, non essendo un fatto, ma il desiderio di un godimento sempre ulteriore anche quando si è raggiunto quello che prima si pensava fosse la meta dei propri desideri, di cui non ci si contenta, e si mira ad altri più innanzi, come l’elefante che volesse correndo raggiungere il suo naso.
>Se il sogno ci pare reale nel sonno, accade che anche nella veglia ci renda sonnambuli, perché chiunque accetta di vivere, finge con se stesso di credere di aver goduto in passato e di aver da godere in futuro, e può farlo solo perché non è più in quel passato e non è ancora in quel futuro; tanto che se una macchina del tempo là lo riportasse, e li facesse entrambi presenti, se ne lagnerebbe rifugiandosi in altro passato e desiderando un altro futuro.
E dunque il piacere è solo questo di immaginare in altrove. E nel qui ed ora, mai. Cosa che fa del presente un terreno fertile soltanto per i dolori e, per colui che si è privato dello schermo dell’illusione, per la noia.
E qui abbiamo il terzo motivo dell’Operetta: dopo che cos’è il vero e che cos’è il piacere, ora, appunto, che cos’è la noia.
E’ il Genio questa volta a porre la domanda, perché non lui ma solo un umano può saperlo.
– Torquato: Qui l’esperienza non mi manca, da soddisfare alla tua domanda. A me pare che la noia sia della natura dell’aria.
Basta questa imbeccata perché il Genio prenda la parola, spieghi e completi, come se avesse posto la questione a se stesso, dicendo che se l’aria si interpone in qualunque spazio lasciato tra un corpo materiale e l’altro, questa lo fa negli intervalli tra i piaceri ( rari, sottilissimi e fragili come le ragnatele ), e i dispiaceri, riempiendo il vuoto con l’insofferenza per il vuoto.
Dopodiché, considera, è un destino comune a tutti, cui si può far fronte solo con il sonno, l’oppio e, soprattutto, il dolore.
La replica del poeta ha il tenore di chi la incassa come una magra, magrissima consolazione; una medicina che ammazza malato e malattia, se non fosse che la mente si abitua a conversare tra sé e sé, e a chiacchierare del più e del meno, a volte persino con tante persone insieme.
La risposta del Genio a simile considerazione è che non deve smettere di lasciar radunare tanti soggetti, perché antidoto alla solitudine e perché lo possono preparare, al rientro nella società, di nuovo libero, a non restare deluso dai discorsi di chi, mai prigioniero, è in carne ed ossa eppure parla come di vento al vento, senza lasciare segno ed annoiando più di impalpabili fantasmi, mentre lui saprà almeno apprezzare di quel poco che può ancora dare il mondo.
Ma è giunto il momento del commiato:
– Genio: Io ti lascio; che veggo che il sonno ti viene entrando; e me ne vo ad apparecchiare il bel sogno che ti ho promesso [ … ]. Addio.
– Torquato: Addio. Ma senti. [ … ]. Acciò da ora innanzi io ti possa chiamare o trovare quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di abitare.
– Genio: Ancora non l’hai conosciuto? In qualche liquore generoso.