Qualcosa sulla decima Operetta: “Dialogo di un fisico e di un metafisico”
Presentandosi con un “Eureca, eureca”, il Fisico ci fa capire da subito che quanto ha scoperto, pensa lo innalzerà al livello dei massimi scopritori di ogni tempo.
L’espressione mica per nulla ricalca quella famosa di Archimede. Addirittura egli crede di averne surclassato il genio perché la sua scoperta non riguarda qualcosa di funzionale alla vita come erano le invenzioni dello scienziato siracusano, ma la vita stessa, nel senso che il libro che egli ha scritto e che porta orgogliosamente sotto il braccio è una sorta di elisir cartaceo per allungarla.
Di doppio significato per l’autore in quanto oltre agli anni in più per tutti da aggiungere a quelli che altrimenti sarebbero stati i pochi decenni di cui mediamente gli umani dispongono, a lui darà la gloria di essere ricordato in eterno.
Il Metafisico, impietoso, gli gela l’entusiasmo:
– Fa una cosa a mio modo. Trova una cassettina di piombo, chiudivi cotesto libro, sotterrala, e prima di morire ricordati di lasciar detto il luogo, acciocché vi si possa andare, e cavare il libro, quando sarà trovata l’arte di vivere felicemente.
Considerato che si tratta di una stroncatura bella e buona, quasi stupisce che il Fisico non si inalberi, non si arrocchi, e non controbatta in qualche modo un interlocutore che con un consiglio colorito gli ha demolito l’invenzione realizzata e la speranza di darne seguito concreto.
Sa che non è malevolo quanto si è sentito dire, e non fa il risentito troncando il discorso. Anzi gli riconosce sincerità chiedendo
– E in questo mezzo? Cioè nel frattempo che si sia trovata l’arte di vivere felicemente?
Altra stroncatura: nel frattempo il frutto di tanto impegno e dedizione alla causa, potrebbe solo avere una qualche utilità se rivelasse l’arte non di vivere molto, ma di vivere poco, perché in tal modo abbrevierebbe l’infelicità.
E qui, con la replica del Fisico, si entra nel bel mezzo della disanima esistenziale su come mai si sia così attaccati alla vita nonostante tutte le traversìe, la fatica e in una parola il dolore che costa vivere, e viene richiamato il dato esperienziale per cui nessuno vuole morire.
Siamo all’inizio dell’Operetta, ma concettualmente già al cuore di essa.
Affrontare questa, e poi tutte le successive affermazioni del Fisico, richiede al Metafisico una risposta elaborata; di cui comunque l’argomento principe sta nel dire che in realtà l’uomo ama la felicità, e siccome senza la vita non la potrebbe vivere ( ci muoviamo in un’area tra tautologia e grammatica dell’oggetto interno ) la prospettiva dell’intreccio dell’una con l’altra lo induce in errore, allo stesso modo di come si pensa
che i colori sieno qualità degli oggetti; quando non sono degli oggetti, ma della luce. [ … ]. Vero è che questo inganno e quello dei colori sono tutti e due naturali. Ma che l’amore della vita degli uomini non sia naturale, o vogliamo dire non sia necessario, vedi che moltissimi ai tempi antichi elessero di morire potendo vivere, e moltissimi ai tempi nostri desiderano la morte in diversi casi, e alcuni si uccidono di propria mano. Cose che non potrebbero essere se l’amore della vita per se medesimo fosse natura dell’uomo. Come essendo natura di ogni vivente l’amore della propria felicità, prima cadrebbe il mondo, che alcuno di loro lasciasse di amarla e di procurarla a suo modo. Che poi la vita sia bene per se medesima, aspetto che tu me lo provi, con ragioni o fisiche o metafisiche o di qualunque disciplina. Per me, dico che la vita felice, saria bene senza fallo; ma come felice, non come vita.
A questo punto il Fisico che mostra di non essere troppo assuefatto all’arte dialettica oppure poco convinto di quanto sostiene, sposta subito il discorso su altro, essendo questo loro presente argomento troppo malinconico, per quanto affine, con la domanda che vorrebbe lumi sul piacere che ne avrebbe l’uomo di vivere in eterno.
La risposta del Metafisico è assai particolare, perché si affida alla mitologia, e racconta di Chirone, dei fratelli Bitone e Cleobi, di Agamede e Trofonio, le cui favole tutte terminano con la morte cercata da loro o concessa loro in dono dagli dei; magari dopo aver campato mill’anni, come accadeva agli Iperbòrei, che stanchi di tutto il necessario e il superfluo di cui disponevano senza impicci e senza dover scontare vizi o colpe o malattie, o far guerre o subirle e simili altre cose, si gettavano in mare da una rupe perché il mare mettesse fine alla loro esistenza.
Dopodiché, continua il Metafisico, bisogna vedere cosa si intenda per vita. Del semplice sentirsi presenti a se stessi, dell’aver coscienza propriocettiva d’essere al mondo, ha già detto e ha già negato il valore; ma ora concede come
quello che forse più degnamente ha nome altresì di vita, voglio dire l’efficacia e la copia delle sensazioni, è naturalmente amato e desiderato da tutti gli uomini: perché qualunque azione o passione viva e forte, purché non ci sia rincrescevole o dolorosa, col solo essere viva e forte, ci riesce grata, eziandio mancando di ogni altra qualità dilettevole.
E da lì consegue che se vi fossero uomini in cui si concentrassero senza intervalli vuoti le sensazioni ( emozioni, impressioni, sentimenti, etc. ) di una vita intera in una vita di durata dimezzata, questi avrebbero la stessa quantità di vita di chi la vive dilazionata in un tempo doppio, e sarebbero più forti e vivaci nelle operazioni della loro mente e del loro corpo. Dacché, conseguenza della conseguenza, si ricava che desiderabile non è l’essere pur di essere, ma il solo essere felici, e che il godimento e la fortuna di un’esistenza non si misurano dal numero dei giorni. Perciò
non solo io non mi curo dell’immortalità [ … ], ma in cambio di ritardare o interrompere la vegetazione del nostro corpo per allungare la vita [ … ] io vorrei che la potessimo accelerare in modo, che la vita nostra si riducesse alla misura di quella di alcuni insetti, chiamati efimeri, dei quali si dice che i più vecchi non passano l’età di un giorno, e contuttociò muoiono bisavoli e trisavoli. Nel qual caso, io stimo che non ci rimarrebbe luogo alla noia.
Ma il Fisico non è persuaso del ragionamento, perché essendo convinto che il giorno più nero per ogni uomo sia l’ultimo, procrastinarlo con la scoperta svelata nel suo libro diventa opera meritoria, che dà la felicità di allontanare l’infelicità.
Al che il Metafisico conclude la loro discussione con un consiglio che, seguìto, dovrebbe giovare a tutti gli uomini: trovare un’arte con cui moltiplicare in numero e gagliardìa le loro sensazioni e azioni, salvandoli da un’esistenza che altrimenti, trascorsa per tanta parte nell’ozio e nel tedio, sarebbe piuttosto durare che vivere.
Perché la vita, se anche non ha da essere salutata con degli “eureka!”, una cosa deve almeno essere: viva.