Qualcosa sulla ventiduesima Operetta: “Dialogo di Plotino e di Porfirio”

Pubblicata per la prima volta nel 1845 nell’edizione Le Monnier quando il poeta era morto già da 8 anni.
Nelle edizioni precedenti non era stato possibile per questioni di censura.
E’ un dialogo tra due filosofi del III secolo dell’era cristiana: Plotino, maggiore rappresentante del neoplatonismo, e Porfirio, suo allievo.
Il tema è quello del suicidio.
Nessuno dei due è la perfetta controfigura di Leopardi, ma entrambi rappresentano aspetti diversi e in coabitazione della sua anima.

Più motivi possono aver determinato la scelta di Leopardi di individuare proprio in questa coppia di intellettuali i protagonisti più consoni. Ma tre paiono preponderanti:
– La presenza effettiva nella biografia e nella bibliografia  ( scrisse un libro sul tema del suicidio ) di Porfirio della tentazione suicidaria.
– Il bisogno di far interloquire Plotino e Porfirio su un personaggio come Platone che, appartenendo essi al neoplatonismo, conoscevano ovviamente bene e che serviva, come si potrà constatare, da schermo per parlare in maniera molto critica del cristianesimo.
– La presenza nella “Vita di Plotino” scritta dal discepolo, di un passo che poteva servire validamente da prologo:
Una volta essendo io Porfirio entrato in pensiero di levarmi di vita, Plotino se ne avvide: e venutomi innanzi improvvisamente, che io era in casa; e dettomi, non procedere sì fatto pensiero da discorso di mente sana, ma da qualche indisposizione malinconica; mi strinse che io mutassi paese.

Al prologo segue l’Operetta vera e propria costituita da dialoghi la cui costruzione e i cui contenuti vengono affrontati, dato l’argomento delicato e personale, con estremo tatto e finezza:

Plotino – Porfirio, tu sai ch’io ti sono amico; e sai quanto. [ … ] Già sono più giorni che io ti veggo tristo e pensieroso molto; hai una certa guardatura, e lasci andare certe parole: in fine, senza altri preamboli e senza aggiramenti, io credo che tu abbi in capo una mala intenzione.

Porfirio – Come, che vuoi tu dire?

Plotino – Una mala intenzione contro te stesso. Il fatto è stimato cattivo augurio a nominarlo. Vedi, Porfirio mio, non mi negare il vero; non far questa ingiuria a tanto amore che noi ci portiamo insieme da tanto tempo.[ … ].

Porfirio – Io non ti ho mai disdetto cosa che tu mi domandassi, Plotino mio. Ed ora confesso a te quello che avrei voluto tener segreto, e che non confesserei ad altri per cosa alcuna del mondo; dico che quel che tu immagini della mia intenzione, è la verità. Se ti piace che noi ci ponghiamo a ragionare sopra questa materia [ … ] io sono disposto di fare anche di ciò a tuo modo.

E da lì Porfirio inizia a  elencare le ragioni ( o i vuoti di ragione ) secondo cui il suicidio sarebbe una soluzione ammissibile ai problemi della vita. Ragioni a tratti integrate, a tratti condivise, a tratti respinte  dall’amico interlocutore. Fondamentalmente

– Il tedio per la vita, a sua volta figlio del riconoscere la vanità di ogni cosa, anche la più quotidiana.

– L’infelicità ontologica dei viventi

– La mancanza di motivazioni a sperare

– I fastidi e i patimenti esperienziali dell’esistenza, accidentali ma inevitabili.

– La solitudine dell’uomo.

Almeno in elenco era indispensabile indicare le questioni che nel dialogo vengono dibattute, affinché non si creda che esso tratti solo di ciò su cui invece ci soffermeremo quasi per intero, ovvero una parte che occupa quasi metà dell’Operetta e che approfondisce la nefasta e malsana, a dire di Porfirio, influenza esercitata da Platone in relazione al tema del suicidio.
Il discorso scaturisce dalla risposta che Plotino pensa di dare al riguardo richiamandosi, per quanto in preterizione, al veto che Platone mette al suicidio, perché non accetta che l’uomo si arroghi il diritto di sottrarsi, come uno schiavo che fugge, al carcere nel quale per volontà degli Dei si trova rinchiuso.
La risposta di Porfirio è quella di una persona sofferente e decisa nonché stanca di intellettualismi verso i quali sospetta che inclini il discorso, per cui, con una certa insofferenza che non ci aspetteremmo potesse darsi tra un allievo e un maestro, ma che sùbito dopo capiamo possibile per l’amicizia e confidenza che intercorre tra i due, lo invita ad uscire dai libri e a rientrare nella realtà.
E’ uno dei passaggi forse più belli dell’Operetta, e vale la pena di essere riportato non perché abbisogni di una qualche spiegazione, che anzi è chiarissimo, ma per la sincerità e naturalezza con il quale è espresso.
Rende cioè bene l’idea di chi, già di per sé abbattuto, rampogna, badando tuttavia a farlo dalla sottintesa postura dell’amicizia, chi dà mostra di rifugiarsi nella citazione.

Porfirio – Ti prego, Plotino mio; lasciamo da parte adesso Platone, e le sue dottrine, e le sue fantasie. Altra cosa è lodare, comentare, difendere certe opinioni nelle scuole e nei libri; ed altra è seguitarle nell’uso pratico. Alla scuola e nei libri, siami stato lecito approvare i sentimenti di Platone e seguirli; poiché tale è l’usanza oggi: nella vita, non che gli approvi, io piuttosto gli abbomino.

E con questo rimbrotto verso l’amico che gli pare non abbia compreso che se colui il quale è tentato di trafiggersi con un pugnale o di affrontare gli spasimi del veleno pur di liberarsi dalla vita è giunto a quel punto ( e tanto più se ha avuto modo di conoscere e meditare il parere autorevole e contrario di qualche grande del pensiero che per primo e come un’àncora di salvezza avrebbe avuto convenienza a condividere ), significa con certezza più che matematica di come tale parere non gli rappresenti una via d’uscita. E che una via d’uscita che alcuni sostengono sempre ci sia, per chi non la vede semplicemente non c’è.
Così, per dimostrare all’amico che il piano esistenziale non sempre è in continuità e sintonia con quello logico, inizia a muovere una lunga e articolata critica al filosofo ateniese.
Cosa che potrebbe stupire essendo Porfirio un neoplatonico, ma che tenendo presente la delusione per l’approccio alla discussione, sia pur solo accennato, intrapreso da Plotino, e il fatto più generale che quella neoplatonica non è, come il nome della medesima scuola filosofica può far credere, una riviviscenza del platonismo tout court ma piuttosto una rilettura che da un lato ne acquisisce diversi aspetti ma dall’altro se ne allontana in maniera considerevole ( tanto da fungere, tramite Agostino d’Ippona, come recupero e riutilizzo della filosofia classica in chiave cristiana ), non dovrebbe stupire più.

Le recriminazioni formalmente sono indirizzate a Platone, ma in realtà gli strali di Leopardi sono scagliati contro il cristianesimo; operazione resa possibile da una certa affinità del mondo della purezza iperuranica delle idee con il regno che non è di questo mondo ( Giov.18,36 ), i quali, in quanto realtà eterne premiali, inevitabilmente prevedono un castigo, espresso anche inintenzionalmente allo stesso modo di come la faccia di una medaglia non può darsi senza l’altra opposta, con una sua realtà progettuale, oppure senza, come deprivazione del premio previsto.
Comunque sia ciò va ad intorbidare e a confondere la sincerità delle scelte e del comportamento e a renderne irriconoscibili le intenzioni. Innanzitutto nel soggetto in cui si generano, che non potrà né davvero conoscersi, né davvero valutarsi.
Ebbene, Leopardi, stabilita questa affinità carsica e tuttavia palpabile tra Platone e cristianesimo, tanto da consentirgli di neanche rimarcarla esplicitamente, è pronto adesso a intessere incaricandone virtualmente Porfirio, una intemerata fingendo di confrontarsi direttamente con Platone al quale se lo avesse innanzi, direbbe che se pure il suo fine fosse stato di mettere in circolo certe dottrine della vita ultramondana affinché gli uomini, spaventandosi, si ritenessero dal vivere nell’ingiustizia e dall’operare il male, sarebbe comunque detestabile.
“Non ti bastava”, gli chiederebbe, “una forza oscura a signoreggiare l’universo e a calpestare senza ritegno e senza fine la nostra specie la quale sulle altre pretende primati detenuti infatti solo per l’infelicità! Hai con la tua dottrina fatto sì che il nostro ultimo farmaco e speranza, e consolazione contro la sofferenza, la morte, perdesse il suo potere lenitivo e venisse meno il suo conforto.<
Tu hai infettato le menti con il tarlo del dubbio sulla effettualità della pace eterna, che giungesse finalmente definitiva, senza il tremore del Giudizio, che potrebbe oltreché per il male voluto e commesso, essere decretato sotto forma di castigo così per le opere esemplari ma insincere quanto per le opere grame ma compiute nell’ignoranza. Per cui

Tu sei cagione che si veggano gl’infelicissimi mortali temere più il porto che la tempesta, e rifuggire coll’animo da quel solo rimedio e riposo loro, alle angosce presenti e agli spasimi della vita. Tu sei stato agli uomini più crudele che il fato o la necessità o la natura. E non si potendo questo dubbio in alcun modo sciorre, né le menti nostre esserne liberate mai, tu hai recati per sempre i tuoi simili a questa condizione, che essi avranno la morte piena d’affanno, e più misera che la vita. Perciocché per opera tua, laddove tutti gli altri animali muoiono senza timore alcuno, la quiete e la sicurtà dell’animo sono escluse in perpetuo dall’ultima ora dell’uomo. Questo mancava, o Platone, a tanta infelicità della specie umana.

Ebbene, questo crollo che hai causato dell’ultima diga ha provocato il dilagare della paura, dell’ipocrisia, della censura, del calcolo, ha insieme cancellato il sopruso, la violenza, la calunnia, il tradimento, l’egoismo? No. Perché nei veramente onesti essi non avrebbero albergato comunque, e ne ha solo aumentato l’ ansia a dismisura per lo scrupolo di essere pronti ad assumersi la colpa anche per cose piccole, o minime, o inesistenti e solo sospettate. Mentre gli altri che già non si lasciano spaventare dalla prima punizione cui in ordine di tempo andrebbero incontro, quella dei tribunali degli uomini, così come non hanno l’immaginazione di capire il male che arrecano agli altri, altrettanto non arrivano ad immaginare del male che gliene verrà: si sentono sufficientemente scevri da ogni remora da preoccuparsi solo del proprio tornaconto e di pensarci ancor più ad agio non trovando concorrenza in chi ponendosi dei freni morali lascia loro campo libero per mettere in atto le loro azioni criminali.
Il rispettare le regole degli uni favorisce ed è benvenuto dagli altri che hanno più spazio per calpestarle, i quali se conoscessero quanto li privilegia il tuo pensiero, ti eleggerebbero a loro paladino e campione.
Con tutto ciò, l’idea insana della remunerazione nel tuo Eliso è anche inutile, tenuta in pochissimo conto o in nessuno, perché la sua dolcezza è arcana e nascosta e il premio è generico, astratto, indeterminato e ideale come altro non potrebbe essere nel mondo delle Idee, mentre il Tartaro non è essenza ma concrezione massima del timore e tremore nell’ipogeo dei mali sperimentati e fuggiti in vita.

Così per le tue dottrine il timore, superata con infinito intervallo la speranza, è fatto signore dell’uomo.           

 Il tuo decreto che all’uomo sia barbarie porre fine ai suoi giorni, è esso la vera barbarie, perché non concede che lottare pur di vincere l’orrore della morte, significa che la sua disperazione è più profonda della morte stessa.
E’ vero che gli animali non uccidono se stessi, ma è perché hanno meno intelletto da comprendere la loro condizione. E tuttavia se volessero farlo, la loro scelta di liberarsi dai loro mali non sarebbe compressa e compulsata da divieti, dubbi e minacce.

 Ecco che tu ci rendi anco in questa parte, inferiori alle bestie: e quella libertà che avrebbero i bruti se loro accadesse di usarla; quella che la natura stessa, tanto verso noi avara, non ci ha negata; vien manco per tua cagione nell’uomo. In guisa che quel solo genere di viventi che si trova esser capace del desiderio della morte, quello solo non abbia in sua mano il morire.

 La natura, il fato e la fortuna ( entità che a volte paiono fondersi e altre distinguersi ) ci perseguitano fino allo strazio, e invece di soccorrerci tu accorri e ci costringi in una camicia di forza mettendoci alla mercé dei loro colpi i quali, impietosi, non ti muovono a pietà.
Colpevole dell’infelicità umana, dunque, la natura; ma più colpevole tu, della natura figlio e dell’uomo fratello eppure insieme suo nefasto aguzzino perché gli hai tolto l’ultimo scudo, la facoltà di abbandonarsi nelle braccia del nulla; che era una ragione in più, non in meno, per cui al nulla continuava a resistere rimanendo attaccato alla vita. Era un potere, il nostro, estremo. Era il veleno nascosto sotto le unghie del guerriero che, catturato, sa lo attenderebbe la tortura reiterata fino alla fine.
L’eternità eterea e diafana delle Idee ce ne ha privato.

Di modo che la gravezza intollerabile della infelicità nostra, non da altro principalmente si dee riconoscere, che da questo dubbio di potere per avventura, troncando volontariamente la propria vita, incorrere in miseria maggiore che la presente. Né solo maggiore, ma di tanto ineffabile atrocità e lunghezza, che posto che il presente sia certo, e quelle pene incerte, nondimeno ragionevolmente debba il timore di quelle, senza proporzione o comparazione alcuna, prevalere al sentimento di ogni qual si voglia male di questa vita. Il qual dubbio, o Platone, ben fu a te agevole a suscitare; ma prima sarà venuta meno la stirpe degli uomini, che egli sia risoluto.

 Immediatamente dopo, Porfirio precisa che queste cose le direbbe a Platone se davvero questi fosse stato l’ideatore di quelle dottrine. Ma sapendo bene che non lo è stato nonostante molti gliele attribuiscano, lascia intendere come il suo discorso sia rivolto ad altri, tra i quali, per prima e soprattutto, la forma del cristianesimo che ha prevalso.
Dopo tanto ragionare assennato e sofferto, ciò giunge come un colpo di scena, con il quale Porfirio in maniera quasi brusca propone di passar oltre, forse ancora non del tutto raffreddato per aver sentito il maestro appoggiarsi all’autorevolezza di un referente di una statura tale da poter da solo vanificare con la sua fama la dialettica coerente del più sottile dei rétori, anziché lasciarsi andare ad un ragionamento proprio.
Plotino si scusa, a sua volta affidandosi a poche misurate parole che cercano di non ferire l’animo di chi in quel momento è in una fase di profondo disagio e travaglio:

Porfirio, veramente io amo Platone, come tu sai. Ma non è già per questo, che io voglia discorrere per autorità; massimamente poi teco e in una questione tale: ma io voglio discorrere per ragione. E se ho toccato così alla sfuggita quella tal sentenza platonica, io l’ho fatto più per usare come una sorta di proemio, che per altro.

E quindi Plotino ora può, appianato il fraintendimento, palesare il suo pensiero e finalmente cominciare a rivelargli i motivi per cui è convinto che il suicidio non possa essere lecito.
Gli risponde Porfirio:

Mi pare che alle tue ragioni si possa rispondere con molte altre, e in più modi.

 E ciò avvia ad un confronto in cui Plotino vorrebbe prevalere per soccorrere l’amico, e in cui Porfirio vorrebbe, ma non trova, ragioni per soccombere.
Sarà una lotta atipica, solidale e franca nell’opposizione; nell’alternarsi delle tesi, scavate nell’esistenza e sullo sfondo dell’irreversibilità.

Fulvio Baldoino

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