Qualcosa sulla tredicesima Operetta: “Il Parini ovvero della gloria”

La seconda, per lunghezza, delle Operette.
Divisa in capitoletti che vanno da un minimo di una pagina a un massimo di cinque.
Mancando la forma dialogica che ravviva il contenuto con lo spezzarlo e renderlo più coinvolgente, la lettura della presente Operetta rischia di affaticare, perciò si è condensato al massimo il suo contenuto e se ne sono enucleate alcune idee.”Qualcosa”, appunto.
Un condensare ed enucleare che viene facilitato in questo caso dalla originaria suddivisione in dodici capitoli, che perciò opportunamente ( e opportunisticamente ) viene mantenuta.

Capitolo primo

Non compare nessun dialogo, cioè nessuna alternanza segnalata dalla punteggiatura, ma di dialogo idealmente si tratta perché sebbene non ci sia traccia di interlocuzione, c’è chi ascolta le parole del Parini, ovvero uno dei suoi discepoli più promettenti. Il tema è la gloria.
Ma perché proprio Giuseppe Parini?

La risposta testuale dell’autore è che

fu alla nostra memoria uno dei pochissimi Italiani che all’eccellenza delle lettere congiunsero la profondità dei pensieri, e molta notizia ed uso della filosofia presente [ … ]. Fu eziandio, come è noto, di singolare innocenza, pietà verso gl’infelici e verso la patria, fede verso gli amici, umiltà d’animo, e costanza contro le avversità della natura e della fortuna, che travagliarono tutta la sua vita misera ed umile, finché la morte lo trasse dall’oscurità.

Ebbene, dopo averci informato che il protagonista aveva parecchi discepoli ai quali

insegnava prima a conoscere gli uomini e le cose loro, e quindi a dilettarli coll’eloquenza e colla poesia

ci informa anche che con uno di essi,

un giovane di indole e di ardore incredibile ai buoni studi, e di espettazione maravigliosa, venuto non molto prima nella sua disciplina, prese un giorno a parlare in questa sentenza:
Tu cerchi, o figliuolo, quella gloria…

E da lì inizia il vero e proprio corpo dell’Operetta.
Nelle prime tre pagine, oltre alla parte dedicata a presentare il contesto, c’è solo lo spazio per dire che operare è più importante che meditare, e nessuno è creato dalla natura agli studi, ai quali ci si volge se si è impediti per qualche motivo all’azione.
Tuttavia se accade, è bene sapere che inseguire scienza e sapienza non è possibile senza pregiudicare la salute del corpo e moltiplicare l’infelicità naturale dell’anima.
Perciò quello che si accinge a fare il poeta in veste di Parini-Leopardi nella sua benevolenza di maestro, è mettere di fronte il discepolo tanto alle difficoltà quanto ai traguardi che la gloria a cui mira può comportare, affinché sia in grado di intraprendere con convinzione la sua propria strada.

Capitolo secondo

Innanzitutto gli uomini. Le parzialità, le invidie, le calunnie, i

maneggi occulti e palesi contro la tua riputazione

con tutto quello che comporta in termini di sofferenza ed ostacoli, spesso insuperabili, che defraudano uno scrittore, a volte per l’arco della sua vita, a volte anche oltre, del merito che gli spetterebbe.
Poi la fortuna. Sono vari gli accidenti per cui un’opera ne è toccata e un’altra, magari di maggior pregio, resta nell’ombra.
Tra essi, uno è relativo alla casualità di nascere e vivere in una nazione importante, che sia patria di milioni di persone.
Infatti elemento essenziale dello scrivere è lo stile, e non poter scrivere nella propria lingua madre è certo possibile, ma impedisce lo stile accurato, bello, armonico, accattivante, chiaro che una lingua madre invece permetterebbe.
Sapere che il messaggio e i sentimenti che con le proprie sudate carte si volevano donare al lettore giungeranno, per quanto potenzialmente, non ai tanti che conoscono la lingua d’Oltralpe o d’Oltremanica, ma a una sparuta minoranza di persone di uno Stato con pochi paesini abbarbicati sulle spalle delle montagne delle quali persone la stragrande maggioranza non sa leggere o sa farlo approssimativamente, non controbilancia la fatica con la speranza.
Poi l’esercizio. Si è in grado di apprezzare il valore di uno scritto, nella misura in cui si sa scrivere, e si sa scrivere se ci si abitua alla scrittura.
Sperimentando di continuo le difficoltà, gli scolii, i tranelli, le ambiguità di grammatica e sintassi, di lessico e semantica, se si è sinceri e disponibili ad ammettere la grandezza degli altri, si ha un godimento estetico nel vedere, leggendo, tutto ciò superato e domato e infine piegato a un dire che è pieno, scorrevole e profondo.
Troppi credono d’esser degni di dare giudizi appoggiandosi al fatto di avere alle spalle molte e magari nobili letture, ma questo non comporta che vi riescano validamente se non sono anche assuefatti alla scrittura.

Capitolo terzo

Esiste poi un problema intrinseco alla lettura, tale per cui pur senza malignità o ignoranza, si determina un giudizio fallace, e in certa parte, inevitabile.
Questo perché gli scritti, di qualsivoglia tipo ma maggiormente quelli in versi, vengono giudicati più che per ciò che oggettivamente valgono, per come essi hanno effetto forza e fascino sull’animo del lettore, che a sua volta è approntato diversamente di giorno in giorno e persino di ora in ora da quel che gli sta attorno di uomini e di cose e dalle sensazioni e spaventi e sogni del tempo di oggi e di ieri.
Sicché càpita che opere mediocri che in quel momento consuonano con il sentimento di quella stagione in cui prevale in noi la malinconia, o la letizia, o la rabbia, o la gelosia, siano pensate superiori ad altre eccelse, e per quanto dicono e per come lo dicono, meritevoli di ben altra più degna considerazione.
E’ dunque sottoposta a tanta incertezza e volubilità la rettitudine di giudizio, che non concorda spesso tra un lettore e l’altro, ma a volte neppure trova d’accordo lo stesso lettore con se stesso ad una seconda lettura, al punto che egli si può chieder come abbia potuto vedervi prima quel che dopo proprio non trova se non lontano e sbiadito.

Capitolo quarto

Apprezzare uno scritto è una questione anche d’età.
Lo spettro dei lettori, di quelli che dalla lettura  traggono godimento e coinvolgimento, si restringe infatti ulteriormente dal momento che il bello stile e le amabili cose che essa suscita sono possibili in gran parte perché la prospettiva sul mondo, la speranza di esso, la vivacità, la fede nel vero, sono proprie dei giovani, mentre scemano a mano a mano con l’avanzare dell’età per l’esperienza che si va accumulando e che, specialmente se unita allo studio e alla speculazione, disillude e priva di quel trasporto che consentirebbe alle emozioni espresse dall’autore di transitare indenni nell’animo di chi legge.
Tuttavia è pur meglio una lettura attutita che falsa e vanesia, come accade nelle città, dove le persone prese da mille faccende e occupate da mille pensieri leggono frettolosamente e anche i letterati vivono le loro letture più come passatempo che come fonte di arricchimento dell’animo.
Parimenti si dica per le opere delle altre arti, che sarebbe meglio fossero distribuite per le province, anziché accumulate in pochi grandi centri e metropoli, creando una sovrabbondanza difficile da smaltire con un’attenzione adeguata al valore che portano in sé, o con una sazietà data dall’abitudine ad averle come statue e monumenti e opere varie d’architettura sempre davanti, e sempre a disposizione nelle pinacoteche e biblioteche e finanche nei tanti e diversi luoghi ove è esercitata la musica.

Capitolo quinto

Non è però quanto detto nel capitolo precedente il fatto più importante, e Parini lo ammette dicendo che si tratta solo di un inciso.
>Riprende perciò la via maestra dei suoi benevoli moniti al discepolo facendogli notare che d’ordinario fra gli scritti, gli ottimi hanno la proprietà di essere più goduti alla seconda lettura che alla prima, mentre succede il contrario per quelli di poco valore i quali, smossa la superficie attraente di fronzoli e ornamenti e richiami di sirene, non restituiscono alla prova dei fatti quanto promesso.
>Ma ormai la disponibilità di tanti libri e il rimando dall’uno all’altro che nell’aprirsi a nuove conoscenze quasi si impone e ne impone in fretta il consumo, non lascia che raramente il tempo alla rilettura, ed il giudizio perciò altrettanto raramente si giova di confrontarsi con se medesimo e modificarsi o ulteriormente temprarsi nella conferma.
Solo i celebrati libri antichi, come l’ “Iliade” o “Il Furioso”, non hanno da temere sotto un tale riguardo, ed anzi, giungendo al lettore dopo aver attraversato indenni i secoli, spontaneamente inducono a vedervi il valore che non sarebbe riconosciuto loro nella stessa misura se fossero or ora usciti dalla penna del loro autore.

Capitolo sesto

Messo sull’avviso il discepolo delle difficoltà che potrebbe facilmente incontrare se intraprendesse il faticoso cammino verso la gloria, gli pare di dovergliene prospettare però un’altra, rappresentata dalla categoria di coloro che leggono per passatempo, e quindi per il diletto che cercano non trovandone altrimenti.
Stratagemma che può reggere solo per poco, perché vale per il momento presente che si vuol salvare dalla noia; ma se tale momento

piccolo e insipido per natura a tutti gli uomini

com’è, lo si vuole espandere oltremisura, facendo sì che invada anche una porzione di futuro,

ogni cosa più dolce, e come dice OmeroVenere, il sonno, il canto e le caròle’

presto verrà a noia, a meno che non si appoggi alla speranza di qualche piacere o vantaggio che ne deriverà.
Tutto ha bisogno di speranza, motore del mondo.
Senza, ciò che piace, reiterato, finisce nella noia; e ciò che annoia, smette di annoiare se fa sperare nel raggiungimento di uno scopo.
Perciò un’opera scritta a regola d’arte, raffinata, profonda, fluente, se càpita nelle mani di un lettore che in essa non trovi anche il conforto di uno scopo o il suggerimento per una prospettiva che si apre, sarà presto riposta a far compagnia alle tante con la stessa sorte su un ripiano della libreria, magari anch’esse belle e valide, ma segnate dalla sorte di essere state aperte per il sollievo che dà coprire il vuoto. Sollievo vuoto a sua volta, se protratto.

Capitolo settimo

Qui il Parini, dopo aver dichiarato di voler discorrere più francamente di filosofia, critica l’idea che il poeta non possa essere filosofo e viceversa.
Forse non sa che dovendo scegliere un esempio di come si possa essere ottimamente entrambe le cose, avrebbe dovuto scegliere se stesso ( nella veste di Leopardi ), e sarebbe stato l’esempio più calzante.
Invece si limita a dirci che grandi della filosofia quali Descartes, Leibnitz, Vico, avrebbero potuto anche scrivere capolavori letterari, e che grandi della letteratura quali Omero, Dante, Shakespeare, avrebbero potuto anche creare sistemi organici di idee.
>Il ragionamento e l’immaginazione non sono in contrasto ed anzi non si può essere profondi in qualsivoglia campo del sapere, se ragione e immaginazione procedono senza corroborarsi a vicenda. Se egli sente il bisogno di sottolinearlo, è perché ciò è spia di una ferita che parte da lontano, già infetta ai suoi tempi e preparata ad ulteriormente infettarsi ed infettare i nostri.
Leopardi, in questo caso sganciato dal Parini, già, come si vede, aveva in maniera manifesta lamentato la distonia di considerare la mente scissa e come nemica di sé con sé.
Si tratta però di una materia, afferma, che a sviscerarla richiederebbe troppo tempo e parole, perciò si accontenta d’averla accennata, e passa oltre, sostenendo che in realtà bisogna essere filosofi, vale a dire avere una mentalità che giudica senza pregiudizi, per capire davvero ciò che sta scritto nei libri di filosofia, cogliendone la sostanza e lo spirito che la anima sfrondandola da inutili orpelli. I non avvezzi al meditare, leggeranno parole e frasi, ma non sapranno metterle insieme relazionandole opportunamente tra loro, non sapranno passare dal particolare al generale e da questo a quello, e neanche mettersi in sintonia con l’autore per ripercorrerne meglio il cammino.
L’oscurità che si imputa a certe opere filosofiche, spesso non è dell’autore, ma del lettore il quale, senza sufficienti strumenti di giudizio, vuole giudicare.
E anche questo è il rischio cui va incontro chi fatica sulla propria opera: che la gloria che gli spetta sia sminuita o cancellata dall’ignoranza e fatta improbabile dal dover essere decretata specialmente da quella limitata porzione di lettori che sono essi stessi filosofi o alla speculazione hanno abitudine e attitudine.

Capitolo ottavo

 La verità non riesce ad imporsi. Per farlo ha bisogno di tempo. E tanto più è nuova rispetto a quanto si credeva prima, tanto più l’adesione ad essa sarà rallentata.
Oscurare la menzogna o l’errore offende l’astuzia di chi dell’una si è servito e l’intelligenza di chi nell’altro è caduto. Anche per questo la verità risulta ostica e non gradita.
Vi è come un potere dato dal numero, tale che se il falso è creduto dai più e i più sono schiacciante maggioranza, non vi sarà verità che possa facilmente prevalere, e a volte solo nascere perché sul nascere soffocata.
Le orecchie la verità necessitano di sentirla tante volte prima che gli occhi la vedano, e interpretino ex novo la visione precedente, falsata apposta a volte, ma altre volte creduta vera e difesa come da qualcosa di cui non si vuol essere defraudati.
Ecco l’importanza di partire da lontano per la verità, dal tempo dell’infanzia e dai bambini, che dopo, cresciuti, vedendola svelata non avranno motivo di difendersene, né di correggerla pur difficile da reggere come spesso è, perché è la prima e sola che si sono trovati davanti se i maestri hanno agito secondo onestà intellettuale.
Il procedere del vero è dunque lento, e di nuovo nuoce alla gloria di chi con le idee espresse lo ha sollecitato, soprattutto se a metterlo in luce sono state visioni così avanti rispetto il concetto corrente che non possono essere alla portata di chi non cammina sulle sue gambe ma segue passivo la corrente; il giusto riconoscimento non gli giungerà che tardi, quando sarà vecchio o quando sarà morto.
O quando da altri tali visioni saranno state migliorate e completate e, riconosciutele, ci si sarà dimenticati di chi le originò.
L’umanità procede nella conoscenza. Ma senza affiancarsi a chi crea, scopre, scava e trova le radici, si arrampica e coglie i frutti più in  alto, bensì temporeggiando e lentamente seguendolo e arrivando a un punto che è nuovo per lei quando è già vecchio per i più eccelsi dei suoi figli, talché avviene che servano secoli per nutrirsi di uno spirito nuovo che riesca a metter Copernico dov’era Tolomeo.

Capitolo nono

Fatta la distinzione tra celebrità e gloria, e fatto conto che il discepolo non la prima ma quest’ultima, più nobile e meno vincolata alla mera consistenza e volubilità del volgo, riesca ad ottenere da vivo, quale vantaggio ne trarrà?
Per capirlo è necessario considerare due situazioni diverse, ovvero di chi vive in grandi città e di chi vive in piccoli centri.
Sotto una prospettiva un poco differente già s’è vista l’importanza che viene riservata alla questione.
E’ un dato materiale, e come tutti i dati materiali, indirizza in poco o in tanto il pensiero.
In questo caso, in tanto.
Perché, e nonostante possa sembrare il contrario, nelle piccole città dove c’è conoscenza reciproca, per lo più non si intende la grandezza di chi, grande, si incontra per strada; mentre nelle grandi la difficoltà di incontrarlo spinge a cercarlo, e lo rende, in quanto meno usuale e pressoché inarrivabile, più prezioso e speciale. Nemo propheta in patria.
Vedendolo spesso tra loro, agli abitatori del villaggio fa tutt’uno pensarlo uguale a loro, tolto quello che sa in più ma che, pensano, non è poi così tanto e che saprebbero anch’essi se solo avessero potuto distribuire il loro ozio tra i libri…
Ora, se la gloria è sempre un premio minimo rispetto lo sforzo per acquisirla, miserrimo è quello offerto al vero poeta o filosofo.
La ragione per la quale poesia e filosofia sono celebrate in astratto ma concretamente neglette, sta nel fatto che tutti, non potendosi dimostrare il contrario come sarebbe invece per un medico che non sa guarire, un geometra costruire, un musico suonare, si pensano ( spesso convintamente, e questo è il dramma… ) filosofi e poeti, facendo parer comune quello che è la massima rara espressione dello spirito umano; e insomma ne viene che quel che è più difficile a farsi e trovarsi, tutti credano di possederlo, crearlo e finanche spanderlo beneficando il mondo col loro genio.
Troppo si presta l’arte tutta mentale della parola affinché tanti, reputandosene eccelsi, non si levino a pretendere fama, in uno scambievole do ut des di lodi fra pretesa e blandizie, nonostante la loro mediocrità, e confondendo così le menti ed i giudizi.
“I quali, p>atendo questo proliferare di voci, alla fine, sommersi dal rumore, tacciono assordati e quasi incerti ormai del proprio discernimento.

Capitolo decimo

Siccome da tutto quanto finora considerato ne viene che la gloria tributata dalla gente se giunge all’uomo di lettere, giunge tardi e poca, e comunque arreca minor godimento di quanto immaginato e a lungo sognato, ci si ridurrà alla fine a pensare di farne senz’altro e senz’altri un utile proprio per sé, che non giunga cioè dal consenso degli altri, ma dal tuo medesimo.
Una cosa che sa dell’inganno che piace alla volpe di darsi se non arriva all’uva, e osticissima, anche; poiché giudicare la tua persona da te è come se i tuoi occhi si volessero guardare negli occhi senza uno specchio.
Chi ciononostante persiste, o è un visionario e come Omero di occhi non ha bisogno, oppure si abbandona all’appiglio postremo di immaginare la sua mercede di fama ed onore affidata ai posteri, e di nuovo per la speranza di due diverse consolazioni, a volte disgiunte, a volte intrecciate: quella per sé di restar vivo nel ricordo e nella stima delle generazioni future, e quella di aver presso di esse rinomanza tale che ne derivino loro benefici altrimenti dispersi.

Giova qui una citazione che Leopardi fa di Cicerone:

pensi tu che io mi fossi potuto indurre a prendere e a sostenere tante fatiche il dì e la notte, in città e nel campo, se avessi creduto che la mia gloria non fosse per passare i termini della mia vita? Non era molto più da eleggere un vivere ozioso e tranquillo, senza alcuna fatica o sollecitudine? Ma l’animo mio, non so come, quasi levato alto il capo, mirava di continuo alla posterità, in modo, come se egli, passato che fosse di vita, allora finalmente fosse per vivere. 

E dopo averla fatta, spiega la citazione con rammarico, e tuttavia rispetto, così:

Il che da Cicerone si riferisce a un sentimento dell’immortalità degli animi propri, ingenerato da natura nei petti umani. Ma la cagione vera si è, che tutti i beni del mondo non prima sono acquistati, che si conoscono indegni delle cure e delle fatiche avute in procacciarli; massimamente la gloria, che fra tutti gli altri, è di maggior prezzo a comperare, e di meno uso a possedere.

E insomma, la gloria ottenuta nella posterità, è il luogo dove si rifugia la speranza non realizzata in vita, che conferma quanto da sempre è notorio, che senza speranza non si vive; e che a morire prima è la vita, non la speranza, perché prima della morte la si è già collocata oltre, nel riconoscimento che i posteri tributeranno.

Capitolo undicesimo

L’affidamento sui posteri su cosa poggia i piedi? In aria, a seguire il proverbio che il mondo invecchia peggiorando. Che se lo si prendesse per buono varrebbe a dire come le dure fatiche dei giorni e i rovelli delle notti insonni sarebbero doni donati ad indifferenti e a pochi buoni e a tanti mascalzoni e furfanti.
Non ad invidiosi, però, perché l’invidia non si riserva ai trapassati, ma solo ai contemporanei, potenziali concorrenti, sicché almeno in quello le generazioni future non saranno peggio delle passate o della presente.
>Per il resto, invece, è assai più facile che i contemporanei siano inferiori agli antichi e, a giudicar dalla scarna promessa in eccellenza e numero che di scrittori, filosofi e poeti fa il tempo nostro, i posteri ai contemporanei.
Cercar compenso nella posterità, non tiene in conto che essa potrebbe aver assunto nel frattempo modi e gusti differenti da quelli usati e persino cercati come migliori e immaginati più apprezzabili dagli artisti e pensatori di oggi, che sarebbe nuotar contro corrente sbagliando il verso per andare alla foce.
Né molto dissimile discorso vale per gli scienziati, i quali favorendo con le loro scoperte e congetture il cosiddetto progresso, cedono il testimone delle loro idee ad altri più giovani che perciò le potranno sopravanzare, e facendolo non raramente con irriconoscenza pensarle minori solo per averne costruito sopra una figliolanza più precisa seppur meno geniale, che a volte dei padri con ironia sorride o con sufficienza li guarda.

Capitolo dodicesimo

 Parini vede bene d’aver fino a questo punto enumerato i fatti ed averli ragionati, senza tuttavia darne espliciti consigli.
Ma nel caso il discepolo gli chiedesse cosa ritenga meglio, se proseguire verso l’ottenimento della gloria, o rinunciarvi e magari volgere ad altro le sue forze e la sua determinazione, prima di soddisfare la sua domanda vorrebbe mostrargli due frangenti affinché li abbia chiari a se stesso e conosca bene le secche del mare in cui si trova a navigare.

Uno è che la natura fornendolo di profondo intendimento, acume, calore di sentimento, espressività del cuore, lo ha in realtà punito, perché gli ha consegnato doni che non ammettono rifiuti e, avutili, o li si onorano esercitandoli, o li si sotterra pensando che, esercitati, diano più costi che guadagni.
L’altro è che se anche idealmente egli anteponesse il sano modo di vivere la vita così come viene senza ai suoi connaturati travagli aggiungere le pene, le angosce, i conflitti, le prostrazioni che la conoscenza porta e che parimenti inevitabilmente produce, gli sarà arduo negarla come a chi per liberarsi d’un tormentoso pensiero lo tiene sotto tiro, e così lo procrastina, e vi si avvoltola.

Detto ciò, ecco finalmente la risposta del maestro al suo discepolo: poiché, come s’è or ora veduto, la fatica che gli costerà distogliere lo sguardo dalla gloria potrebbe superare quella per cercarla, e poiché suo malgrado per le sue qualità e talenti s’è trovato senza volerlo già rivolto a questa strada, gli converrà percorrerla, e vedere di ricavarne quel poco, breve e incerto profitto.
Infatti pur ammettendo che la disgrazia d’esser grandi e di elegante, chiara e vera scrittura di quegli uomini di lettere e pensiero non può aversi senza il setaccio della macerazione sconosciuto a coloro i quali sono intenti a semplicemente operare e godere nella misura che più possono giorno per giorno, resterebbe quasi un tradimento non dar corso a quelle qualità che sentiamo ci appartengano, e che non espresse soffocherebbero il nostro più intimo essere.

Fulvio Baldoino            

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