“Eredità” della mancata riforma costituzionale..

“Eredità” della mancata riforma costituzionale: il sistema elettorale.

 

“Eredità” della mancata riforma costituzionale:

 il sistema elettorale.

 Nel maggio del 2015 il Parlamento ha varato la legge elettorale italicum. Lo ha fatto sotto la guida del Governo che, per avere la certezza della sua rapida approvazione, ha posto la “questione di fiducia” per tre volte. Anche se non è di livello costituzionale la legge elettorale ha molto a che fare con la Costituzione perché attraverso di essa i voti si traducono in seggi parlamentari. I suoi effetti sono evidenti: ne risente il dispiegamento delle maggioranze di Governo, l’incisività dell’azione del Governo, la formazione dei gruppi e delle commissioni parlamentari, l’elezione del Presidente della Repubblica e di una quota dei giudici costituzionali… La legge elettorale è tanto importante che l’italicum costituiva il pilastro centrale della riforma costituzionale Renzi-Boschi (secondo l’ormai notorio “combinato disposto”). Quando un Governo pone la questione di fiducia, i Parlamentari di maggioranza non sono proprio messi nella miglior condizione e serenità d’animo per giudicare secondo coscienza sui contenuti di un provvedimento. Di per sé è del tutto legittimo, da parte del Governo, “forzare” il voto dei parlamentari che lo sostengono richiedendo la fiducia sulle decisioni che caratterizzano la sua azione politica. Ma quando si tratta dell’approvazione della legge elettorale – questione d’importanza fondamentale, che deve coinvolgere estesamente tutto il Parlamento, incluse le opposizioni (trattandosi di una delle “regole del gioco”) – la “forzatura” appare del tutto inaccettabile.


I Costituzionalisti affermano e ripetono che ogni cambiamento delle regole fondamentali – la Costituzione e la legge elettorale – deve essere concordato tra la maggioranza e le opposizioni, attraverso accordi ampi, i più ampi possibile. Affermano e ripetono che è del tutto improprio, scorretto, e azzardato il fatto che un Governo si adoperi con tutti i mezzi a sua disposizione per imporre “a maggioranza” le leggi fondamentali ad un Paese intero.

Riguardo alla riforma costituzionale Renzi-Boschi, allora, prima ancora di valutarne contenuti, la domanda basilare da fare a noi stessi era questa: il cambiamento della Carta è voluto e sostenuto da un’estesa maggioranza dei rappresentanti dei cittadini? Per “estesa” si intende una quantità di sostenitori che superi abbondantemente il 50% + 1. L’articolo 138 della Costituzione indica quale soglia da raggiungere quella dei 2/3 per l’immediata promulgazione (il 50% + 1 per l’approvazione con possibile richiesta di conferma referendaria, ma è opportuno ricordare che le parole dell’articolo 138 furono stese nel contesto di un coerente impianto elettorale proporzionale. Evidentemente leggi di suffragio che assegnino premi di maggioranza, anche abnormi, stravolgono lo spirito della procedura di revisione costituzionale). Nel tentativo governativo di cambiare le “regole del gioco”, dunque, molti ravvisano ben due storture: quella di riformare la Costituzione a maggioranza assoluta (e non “qualificata”), fatto già di per sé inammissibile, e per di più quella di farlo attraverso una prevalenza parlamentare gonfiata artificialmente attraverso l’ormai famigerato porcellum.


 La legge elettorale Calderoli infatti assegnava alla coalizione di maggior minoranza un premio atto a trasformarla in maggioranza assoluta, a prescindere dalla sua effettiva consistenza. Non è il caso di dilungarsi sul porcellum, prodotto a suo tempo senza il concorso delle opposizioni: sopra di esso è noto il giudizio della Corte Costituzionale (sentenza n.1 del 2014).

Ritornando all’italicum, si deve innanzi tutto constatare l’intempestività della sua approvazione, essendo collegato ad una riforma costituzionale che allora era ancora da venire. Oggi, a riforma non avvenuta i cittadini italiani dispongono di un sistema elettorale incoerente ed inservibile perché l’italicum vale soltanto per la Camera dei Deputati. Per il Senato della Repubblica è in vigore il cosiddetto consultellum, cioè quel che resta del porcellum dopo la decisione della Consulta. Per logica i premi di maggioranza dovrebbero essere assegnati alle liste o alle coalizioni che superino di poco la maggioranza assoluta dei voti al fine di rendere più solido il governo che sopra di essa si regge. Questo prevedeva la famosa “legge truffa” degli anni Cinquanta (L. 148/1953): il premio di maggioranza non fu assegnato perché nelle elezioni del 1953 la coalizione maggiore non raggiunse il 50% + 1. In seguito la legge fu opportunamente abbandonata per ritornare alla proporzionale pura, una volta assodata l’avversione delle opposizioni (che l’avevano definita, appunto, “truffa”).

Tutti sappiamo che il nostro sistema parlamentare è paritario e che il Governo è legittimato dalla fiducia di entrambe le Camere. Avere una legge elettorale valevole per la Camera diversa da quella che vige per il Senato equivale ad avere forti difficoltà nella formazione degli esecutivi. In effetti, stando agli attuali sondaggi sulle intenzioni di voto degli italiani sembra che, se votassimo oggi (con consultellum ed italicum), l’unica alleanza che renderebbe possibile la costruzione di un Governo sarebbe quella tra il PD ed il M5S. Considerata l’indisponibilità da parte del M5S di formare alleanze con altre forze politiche, votare oggi ci condurrebbe all’ingovernabilità. Per di più, presto l’italicum sarà sottoposto al giudizio della Consulta (la prima udienza è fissata nel giorno 24 gennaio 2017).


L’italicum ha (ormai si può dire “aveva”) il fine di trasformare la maggior minoranza dei voti degli elettori italiani in una maggioranza assoluta di seggi alla Camera dei Deputati a vantaggio di una lista (non di una coalizione, che è ben diverso). Almeno 340 su 630 seggi (senza, cioè, tenere conto dei 12 seggi della circoscrizione “Estero” assegnati con sistema proporzionale) sono assegnati alla lista di maggior minoranza. I rimanenti 290 seggi sarebbero attribuiti proporzionalmente alle seconde liste, anche con un solo voto in meno rispetto alla lista vincente.

L’alterazione della rappresentatività è evidente. Le opposizioni sarebbero ridotte ai minimi termini: ammettiamo per semplicità quattro liste di opposizione. Per semplificare ancora ammettiamo che tutte abbiano pari consistenza, 290 : 4 = 72,5; si deve osservare che 72 è il 21,2% di 340 cioè la realizzazione di un’amputazione che rasenta l’80% anche per pochi voti meno rispetto al vincitore. Questo calcolo è semplificato e approssimativo, ma dà conto della distorsione rappresentativa, almeno nel suo ordine di grandezza.

Quando si sostiene il diritto della maggior minoranza a governare si fa spesso riferimento all’esperienza di altre democrazie liberali, come la Gran Bretagna, dove il partito di governo raccoglie all’incirca la terza parte dei voti. Nel Regno Unito il Governo controlla la Camera dei comuni, vale a dire che l’Esecutivo dirige il potere legislativo. Chi argomenta le cose in questo modo dimentica di prendere in considerazione almeno un fatto di importanza capitale: di fronte al Governo britannico si trova una sola opposizione! Non almeno quattro (polverizzate) come sarebbe stato qui in Italia con l’italicum.


Un secondo aspetto da considerare nella legge italicum è quello dell’indicazione, da parte degli elettori, attraverso la scheda elettorale, del candidato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

L’indicazione del premier come dicevano con anglicismo non casuale (ma del tutto inappropriato rispetto al contesto italiano) i sostenitori o, per meglio dire, gli ex sostenitori dell’italicum. La Costituzione italiana prevede, infatti, che il Presidente della Repubblica nomini il Presidente del Consiglio e, su sua proposta, i Ministri. Come questo si concili con l’indicazione elettorale del premier non è affatto chiaro. L’Italia è una Repubblica parlamentare: i cittadini eleggono il Parlamento. Il Capo dello Stato nomina il Governo in base al quadro delle forze parlamentari ed al sostegno che queste assicurano all’Esecutivo. È indiscutibilmente vero che il Capo dello Stato deve tener conto delle indicazioni che giungono dall’elettorato, per il principio della sovranità popolare.

Ma tale indicazione non è vincolante in modo immediato e assoluto: dopo aver proclamato che la sovranità appartiene al popolo, l’art. 1 della Carta afferma con altrettanta forza e precisione che l’esercizio della sovranità popolare stessa, avviene nelle “forme e nei limiti della Costituzione”. Uno dei pregi del sistema parlamentare italiano è proprio quello di rendere possibile il superamento dei momenti critici attraverso l’azione e la mediazione del Capo dello Stato, con la formazione di Governi atti a superare l’impasse per ritornare al più presto al fisiologico esercizio della sovranità popolare. Chi depreca la formazione di “Governi non eletti” ha solo una parte di ragione perché non prende in considerazione altri aspetti assai rilevanti. Nella fase attuale l’aspetto rilevante da considerare è quello dell’ingovernabilità: andare a votare oggi soddisferebbe l’intangibile principio della sovranità popolare, ma ci porterebbe nei fatti al caos e all’impossibilità di legiferare, per effetto dell’improvvida approvazione dell’italicum. Bisogna domandarsi che cosa è preferibile tra l’esercitare comunque la sovranità popolare e giungere al caos o subordinare il voto popolare alla produzione di una legge elettorale coerente. Un sistema elettorale congruente è quel che si dovrebbe mettere in atto senza perder tempo, ma sembra che la nostra classe politica non sia proprio impegnatissima a portare il Paese “fuori dalle secche”. Occorre ragionare brevemente sulla proposta di reintroduzione del mattarellum, avanzata dal segretario del Partito Democratico: il mattarellum è una legge maggioritaria al 75% e proporzionale al 25%. Il suo effetto immediato è quello di favorire coalizioni pre-elettorali anche eterogenee (chi non ricorda le “ammucchiate” alla Prodi che spaziavano dagli elettori di Fausto Bertinotti a quelli di Clemente Mastella?). Con la legge elettorale Mattarella tutti i partiti politici, tranne il M5S, si metterebbero in moto per stipulare accordi preelettorali.

 

Il risultato potrebbe essere quello – già visto – di coalizioni “alla vestito di Arlecchino” e traballanti che si mostrano coese fino al giorno dell’apertura dei seggi per poi dividersi, pretendere vantaggi, litigare e ricattare fin dall’apertura della nuova legislatura. Il mattarellum, inoltre, favorisce il notabilato locale, sostenuto da radicate reti clientelari. Come al solito la proposta di del segretario del PD è formulata sulla base del calcolo delle convenienze del momento. I politici italiani proseguono con miope ostinazione ad inseguire il proprio momentaneo tornaconto, senza mai investire in principi valevoli per tutti e per ogni circostanza. A questo proposito il caso dell’italicum è emblematico: è stato voluto con ogni mezzo fino a che c’è stata la convinzione di esserne favoriti, ma appena si è compreso che con ogni probabilità avrebbe avvantaggiato l’avversario, è stato abbandonato senza troppe esitazioni.

Il sistema elettorale maggioritario non elimina affatto, come ancora qualcuno ritiene, la frammentazione delle forze politiche: ne abbiamo avuto esperienza diretta. I Paesi a quadro politico tendenzialmente bipartitico in cui vige il maggioritario (tipicamente il Regno Unito) sono tali per motivi di ordine storico e culturale. Viceversa la società italiana è storicamente discontinua e composita, attraversata da fratture profonde e durature, che si rispecchiano necessariamente nel sistema politico.

Nel panorama politico italiano ci sono, quattro forze principali: il PD, il M5S, FI e la Lega Nord.

Unendo FI e Lega Nord (ammesso che sia possibile), si realizzerebbero tre poli di quasi equivalente consistenza. È chiaro che in un simile contesto i premi di maggioranza sono troppo distorsivi; del mattarellum si è appena detto e se si considera che il M5S non è disponibile ad alleanze parlamentari rimane un’unica via percorribile: quella del sistema elettorale proporzionale. Magari con l’introduzione di soglie di sbarramento per evitare l’eccessiva frammentazione del quadro partitico. Se le forze parlamentari non riusciranno a raggiungere un accordo, nel clima desolante dei nostri giorni, non rimane altro che sperare che la sentenza della Consulta abbia l’effetto di armonizzare in senso proporzionale le due leggi elettorali vigenti per il Parlamento.

Con il sistema elettorale proporzionale ogni partito “corre da solo” e poi, ad elezioni concluse, si formano le coalizioni di governo. Immagino che molti tra i miei concittadini provino un senso di disgusto di fronte a tale prospettiva, ricordando i tempi della prima Repubblica. Ma il nostro giudizio sul sistema politico della prima Repubblica è generalmente troppo severo. Dimentichiamo, infatti, il maggior pregio della nostra democrazia parlamentare: essa ebbe il merito storico di pervenire alla ricomposizione di un Paese lacerato dalla guerra civile, o quanto meno di circoscrivere i conflitti sociali, spostandoli dalle piazze alle aule parlamentari e trasformando gran parte dello scontro materiale in disputa dialettica. Basti ricordare, a questo proposito, che il primo Capo dello Stato dell’Italia repubblicana fu il monarchico Enrico De Nicola.


Il Parlamento della Prima Repubblica fu in grado di varare, con il concorso delle opposizioni, importantissime riforme di carattere sociale ed egualitario, come l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, lo Statuto dei lavoratori, il diritto di famiglia, la promozione della partecipazione alle decisioni collettive. Durante la Prima Repubblica i governi duravano poco (ma la stabilità dei ministri era altissima), e tuttavia emergeva una progettazione dello “stare insieme” di cui oggi, pare si siano perse le tracce. Se poi vogliamo esecutivi più duraturi potremmo prendere consiglio da altre esperienze: un sistema interessante per stabilizzare gli esecutivi è quello tedesco, chiamato “della sfiducia costruttiva”. Chi intenda sfiduciare un Governo, e farlo cadere, deve in pari tempo essere in grado di formare un Esecutivo alternativo che goda della fiducia della maggioranza dei parlamentari. Noi italiani conserviamo un pessimo ricordo della politica della prima Repubblica, ma non abbiamo mai preso in seria considerazione meccanismi come quello appena citato.

Dimentichiamo poi che la mancanza di alternanza tra le forze politiche nella formazione dei Governi dipendeva dal quadro politico internazionale (il blocco comunista contro quello atlantico).

Forse quel che ci ha fatto scordare quanto di importante e ragguardevole è stato costruito nella società italiana, è stata la martellante ed incessante campagna mediatica contro il “parlamentarismo” e a favore della “governabilità” a cui siamo sottoposti da decenni. Secondo tale perenne e pervasiva narrazione, in estrema sintesi, il “perverso parlamentarismo” ostacolerebbe una “virtuosa governabilità”.

La preoccupazione fondamentale dei nostri attuali riformatori della Costituzione, fermati dal popolo attraverso un referendum molto partecipato, è espressa nella Relazione illustrativa al disegno di legge costituzionale 1429. La finalità della riforma si trova nella pagina 4: rafforzare l’efficienza dei processi decisionali e di attuazione delle politiche pubbliche nelle quali si sostanzia l’indirizzo politico, al fine di favorire la stabilità dell’azione di governo e quella rapidità e incisività delle decisioni che costituiscono la premessa indispensabile per agire con successo nel contesto della competizione globale… Nell’ampia revisione costituzionale che noi Italiani “ci siamo appena scampati”, il Parlamento non era inteso come il luogo in cui confluiscono e si compongono, attraverso la rappresentanza politica, i molteplici e multiformi interessi sociali. La riforma Renzi-Boschi era unicamente, e in modo desolante, tesa a portare il Paese verso un solo obiettivo: l’efficienza, cioè lo strumento necessario per muoversi rapidamente nel contesto della competizione globale. Si può come minimo osservare che non sempre l’essere efficienti corrisponde all’essere efficaci. Nella maldestra revisione costituzionale non si rinviene traccia di un disegno sullo stare e vivere insieme. Ai riformatori “renzi-boschiani” poco importava della compressione della rappresentanza popolare attraverso una legge elettorale mal disegnata come l’italicum; poco importava dell’appiattimento degli spazi e dei tempi per la riflessione e per la ponderazione; poco importava di ignorare la storia recente di un Paese che è stato profondamente diviso e lacerato.


Bisognava, invece e unicamente, affermare l’efficienza dei processi decisionali, la rapidità e l’incisività delle decisioni. Si tratta di una interpretazione aziendalistica e superficiale della complessità politica, che nulla ha a che fare con il Governo di uno Stato democratico e liberale. Allo Stato infatti, oltre alla tutela fattiva ed effettiva dei più deboli, è richiesto in via prioritaria di tenere insieme le diverse componenti della società attraverso una degna rappresentanza parlamentare, attraverso la garanzia delle minoranze e delle opposizioni e attraverso la dialettica tra le parti. La “scampata riforma” sembrava, invece, per molti aspetti l’affermazione incontrastata di “quelli che hanno la voce più grossa” (per usare un eufemismo). È significativo il fatto che i riformatori avessero previsto il varo di uno statuto a garanzia delle opposizioni, che sarebbe stato approvato, guarda caso, dalla maggioranza governativa.

Savona, 24 dicembre 2016

Fabio Tanghetti

 Laureato in Scienze Politiche è un attento e fine osservatore dell’accadere politico globale

 

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