Basta pasta

Basta pasta.
Chiudere una fabbrica è una sconfitta, sempre. Anche quando è stata chiusa l’ACNA di Cengio, non c’era nulla da festeggiare. Attenzione: ho detto che è una sconfitta, non ho detto che, in ultima analisi, altro non si poteva fare che chiudere

Basta pasta

 Chiudere una fabbrica è una sconfitta, sempre. Anche quando è stata chiusa l’ACNA di Cengio, non c’era nulla da festeggiare. Attenzione: ho detto che è una sconfitta, non ho detto che, in ultima analisi, altro non si poteva fare che chiudere. Non sono un sostenitore delle fabbriche aperte ad ogni costo. Ci sono altri mille e mille casi in Italia che potrei citare di fabbriche chiuse o da chiudere, mi viene in mente il siderurgico a Taranto, il petrolchimico di Manfredonia, l’eternit di Casale, la Stoppani, la Tubighisa… Ma torno a ripetere: chiudere una fabbrica è sempre una sconfitta. A meno che non produca sostanze il cui unico fine sia quello di nuocere all’uomo.

È una sconfitta perché vuol dire che noi e il nostro sistema economico e produttivo non è in grado di FARE una certa cosa senza creare un danno peggiore, oppure, dato il danno, produrre una sostanza, un prodotto, con le stesse proprietà ma con impatto salutare e ambientale irrilevante.


Sì, perché chiudere l’ACNA, se al mondo si usa comunque il betanaftolo o le ftalocianine o il tobias, vuol dire semplicemente spostare quella produzione dove ci sono meno controlli, meno diritti da rivendicare per i lavoratori. Ci sarebbe da festeggiare quando non ci serviranno più certi intermedi per la chimica organica, o perché decidiamo di farne a meno, o perché abbiamo scoperto che macinando un certo sasso diffuso a tutte le latitudini, si ottiene un prodotto che sostituisce quello troppo pericoloso. Oppure, e infine, riusciamo a produrre una sostanza pericolosa, ma indispensabile, senza lasciare traccia nell’aria, nell’acqua o sulle persone che ci lavorano. Queste sono vittorie. Chiudere uno stabilimento è sempre una sconfitta.

Qui in Valle Bormida, da dove scrivo queste note, di chiusure ce ne intendiamo abbastanza: le nostre fabbriche l’abbiamo fermate per i più diversi motivi: inquinamento, mancanza di mercato, obsolescenza di prodotto. Ogni volta abbiamo visto facce scure aggirarsi in qualche manifestazione, assemblee, manifesti, dichiarazioni di politici, sindacalisti, giornalisti della carta e del video. Poi vaghi progetti di reindustrializzazione, tentativi, alcuni piccoli insediamenti. Tanta incertezza, tanto vuoto. Al posto della fabbrica (dico a livello sociale, non a livello fisico) un buco.


Non avere un lavoro è, in questi tempi, anche una questione di dignità. Ed un lavoro vero, voglio dire un lavoro al quale sei legato non solo da uno stipendio, ma da competenze, da un rapporto con i colleghi, da un rapporto di fiducia con il tuo padrone, è ormai rarissimo. E dato che la forma della società discende dalla forma del lavoro, non posso che aspettarmi il peggio da questa Valle Bormida sempre più misera (parlo sempre degli aspetti sociali), che si regge economicamente sulle spalle delle generazioni in pensione, vero polmone di moneta circolante e di tempo libero da usare per parcheggiare i bambini, per la manutenzione della casa, per tirare le fila della famiglia, la domenica.

Per questo la notizia (peraltro non inattesa) dell’ultimo fusillo prodotto dalla Agnesi di Imperia mi ha guastato la giornata. Con tutto che stavolta si tratta di un prodotto che vende ed è tutt’altro che nocivo all’uomo. Ho dato un’occhiata alla storia di quel pastificio, e mi ci sono arrabbiato ancora di più: da un mulino il vecchio padrone fa un primo pastificio. Poi si espande e si sposta vicino al porto, per avere un approdo adatto per i suoi (I SUOI!) velieri che gli portano il grano dall’Ucraina. Una storia di 200 anni circa, incastrata nelle viscere stesse della città. Dovrei forse dire che si tratta di un prodotto buono, che ho sempre apprezzato e luoghi comuni del genere. Non lo farò. Ognuno, ogni ligure conosce bene la pasta Agnesi. Ogni italiano l’ha mangiata. Ci piaceva il duello tra Agnesi e Barilla, negli anni Ottanta, quando gli altri pastifici erano piccolini. Barilla era la pasta della buona famiglia per bene che si voleva tanto bene (“Dove c’è Barilla, c’è casa”), tradizionale e numerosa. Agnesi, secondo lo spot, era la pasta un poco più spregiudicata, da consumare tra amici eleganti, dove c’era pure la provocazione di una signorina che riduceva una scollatura troppo in vista (“Silenzio, parla Agnesi”).


E ora quella fabbrica chiude. Dicono i padroni che sarà spostata a Fossano e proseguirà là la produzione, che sono state messe in campo tutte le possibilità per aiutare e sostenere i lavoratori della fabbrica di Imperia. Nonostante questo molti lavoratori non hanno accettato, e si son visti recapitare la lettera di licenziamento.

Non accettare non è un vezzo di uno snob. Se vivi in una città dalla nascita, o quasi, hai qui i tuoi affetti, i tuoi oggetti, i tuoi spazi e i tuoi tempi. Hai qui il tuo mare, i tuoi negozi, il tuo vento, la tua lingua. Certo, Fossano non è l’America. Ma basta pure molto meno per distruggere un tessuto sociale. Ci saranno giovani che accettano di andare a Fossano, e lasciare a Imperia i vecchi genitori ormai nonni, sui quali fino a ieri contare, a cui fino a ieri affidare i nipotini. Allo stesso modo ci saranno pure delle persone prossime alla pensione, che accettano di andare a Fossano, e lasciano qui i figli, o gli amici che potrebbero essere utili per un problema di salute, un acciacco, una qualche questione da dirimere, o più semplicemente per sentirsi un po’ meno soli.


Parafrasando Bogart: è il mercato, bellezza. E tu non ci puoi fare niente. Ed è vero: non ci si può far nulla. Però dovremmo stamparcelo da qualche parte che le cose a cui non c’è rimedio, e non sono giuste, continuano a non essere giuste, anche con un risarcimento, anche con le agevolazioni. Perché la chiusura di una fabbrica non è un colpo solo per chi ci lavora o per chi ha botteghe e negozi. Non c’è solo il discorso economico (maledettamente importante), ma anche le questioni sociali che rimangono aperte. Se la città non sarà più quella della pasta Agnesi, cosa sarà? E i prossimi progetti che già sicuramente languono in qualche cassetto, sono progetti partecipati dalla popolazione, o semplicemente investimenti condensati in qualche colata di cemento, bella, avveniristica, lussuosa, ma totalmente avulsa dalla città?

Ci piacciono i porti, i porticcioli, le calate. Come sono pittoreschi! Vero? Talmente belli che ci abbiamo costruito intorno tutta una zona residenziale e di lusso, di struscio e di moda, dimenticando che sono nati nei secoli per il lavoro.

Allora su cosa costruiranno il pittoresco tra cent’anni? Su quale lavoro che compiamo, oggi, potremo raccontare la narrazione della nostra vita? Cos’avremo da lasciare in eredità?

Chiudere una fabbrica è sempre una sconfitta.

Per quel che vale, dedico il pezzo a Gabriele.

 

ALESSANDRO MARENCO

 Un video da guardare e ascoltare 

FERRANIA A MEMORIA – ALESSANDRO MARENCO

 

 

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