Politica e ideologia

L’approccio ideologico alla politica è il peccato originale della democrazia, non solo quella italiana. Un approccio che ha snaturato funzione e significato dei partiti, vanificato la rappresentanza e impedito di fatto che i bisogni reali dei cittadini trovassero una mediazione politica. I concetti, o pseudoconcetti, di destra e sinistra, affermatisi con la rivoluzione francese e trasferiti nel parlamentarismo ottocentesco, sono stati in Italia lo strumento per legittimare e consolidare questo approccio e per irrigidire la dialettica politica a vantaggio del partito comunista prima e delle sue metamorfosi dopo.

Nella dinamica sociale di uno Stato moderno destra e sinistra sono un’alternativa fuorviante: per quel poco o punto di senso che hanno sono categorie che si situano su un piano diverso rispetto a quello della politica e delle tensioni interne alla società civile: quello degli atteggiamenti, degli investimenti di senso o addirittura dei tratti caratteriali individuali. Una delle più insulse applicazioni pratiche della psicologia sociale venne realizzata in America a metà del ventesimo secolo: un’indagine sociologica che pretendeva di identificare gli elettori democratici e repubblicani sulla base di un test di personalità, partendo dal presupposto che ci fossero dei democratici o dei repubblicani perì fuseos, per natura. Una palese idiozia che però riscosse e forse continua a riscuotere un immeritato credito nonostante fosse smentita clamorosamente dal confronto con la realtà dei risultati elettorali. Perché uno può essere classificato come un conservatore o un reazionario riguardo al modo con cui tratta i figli o la moglie o si rapporta con i suoi dipendenti ed essere una fanatico supporter di un movimento anarchico o di un partito ultraliberale e, al contrario, la persona più mite del mondo e più lontana da sentimenti di odio razziale può essere decisamente a favore di una politica che ponga un freno all’immigrazione illegale.

 Insomma la politica, quella seria, ha la sua ragion d’essere nella tutela di interessi della collettività o di gruppi, riflette conflitti, contrasti di interessi, rivalità interni al corpo sociale, si sforza di mediarli e conciliarli finché possibile, scinde le questioni sociali dai problemi etici e soprattutto è compatta nella difesa degli interessi nazionali. A noi questa politica non è mai toccata, quanto meno non è mai toccata dalla fine della guerra e dall’inizio della repubblica. Prima la contrapposizione delle opposte tifoserie filoamericane e filorusse – della Russia sovietica, s’intende – poi quella fra anticlericali e bacchettoni, nostalgici e antifascisti, divorzisti e sostenitori dell’indissolubilità del matrimonio, abortisti e partito della vita, centralisti e regionalisti: una zuppa micidiale che ha fatto perdere di vista i veri nodi sociali proiettandoli sull’iperuranio della chiacchiera in compagnia di quelle artificiose contrapposizioni. Abbiamo avuto partiti che si rifacevano all’incolpevole Marx, fra le varianti leniniste e le diverse interpretazioni autentiche, altri ispirati al socialismo deweiano o alla letteratura liberale anglosassone, partitini che tiravano in ballo Gandhi pretendendo di esserne gli eredi, tutti in modo o in altro in fuga dalla gente reale e dalla pubblica opinione e tutti, ahimè, coerenti solo nel perseguire il proprio privato tornaconto col risultato di avere dato vita a un vero e proprio ceto sociale di politici di professione.

 Lontani dalla miseria della carne hanno fatto appello alle idee, ai sentimenti, al bisogno di appartenenza, alla fede, confidando che il popolo bue avesse firmato a loro favore un assegno in bianco. Per decenni, fino al terremoto di tangentopoli, la grande maggioranza dell’elettorato italiano era schierata sui due fronti contrapposti della Democrazia cristiana e del Pci e lo era non perché affidasse a uno dei due la tutela dei propri interessi o perché se ne sentisse rappresentata: semplicemente perché  si  era comunisti o democristiani come i bizantini erano verdi o azzurri e con tanta più convinta faziosità quanto più debole era la giustificazione razionale della scelta. Un po’ come accade col tifo sportivo, che visto con distacco è pura follia: tolto il campanilismo per il quale chi ama il calcio tiene per la squadra di casa sua non c’è alcun motivo che giustifichi il parteggiare per la Juventus piuttosto che per il Milan o la Roma. Non c’è alcun motivo per cui uno razionalmente sostenere una squadra di cui in realtà non sa nulla e con la quale non ha niente da spartire, solo chiacchiere da bar.

Si sentiva dire: io sono sempre stato socialista, in casa mia siamo tutti antifascisti, mio nonno era partigiano, per non dire dei figli o nipoti di dispersi in Russia  o dei cultori di memorie incarnate nei partiti della nostalgia.  Nessuno che votasse per un partito come strumento per il conseguimento di obbiettivi concreti e realizzabili. Poi, proprio quando il traguardo che era sfuggito con le Br, la presa del potere da parte del più ideologico dei partiti, pareva cosa fatta grazie ai magistrati, entra in campo Berlusconi che non solo lo stoppa ma riporta la politica sul suo alveo, che non è quello dell’ideologia – cioè, in pratica, del partito preso, della “fede cieca” – ma della concretezza e della condivisione di programmi e obbiettivi.  Berlusconi e Forza Italia si sono però rivelati una colossale truffa e  hanno tradito spudoratamente gli elettori; il partito pragmatico si è sgonfiato e piano piano si è rivelato per quello che è: una lobby e uno strumento per difendere gli affari di famiglia del fondatore ma ha indicato una strada proseguita  da altri partiti pragmatici: il movimento Cinquestelle e la Lega riveduta e corretta. Ma le idee, si sa, camminano sulle gambe delle persone, che spesso non hanno spalle abbastanza robuste per sostenerle. E spalle rachitiche e gambe di gomma hanno dimostrato di avere i Di Maio – una nullità umana oltre che politica – Conte – buono per tutte le stagioni – Salvini – di una modestia intellettiva e culturale imbarazzante – a riprova di come la deriva della democrazia ha allontanato dalla politica le persone più capaci. Tuttavia gli stessi sondaggi che sanciscono la crisi o il tramonto dei due partiti ne confermano involontariamente quel che di positivo hanno in comune: sono formazioni autenticamente politiche, nelle quali i cittadini possono riconoscere i propri obbiettivi e i propri interessi e dai quali pretendono di essere ascoltati e rappresentati.

Quando i grillini votarono in Europa la von der Layen si resero responsabili di un voltafaccia di cui hanno pagato il fio elettorale come lo ha pagato la Lega avallando il bis di Mattarella. Inaffidabili per difetto di personale politico ma la strada rimane quella ed è l’unica che può riportare l’Italia non dico fra le democrazie – che in giro non ne vedo molte – ma quantomeno fra gli Stati degni di questo nome. Due debolezze non fanno una forza e probabilmente se nel movimento Cinquestelle si iniziasse a liberarsi dalla zavorra dei tanti di Maio non ci rimarrebbe nessuno così come non è probabile ma certo che nella Lega qualunque alternativa a Salvini farebbe rimpiangere il frastornato capitano. Detto questo, davanti alla spaventosa prospettiva del consolidamento dem – l’erede del Pci – del perpetuarsi dei berluscones e del protagonismo della Meloni ben venga l’armata brancaleone di Conte e di Salvini e ben venga un rinnovato patto giallo verde che dia all’Italia uno straccio di dignità e agli italiani una speranza per il futuro.  L’occasione da non perdere è una pronta levata di scudi contro gli affossatori del Paese installati ai vertici del governo e delle istituzioni e il catalizzatore può essere il voto parlamentare che blocchi l’invio di armi all’Ucraina e in prospettiva spinga l’Italia fuori dalla Nato.

Pierfranco Lisorini

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