Note a margine degli Xenia più brevi di Eugenio Montale

Xenia I, 7

Pietà di sé, infinita pena e angoscia
di chi adora il quaggiù e spera e dispera
di un altro… (Chi osa dire un altro mondo?).

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“Strana pietà…” (Azucena, atto secondo).

Quattro endecasillabi scritti il 9 dicembre 1965.
In parte continuazione concettuale della composizione precedente, in quanto “Pietà di sé, infinita pena e angoscia” è, oltre che una dichiarazione esistenziale, anche l’enumerazione dei fattori de “la mia nausea di me” del terzo verso di Xenia I, 6. Dove la pena, sotto il cui campo semantico possiamo senz’altro far rientrare l’angoscia, è il motore che genera speranza e disperazione, che a volte convivono, a volte si alternano.
Speranza (perché non si riesce a non volerlo) e disperazione (perché si sa che la realtà non obbedisce ai desideri) di ritrovare l’ancòra amata, che ora vale di più di qualsiasi altra cosa, di qualsiasi altro canto di sirena.
Quindi si comprende il pentimento, il rammarico, lo scoramento di chi scopre cos’aveva solo dopo averlo perduto.
Cionondimeno di primo acchito si fatica a imputare il poeta per essersi lasciato traviare dalle apparenze accattivanti, dallo status sociale, o dalla materialità del transeunte.
Basta rammentare l’incipit de “I limoni”:
Ascoltami, i poeti laureati / si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. / Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi / fossi dove in pozzanghere / mezzo seccate agguantano i ragazzi / qualche sparuta anguilla: / le viuzze che seguono i ciglioni, / discendono tra i ciuffi delle canne / e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
Dove starebbe l’adorare il quaggiù?
E l’unica risposta è che adorare la “terra” è dato non da quanto offre la terra in sé, ma dalla condivisione che se ne è fatta con chi si ama.
Con tutte le sue domande inevase, le sue ingiustizie mai ripagate, le sue contraddizioni, essa resta il luogo in cui “con chi”ha surclassato e relativizzato il “quando”, “il come”, e persino quel “perché” pur così presente e pressante nella vita e nella poesia del poeta.

Però ciò implica la sottaciuta e ancora più fantasiosa, se possibile, realtà: quella di un altro mondo senza spazio né tempo in cui pensare non più un ente, ma un’entità, ovvero un essere di pura essenza.
In qualche modo, più astratto perché meno direzionato sulla morte della moglie e tuttavia semanticamente denso, questo veniva anticipato se si pone mente a ciò che troviamo scritto nella seconda strofa di “Portami il girasole”: Svanire / è dunque la ventura delle venture /, e lo si collega con quello che troviamo nella terza: e vapora la vita quale essenza.
E il problema è che, come riferisce Pietro Gibellini in “Prove di commento a Montale: i primi Xenia”, lo stesso Montale in un’intervista rilasciata a Silvio Bertoldi nell’ambito dell’ inchiesta “Le grandi domande della fede”, sulla sopravvivenza ultraterrena afferma:
“essa è legata alla dimensione in cui vive l’uomo: se viene a mancare il concetto di tempo e di spazio, allora non è immaginabile nulla dopo la morte […]. La scomparsa dell’uomo con la morte è la sua uscita dal tempo e dallo spazio. E’ possibile concepire qualcosa fuori dal tempo e dallo spazio eppure che esista? Non so dare una risposta”.
Insomma, Montale si accorge, ancor più profondamente di quanto non se ne fosse accorto prima, della vanità delle cose del “quaggiù“, ovvero della vanità delle cose quando non le si possa, proprio come s’è detto, condividere con chi si ama.
Pertanto, allo stesso modo della zingara Azucena del “Trovatore” verdiano che considerò “strana pietà” la decisione di Manrico di risparmiare la vita al Conte di Luna (strana perché neanche Manrico stesso se la sa spiegare), ecco che Montale giudica strana pietà (intesa come attaccamento) la sua, di volere e nello stesso tempo, irrazionalmente, di non credere ad un altro mondo in cui ritrovare chi era in questo.
Con un’intera riga di puntini sospensivi per avvisare che un richiamo a 500 anni prima potrebbe sembrare estraneo. Ma che, evidentemente, estraneo non è.

FULVIO BALDOINO

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