Note a margine degli Xenia più brevi di Eugenio Montale

Xenia I,6

Non hai pensato mai di lasciar traccia
di te scrivendo prosa o versi. E fu
il tuo incanto – e dopo la mia nausea di me.
Fu pure il mio terrore: di esser poi
ricacciato da te nel gracidante
limo dei neòteroi.

Drusilla Tanzi ha capito. Anzi, non ha mai avuto bisogno, in certo qual modo, di capire (e combattere) la follia di voler lasciar traccia di sé sulla superficie equorea del tempo, con scritti o fatti notabili o notevoli, in prosa o in versi.
Follia che deve aver in qualche occasione sfiorato anche il poeta, se ammira lei e prova repulsione per sé.
Un’ammirazione tanto più giustificata in quanto Mosca era scrittrice, ma senza il secondo fine di vederselo riconoscere come nota di eccellenza.
E a quanto pare non ci teneva a primeggiare neanche in altro: quasi nessuno sa che è suo il merito, solitamente attribuito a Montale, di aver scoperto la grandezza di Svevo. Folgorata dallo scrittore triestino, contagiò anche Montale, il quale nel settembre del ’25 ne scrisse nel famoso articolo “Omaggio a Italo Svevo” sulla rivista “L’Esame”, svelandolo all’Italia e all’Europa. 
Forse non è un caso che la “traccia” del primo verso di questo Xenion che l’amata (e non essendo bella, non essendo giovane, non essendo fatale, non essendo latrice di miti o di messaggi, indicarla con questo appellativo dagli echi provenzali pare persino stonato) non si preoccupa di lasciare, richiami “ricacciato” del quinto (senza farsi sfuggire la replica di “aci” in “gracidante”).
Come a dire che all’accorgersi di Mosca di un eventuale cedimento del poeta alla gloria delle parole, seguirebbe un suo (di lei) giudizio che rischierebbe di equipararlo al versificare superficiale dei neòteroi, trasposti ovviamente dall’epoca di Cicerone alla sua di metà Novecento. Cicerone infatti in simile modo sprezzante li apostrofava, per la pretesa che ad essi addebitava di credersi originali e profondi solo per esser nuovi sulla scena.
Le rane gracidando si gonfiano, si fanno grosse.
Essere sospettato di appartenere a quel coro che si alza dal fango (“limo” significa appunto “fango”, ma anche “in basso”) ed al solo pensiero di esserlo proprio da lei, donna dell’ombra, ballerina di seconda fila (per vocazione, non per intelletto o per talento), lo schifa e lo terrorizza. E qui altro richiamo: terrore, neòteroi
Poesia: arte per l’arte, impulso irrefrenabile, dovere civile, contributo al vivere sociale o alla crescita individuale del lettore.
Ma quando tutto questo si proiettasse in un futuro atto a dare lustro e fama per circonfondere il capo con “bossi, ligustri o acanti” (e la voglia di un po’ di gloria per pensarsi un po’ immortali non è un nemico facile né raro), egli sarebbe sopraffatto dalla nausea del vuoto a seguito di una profonda meditazione, sua da sempre e praticamente consustanziale al suo carattere, sulla autenticità e sulla morte.
E comunque nausea non solo per questo, che può essere riferito eventualmente ad un breve quarto d’ora di cedimento.
Nausea, piuttosto, in maniera maggiormente solida e continuativa, per constatare nel confronto tra loro due, che i versi non lo hanno salvato, che il cielo della sua anima si è forse ancor più rabbuiato, e ancor più l’ha mantenuto oppresso nella condanna di una conoscenza negata.
Mosca non ha tentato tutto ciò. Era più saggiamente rassegnata al mistero.
“E fu / il tuo incanto”, ovvero ciò che di te mi incantò.
E che ora ti restituisco come Xenion. Come omaggio per l’ospite che lascia la casa e la persona che l’ha ospitato.

FULVIO BALDOINO

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