Mal d’Africa: esplosione demografica, e non solo

Mal d’Africa: esplosione demografica, e non solo
I veri problemi che i paladini dell’accoglienza
fingono di ignorare

Mal d’Africa: esplosione demografica, e non solo

I veri problemi che i paladini dell’accoglienza fingono di ignorare

 Ho visto con piacere che su questi Trucioli l’ottimo Pellifroni affronta il tema della natalità in Africa. Devo dire che qualche decina d’anni fa, quando la sinistra non aveva ancora gettato la maschera e nell’esprimere le proprie opinioni si cercava di rispettare le regole della buona creanza oltre quelle della grammatica ma non si sapeva cosa fosse la political correctness, si guardava con sgomento all’aumento della popolazione nei Paesi meno sviluppati e si mettevano in campo provvedimenti per contenere il fenomeno, già allora osteggiati dalla Chiesa cattolica. 


 Ma nella Storia, si sa, nei tempi brevi vincono sempre i cattivi, e gli stupidi, e si è arrivati al punto che non solo si è smesso di contrastare la prolificità altrui ma si considera una sciagura la bassa natalità nel nostro Paese, alla quale l’innesto di sangue africano dovrebbe porre rimedio. È uno degli argomenti, avallato anche dal soglio di Pietro, a favore dell’invasione. Nessuno dice che la vera sciagura è la crescita esponenziale degli abitanti del subcontinente indiano e dell’Africa sub sahariana, con uno sbilanciamento pauroso fra risorse e bocche da sfamare. Il numero di abitanti del pianeta, che aveva raggiunto qualche hanno fa la cifra record di 5 miliardi è schizzato fra l’indifferenza generale a 7 miliardi e il trend di crescita pare inarrestabile. Il mondo occidentale, al pari del Giappone e della stessa Cina, ha raggiunto un equilibrio demografico che è anche frutto della maturità e della consapevolezza dei singoli; di una tale maturità altrove non c’è traccia e si è consolidata l’idea che il problema si risolva con l’emigrazione e/o con aiuti esterni. Per ciò che riguarda l’Asia sono convinto che, seppure con ritardo, una risposta verrà dall’interno degli Stati che finora hanno trascurato il problema; sulla possibilità che avvenga altrettanto in Africa sono pessimista. Lo sono in primo luogo perché la presenza delle missioni cattoliche è un ostacolo alla diffusione di una cultura di contenimento delle nascite e in secondo luogo per il mai sconfessato obiettivo islamico di sconfiggere l’Occidente “col ventre delle nostre donne”. Chiaramente se aiuti e investimenti non vengono subordinati alla diffusione di pratiche contraccettive, fino alla drastica imposizione di non più di un figlio per coppia sul modello cinese, sarà come annaffiare il deserto con un secchiello. Soldi buttati.


Catastrofe demografica ma non solo

L’esplosione demografica è una catastrofe molto più grave e reale del riscaldamento globale, del buco dell’ozono e dello stesso inquinamento, col quale peraltro è strettamente connessa. La situazione dell’Africa sub sahariana è però aggravata da altri fattori, antropologici e culturali. Non si può certo imputare al colonialismo europeo la sua storica totale estraneità al circuito delle civiltà planetarie. Eccezion fatta per i Paesi del corno d’Africa, teatro per secoli di culture alfabetizzate, e per quelli che si affacciano sul mediterraneo, la gran parte del continente ha offerto solo materia per etnografi. Per qualcuno è razzismo riconoscere questa evidenza ma di sicuro è da ipocriti non riconoscerla. 

Fuggono dalla miseria?

Bisogna gridare forte che l’Africa, quella bianca e quella nera, è un continente ricco, straricco, la cui ricchezza ingrassa a dismisura potentati locali, si concentra in un numero ristrettissimo di famiglie e lascia nel degrado la grande massa della popolazione. La quale, a sua volta, per soggezione tribale sostiene il potere di quei potentati e di quelle famiglie e non riesce a scuotersi da un’atavica inerzia mentre si guarda bene dal porre un freno ad una sfrenata natalità non più giustificata, in termini di equilibrio demografico, dall’altissimo tasso di mortalità infantile del periodo coloniale e precoloniale. L’interpretazione che dà del fenomeno migratorio il pur simpatico e intelligente filosofetto che si propone di rinverdire un marxismo d’antan sui talk show di cui è ospite fisso è tanto più risibile quanto più viene presa sul serio.

Diego Fusaro

Non è con le categorie del Capitale né con la trasposizione del leninismo (L’imperialismo fase suprema del capitalismo) che si può comprendere il presente: quelle vanno bene, quando vanno bene, per intendere il passato e il loro impiego anacronistico copre e non svela la realtà. Che sicuramente è complessa e multiforme ma fornisce da sola e con tutta evidenza quanto meno la spiegazione della spinta soggettiva, vale a dire la motivazione a lasciare la propria terra col miraggio della terra promessa. Non è la miseria, non è la povertà, che sono concetti relativi. I veri poveri vivono al limite della sussistenza e hanno come obiettivo quello di sopravvivere: accettano la loro condizione fatalisticamente, riproducono nelle enormi periferie in cui sono confinati la fatica e gli stenti dei loro villaggi, non sognano un altro mondo ma rimangono attaccati alla loro terra. Quelli che  la lasciano non sono i poveri, tantomeno sono perseguitati o vittime di violenze (a questo proposito dovrebbero dirci i nostri buonisti chi e perché li dovrebbe perseguitare), tant’è che sono in grado di sostenere le spese  per tentare l’avventura, sono ben nutriti e in buona salute, molti di loro sono palesemente avvezzi ad esercizi fisici da palestra o campi di addestramento, aborriscono il lavoro come la peste – non è un mistero che le piantagioni di canna da zucchero sono abbandonate –, hanno una dimestichezza con gli aspetti ludici della tecnologia sconosciuta ai nostri poveri veri, una vera fissazione per i dettagli dell’abbigliamento sportivo che è difficile conciliare con l’immagine fornita dai predicatori dell’accoglienza. Non è la miseria, dunque, ma è il miraggio di una vita comoda, in un mondo luccicante, dove se non fai nulla ti viene regalato in un giorno quello che in patria si guadagna con un mese di fatica e se ti dai da fare prostituendoti o facendo prostituire la tua compagna o spacciando droga ti puoi arricchire e puoi arricchire tutti i parenti rimasti a casa. Sono idee che non vengono agli ultimi, ai diseredati, ai derelitti ma a chi per condizioni fisiche, sociali, culturali potrebbe darsi da fare e impegnarsi per sé e per il proprio Paese. Che però costa fatica e costringe ad una visione seria e responsabile dell’esistenza, quella che manca ai giovani africani dalla pelle nera o bianca che, col pretesto della religione o di vecchi rancori tribali, scelgono il gioco esaltante della guerra o prestano ascolto alle sirene che li invitano in Europa. Non fuggono dalla miseria ma la creano sia quelli che trovano più remunerativa la pirateria che il lavoro nei campi sia quelli che si esaltano a bordo delle camionette sparando raffiche di mitra e di fronte alla prospettiva di spezzarsi la schiena per guadagnarsi da vivere sognano il paradiso terrestre occidentale.  E tutto ciò è reso possibile dal dislivello di sistemi sociali ed economici che sono venuti a contatto. Ma al fenomeno spontaneo di correnti che si muovono da aree di alta pressione verso aree di bassa pressione si sovrappongono altre forze che lo rinvigoriscono e lo orientano.


Fuggono dalle guerre?

E, a proposito di raffiche di mitra, bisognerebbe andare un po’ oltre il semplice ritornello “scappano dalle guerre”. Non insisto sull’osservazione scontata che se i giovani scappano dalla guerra i casi sono due: o lasciano nelle peste le donne, gli anziani e i bambini o sono le donne, gli anziani e  i bambini che fanno la guerra e li costringono a scappare.  La questione da dirimere è un’altra: perché si sparano addosso gli uni con gli altri, incendiano villaggi, rapiscono le donne? Lo dico brutalmente, senza sociologismi e senza tirare in ballo i mercanti di armi (lance e frecce ammazzano come le pallottole): l’infantilismo di un popolo si misura anche con la crudeltà e con l’approccio ludico alla guerra. Le guerre hanno costellato tutta la nostra storia, che in buona sostanza è proprio storia di guerre, ma chi le ha combattute è stato costretto a farlo e non ha tratto piacere dal farlo. Nella nostra cultura solo gli psicopatici si esaltano per il rischio di essere uccisi e per il gusto di uccidere: noi premiamo l’eroismo di chi si è sacrificato per la Patria non l’assassino nascosto dentro una divisa militare. La guerra da noi è uno strumento per riaggiustare i rapporti fra gli Stati, è la conseguenza di una omeostasi il cui funzionamento sfugge dalle mani e dalle intenzioni degli stessi governanti ed è comunque sempre percepita come una tragedia, qualche volta inevitabile ma comunque una tragedia. Nel terzo mondo e, in particolare, in Africa, è un gioco, un divertimento, un’ottima alternativa al lavoro, un modo per liberare la propria istintualità. E, con la stessa brutalità, riconosco che l’odio su base razziale alligna proprio nel terzo mondo e l’Africa ce ne offre gli esempi più significativi a partire dallo sterminio dei Tutsi ad opera degli Hutu. Ai nostri paladini della fratellanza universale, della società multicolore e senza confini andrebbe ricordato che l’incapacità di integrare le differenze è proprio una caratteristica essenziale delle popolazioni di cui caldeggiano l’accoglienza e le differenze che non vengono integrate riguardano essenzialmente l’etnia, prima ancora della religione.


Il colonialismo ha tante colpe ma non ha niente a che vedere con i flussi migratori

Non è il colonialismo responsabile dell’arretratezza culturale e sociale dell’Africa, che è inscritta nella sua storia millenaria. Né è imputabile all’eredità coloniale ma agli attuali esportatori di democrazia la mancanza di governi forti e di sistemi politici stabili. Che è poco realistico aspettarsi nelle aree postcoloniali dell’Africa sub sahariana, perlomeno in tempi brevi. Dove invece, anche in modi diversi da quelli delle democrazie occidentali, il processo di formazione dello Stato è possibile per virtù interna, è nei Paese arabi o arabizzati del medio e vicino oriente  che si affacciano sul mediterraneo. Un processo che è stato compromesso dal cripto imperialismo della presidenza Obama in accordo con l’asse franco-britannico e con la connivenza tedesca. Sulla scia del disastro irakeno è stata frantumata la Libia, si è fatto della Siria un campo di battaglia, si è indebolito l’Egitto (e sul caso Reggeni ci sarebbe molto da dire). Innescando la primavera araba si è colpevolmente inteso distruggere la sovranità nei Paesi arabi in cammino verso il rafforzamento delle istituzioni statuali svincolate dall’ipoteca del califfato sovranazionale. Ma sono proprio gli Stati arabi il cuscinetto fra l’Europa, l’islam confessionale e soprattutto quella poltiglia di entità politiche grandi e piccole prive di un solido impianto istituzionale dalle quali viene la pressione migratoria. Quella pressione, quando entrava in contatto con quegli Stati, veniva depotenziata per diversi motivi, di ordine economico, sociale e culturale. La Libia di Gheddafi, per esempio, relativamente ricca e carente di manodopera, ne costituiva uno sbocco e una valvola di sicurezza, con una autentica capacità di integrazione, facilitata dalla religione e dal carattere multietnico della sua popolazione. Ma per il migrante africano la nuova patria non aveva attrattive edonistiche, non prometteva facili guadagni e la rottura dei canoni morali imposti dalla tradizione coranica. Semplicemente offriva lavoro e inquadramento nelle forze armate. E questo vale, o, meglio, valeva, con diverse modulazioni, per tutto il maghreb, a cominciare dal Marocco, che anche sotto il profilo etnico rappresenta una cerniera nei confronti dell’Africa sub sahariana. 


La Libia, e il lavoro, hanno perso la loro attrattiva

Crollate o indebolite queste fortezze, l’Europa, anche se non offre lavoro o forse proprio per questo, diventa un miraggio per molti giovani africani; ma questo non basta per spiegare l’invasione in atto. E qui veniamo ai catalizzatori: il fiume di denaro che dalle tasche dei cittadini europei si trasferisce in quelle dei passeurse di quanti a vario titolo partecipano del sistema migrazione-accoglienza; il proselitismo islamico, paradossalmente rafforzato dal conflitto interno fra sciiti e sunniti; i pretoriani al servizio, diretto o indiretto, dei teorici della globalizzazione e dell’abbattimento delle frontiere con conseguente abbattimento del costo del lavoro. È fuori discussione che senza questi catalizzatori non ci sarebbe sostegno per tutta la sovrastruttura ideologica che tenta di coprire l’invasione facendola passare per doverosa accoglienza di disperati in fuga da guerra, fame e “cambiamenti climatici” (!). Fa un certo effetto vedere e ascoltare politici di lungo corso e new entryreduci da sgomitate e da pugnalate alle spalle, passati da una cordata all’altra, da una corrente all’altra, da un partito all’altro, diventati improvvisamente miti pecorelle che belano di umanità, sacralità della persona, loro per i quali non c’è niente di sacro, gli stessi che guai il crocefisso nelle classi per non parlare della cagnara che hanno fatto sul finanziamento alle scuole private. Siamo a un punto tale di malafede, ipocrisia e stupidità che si grida all’abominio se un gommone non viene prontamente soccorso dalla nostra guardia costiera o, meglio ancora, da una nave umanitaria, perché un bambino rischia di annegare, quando il vero abominio è quello di avercelo messo sul gommone. E non mi risulta che i nostri solerti giudici si siano mai presi la briga di perseguire genitori, parenti o chiunque sia che ne ha messo a repentaglio la vita. Ma chissà com’è che ogni volta che c’è una stretta sull’invasione il numero dei morti in mare aumenta; i casi sono due: o non è vero e vengono diffuse notizie false ricorrendo magari anche a immagini e filmati costruiti ad arte per commuovere l’opinione pubblica, e sarebbe un reato grave (procurato allarme); o la notizia è vera e non si tratterebbe di procurato allarme ma di procurata strage. Ma nessuno indaga in questa direzione.


D’Alema nella trasmissione IN ONDA

 A proposito di politici di lungo corso. Mi è capitato di sentire D’Alema ospite di Telese e Parenzo (buoni quelli!) dire che “vengono meno migranti perché la Libia è relativamente stabilizzata e non corrono più il rischio di essere uccisi”, un’affermazione sulla quale, come psicologo, mi sono soffermato per cercare di cogliere il processo di pensiero che ha portato a formularla. Non ci sono riuscito. Poi ha aggiunto: “per forza una volta arrivati in Italia delinquono, vagabondano o spacciano: è colpa nostra che non gli diamo un lavoro”. Uno così è stato a capo del governo.

 Pier Franco Lisorini

   Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.