L’Italia nella morsa della politica e della Chiesa
L’Italia nella morsa della politica e della Chiesa I politici sono i cani da guardia del sistema |
L’Italia nella morsa della politica e della Chiesa I politici sono i cani da guardia del sistema |
La domanda è: possibile che persone che con la politica si sono sistemate per la vita, disoccupati, insegnanti precari, avvocati senza clienti, impiegati senza grandi prospettive che a Strasburgo, a Montecitorio o palazzo Madama, nei venti consigli regionali si mettono in tasca da dodici a ventimila euro il mese benefit esclusi si adoperino seriamente per cambiare il sistema che le ha miracolate? Possono anche battibeccare fra di loro ma sono ben consce di far parte di una stessa consorteria e che dal recinto dorato in cui sono state ammesse nessuno potrà più cacciarle. Una legislatura basta e avanza per farne dei notabili che mai e poi mai si adatteranno a rientrare nell’anonimato dal quale provengono. Qualcuno conosce impiegati di banca, professoresse, direttori di uffici postali, funzionari di enti previdenziali con un passato di deputato, senatore, o anche di semplice, si fa per dire, consigliere regionale? Chi ha bevuto il nettare e l’ambrosia dell’olimpo della politica cessa di essere un comune mortale e di quell’olimpo diventa automaticamente uno strenuo difensore. Il politico di mestiere qualunque sia il suo colore è il cane da guardia del sistema e usa la sua posizione per mettere al riparo sé e la casta di cui fa parte dagli umori della piazza: anche quando finge di appiccare l’incendio ha con sé l’estintore. Questo avviene un po’ dappertutto e si può considerare fisiologico: uno strappo al sistema esige un agente esterno. Tuttavia l’omeostasi del sistema può essere assicurata dal permanere di una conflittualità interna, a patto che gli apparati dello Stato mantengano una reciproca indipendenza e nei partiti non si recidano i canali di comunicazione con la base elettorale. In Italia, con tutto il blaterare sull’antifascismo si è ereditato e portato a compimento l’aspetto deteriore del regime irrigidendo un sistema etico-politico-finanziario totalitario e conservatore; in prima istanza si è provveduto a saldare il destino della casta con quello della magistratura, creando un osmosi fra quella e questa poi si è messa al riparo l’informazione dalle leggi del mercato assicurando uno status invidiabile ai giornalisti di professione e stipendi faraonici ai direttori dei giornali (che, se fosse per il numero di copie vendute, chiuderebbero bottega tutti) e si sono trasformate in star le mezze figure che popolano la televisione di Stato, felici di essere l’usignolo dell’imperatore. In tempo di pace i generali non servono a molto ma è bene che anche loro abbiano la pancia piena, non solo per evitare tentazioni ma soprattutto per farne delle guardie del corpo, difensori dello status quo prima che dello Stato. Del club ovviamente fanno parte i vertici di polizia e carabinieri (un grazie sentito a Berlusconi) anche se dei loro benefici a mano a mano che si scende verso la bassa forza rimane ben poco. Ma anche a questa bisogna riservare un trattamento che ne faccia, anche nella modestia della sua condizione, dei privilegiati, disposti all’occorrenza a difendere con determinazione insieme con i loro piccoli privilegi i grandi interessi di coloro che glieli hanno elargiti. Insomma, per gli assurti nell’empireo non conta molto che la sicurezza venga garantita, che i delinquenti vengano presi e assicurati alla giustizia, che il lavoro investigativo e di prevenzione dei reati sia efficace; quello che preme loro è che i tutori dell’ordine siano preparati non tanto per affrontare le scaramucce con i centri sociali, che semmai servono per mantenerli in allenamento e che fanno parte integrante del sistema, ma per lo scenario non improbabile in cui si debbano tenere a bada i cittadini intenzionati a scrollarsi l’abito di sudditi che gli è stato cucito addosso. Stomachevoli, a questo proposito, le sviolinate di Cecchi Paone, che non perde occasione, ogni volta che si affaccia dagli schermi televisivi, per chiedere che alle forze dell’ordine vengano riservati trattamenti economici di riguardo al posto delle loro paghe da fame. Faccio presente che a parità di età e titolo di studio un lavoratore dipendente se lo sogna lo stipendio di un carabiniere o di un poliziotto (e non si parli di rischi, altrimenti mi tocca sostituirmi all’agonizzante estrema sinistra e riproporre gli argomenti inoppugnabili sulle morti bianche, che ormai sembra non interessino più a nessuno). Quando gente di potere indugia nel vellicare i pretoriani, volevo dire le forze dell’ordine, è un pessimo segnale, soprattutto se questo avviene dopo aver cooptato nella ristretta nomenklatura dei super dirigenti super pagati, insieme ai vertici della magistratura e allo stato maggiore della difesa, l’alto comando dei carabinieri, reso autonomo dall’esercito, e il capo della polizia, tutti legati a doppio nodo con la politica. Il sistema si è così ingessato, si è reso solido e solidale, vengono scongiurate turbolenze interne. Teoricamente in un regime democratico il parlamento è la proiezione della società, soprattutto se il sistema elettorale è fatto non per la governabilità ma per la rappresentatività. Sempre in teoria tutti i conflitti dovrebbero essere scaricati e risolti nelle aule parlamentari e nel governo. Nessuna democrazia moderna funziona perfettamente così, tant’è che senza che se ne avverta la contraddizione le stesse democrazie assicurano la legittimità delle proteste di piazza, purché non degenerino in atti violenti, degli scioperi e della libera espressione e diffusione di idee in contrasto con i principi sui quali esse stese poggiano. Il fatto è che la delega non è mai totale ed è sempre revocabile poiché l’accordo sulla rappresentanza non toglie al singolo la sua sovranità. Non voglio scomodare Rousseau; preferisco riferirmi al polites della città greca o al civis romano: nel momento i cui i fondatori della nostra civiltà eleggevano i loro rappresentanti non deponevano, come pensava Hobbes, la loro sovranità, ma la rendevano effettiva e operante; inoltre continuavano ad esercitare una continua funzione di controllo legittimata proprio dalla consapevolezza che lo Stato è immanente nel cittadino, non è un’entità trascendente. L’alternativa alla democrazia è una delega senza controllo, la volontaria o coatta riduzione in servitù, col vantaggio della sicurezza, della irresponsabilità, della condizione di minorità. Idealmente è il buongoverno del principe illuminato e sollecito verso il bene dei suoi sudditi, che storicamente può assumere le sembianze di Luigi XIV, l’état c’est moi, o dell’uomo superiore che veglia sulla patria e “non dorme mai”, come dicevano gli agiografi del Duce. Insomma la democrazia, in qualunque forma venga declinata, implica responsabilità, vicinanza delle istituzioni, strumenti di controllo. Se in un condominio ci si affidasse ciecamente ad un amministratore fornito di pieni poteri i condomini rischierebbero di vedersi espropriati del proprio appartamento. Il problema è che la condizione originaria di libertà non è un dato storico ma un postulato ideale o, nel migliore dei casi, un atteggiamento psicologico. Il senso civico, l’originaria coscienza della sovranità storicamente si perdono e si ritrovano e quando vengono perduti non si recuperano senza dolore. Le democrazie create dall’alto e calate come un dono su una moltitudine di sudditi stentano a funzionare proprio perché persiste in quelli che erano stati sudditi una diffusa irresponsabilità, un atteggiamento servile di riverenza verso il potere, che si può presentare anche come risentimento per benefici non ottenuti. Ma anche se quel risentimento dovesse sfociare in rivolta, questa non sarebbe il segno di una ritrovata dignità perché un uomo libero, cittadino e non suddito, non chiede favori ma esige il rispetto della propria sovranità. Il governante, come ogni amministratore, è al servizio del cittadino, non è un detentore di potere. Quando la polizia municipale è impegnata a comminare sanzioni non per la tutela dei cittadini ma per fare cassa la democrazia è in frantumi, il patto è stato violato. Quando si dà per scontata l’esistenza della burocrazia, di cui non ci deve essere traccia in un regime liberale e democratico, si dà per scontato che la democrazia è solo una finzione, che i cittadini siano solo utenti e non la ragion d’essere di chi è incaricato di fornire servizi. Una volta in molti esercizi commerciali campeggiava la scritta “il cliente ha sempre ragione”. Anche il negoziante che non espone quel cartello sa bene di dipendere dall’acquirente, che è in certo modo il suo signore. Bene, in democrazia lo spirito di servizio della commessa di un negozio dovrebbe corrispondere allo spirito di servizio dell’impiegata dell’anagrafe, del vigile urbano, del sindaco come del questore o del prefetto. Se già loro, più vicini ai cittadini, pretendono di ammantarsi di autorità invece di caricarsi di responsabilità, figuriamoci al centro. Il capo dello Stato si illuderà di essere l’unto del Signore e tutti, dal primo ministro all’ultimo scalzacane, investiti da un’autorità superiore, si comporteranno più come ras o capibanda che come strumenti per il conseguimento del pubblico bene. La democrazia ha il suo radicamento nella coscienza di ognuno, la democrazia è tanto più autentica quanto più è compatibile con l’individuo, è refrattaria alle astrazioni – i giovani, le donne, i lavoratori – e si realizza davvero solo se si sviluppa dal basso e si nutre delle esperienze di vita comunitaria spontanee e funzionali. La democrazia è allergica alla retorica, ai proclami, ai grandi principi e ai massimi sistemi. Sinistra e Chiesa cattolica contro l’Italia e gli italiani Facendo eco all’improbabile ministra dell’Istruzione impegnata nella battaglia di civiltà, che ovviamente non riguarda la nostra scuola, la nostra università, la nostra ricerca ma lo ius soli per gli africani che sciamano nel Bel Paese, il Capo del governo italiano, non di qualche potenza ostile, smania perché venga approvata subito e in via definitiva una legge scritta volutamente in modo pasticciato per consentirne correzioni e interpretazioni in sede applicativa e giudiziaria allo scopo di spalancare le porte più di quanto già non lo siano all’invasione e di consentire al più presto ai nuovi italiani di rimpolpare il Pd e la sinistra. Nel merito della legge ho letto editoriali vergognosi, come quello sul Messaggero che la parafrasa tacendone la stesura furfantesca nei punti che riguardano i percorsi formativi e la posizione giuridica di minore e genitori e aggiungendovi precisazioni rassicuranti di cui nel testo non c’è traccia. Non manca, figuriamoci, il riferimento agli Usa, tornati ad essere per l’occasione la culla della democrazia e del diritto – anzi, in sinistrese, dei diritti – grazie ad altre clamorose bufale. Se, infatti, è vero che chi nasce negli States è automaticamente cittadino americano è anche vero che la probabilità che una giovane senegalese incinta possa fare il suo ingresso in terra americana per scodellare lì la sua creatura è nulla. E se vogliamo essere più realisti, visto che gli africani in America ci sono stati portati a forza e non sono arrivati come invasori, i bambini messicani figli di clandestini non godono di alcun ius soli semplicemente perché non esistono, sono rimossi, scotomizzati, vivono veramente come clandestini, nascosti e sconosciuti alle istituzioni, privi di qualsiasi assistenza e se si ammalano o tornano in Messico per farsi curare o si arrangiano. E se la carta stampata veicola ipocrisia e falsità, la televisione pubblica e privata fa anche peggio. Capitato sulla Gabbia open, una trasmissione della Sette, ho avvertito un acuto senso di disagio per essere, come toscano, rappresentato da un certo Rossi che nel corso di un confronto col leghista Fedriga, si è lasciato andare ad una rabbia scomposta e ha corso un serio rischio per le sue coronarie dando in escandescenze per il diritto negato ai poveri bambini discriminati, isolati, ghettizzati e in lacrime perché privi della cittadinanza italiana. Capisco che ci sono posizioni di scuderia, posso capire che si difenda sempre e comunque la pagnotta, ma un po’ di misura, che diamine! In verità la legge voluta dal Pd e dai suoi complici, fra i quali spicca la Cei, volutamente pasticciata con un chiaro intento truffaldino, è il cavallo di Troia per dare la cittadinanza italiana alle centinaia di migliaia di africani portati sulle nostre coste dalle Ong e dalla “nostra” marina militare. I compagni hanno già in mente il trucco: se il figlio di cittadini italiani è automaticamente cittadino italiano quale giudice potrà negare ai genitori di un cittadino italiano la cittadinanza? Ma perché lo fanno? Se è vero che lo fanno solo per avere potenziali elettori infischiandosene dei guasti che provocano al Paese c’è da mettersi le mani nei capelli. Se i motivi sono altri e di ordine, si fa per dire, superiore, il pensiero va alla volontà di distruggere la nazione italiana, la sua memoria storica, la sua cultura per facilitare il disegno di un capitale finanziario globale per il quale lo Stato nazionale è un ostacolo da rimuovere. E questo spiegherebbe anche il patriottismo europeo esibito sconciamente da tutta la sinistra, perché dissolvere la patria italiana in una artificiale patria europea è il passo decisivo per superare l’idea stessa di patria. Quello che è evidente è che non esiste in Europa, meno che mai in Francia nonostante ciò che pensano i compagni di Macron, un altro governo e un’altra classe politica così scopertamente e programmaticamente nemica del proprio Paese e del proprio popolo. E questo per quanto riguarda i compagni. Ma la Chiesa? Fra Bergoglio che quotidianamente solleva la causa dei profughi e ne impone l’accoglienza e il segetario della Cei, Galantino, che si intromette senza freni nei lavori parlamentari e sollecita la pronta approvazione della legge sulla cittadinanza facile la posizione della gerarchia ecclesiastica è ormai scoperta. Siamo di fronte alla aberrante evoluzione del dialogo interreligioso, diventato ormai un vero asse fra cattolicesimo e islamismo. A fronte di frasi di circostanza per gli eccidi di cristiani nei Paesi musulmani, di blande riprovazioni per gli attentati in Occidente, che non andrebbero imputati alla fede islamica, nessuna preoccupazione per il proliferare di moschee nel centro stesso del cristianesimo, nessun allarme per la crescita esponenziale di musulmani in Italia, l’invito esplicito a farne venire sempre di più. Che cosa sta succedendo? Se fossi, come non sono, un uomo di fede, e di fede cattolica, guarderei con una certa preoccupazione alla persona che siede sul soglio pontificio. Non lo sono e posso solo pensare che Bergoglio voglia ripercorrere la strada tentata senza successo dallo stesso Francesco, quello originale, che però voleva convertire il miscredente, non venire a patti con lui. Posso attribuirgli un progetto più sofisticato, ispirato all’ecumenismo di Nicolo Cusano, che però presuppone che venga riconosciuto il primato del cristianesimo e comporta come primo passo l’unione di tutte le chiese cristiane mentre il dialogo con l’islam rimane un’ipotesi puramente ideale, tant’è che lo stesso teologo che pensava di poterli abbracciare in cielo intanto sulla terra caldeggiava contro i musulmani una crociata guidata da Giorgio Castriota. Insomma, non faccio fatica a riconoscere che in nome dei propri interessi e col pretesto di sentirsi europei o cittadini del mondo i compagni siano nemici giurati dell’Italia e degli italiani. Mi costerebbe di più dover ammettere che per consentire alla gerarchia ecclesiastica di tutelare se stessa o per combattere la secolarizzazione, la libertà di coscienza, il libero pensiero si rinnegasse una storia millenaria o si arrivasse a distruggere la cappella degli Scrovegni e a censurare la Divina Commedia. Dunque per Gentiloni e tutto il carrozzone degli onorevoli compagni, per i vertici delle nostre istituzioni, per il segretario della conferenza episcopale è in corso una battaglia per la civiltà e i diritti, la battaglia per far diventare italiani il maggior numero possibile di africani. In questo Paese marcio fino al midollo dove due giovani architetti dopo aver seguito tutte le regole che il patto sociale impone per la propria realizzazione umana e professionale, dopo aver frequentato le scuole migliori a disposizione con i migliori risultati, dopo essersi impegnati in un percorso universitario severo concludendolo brillantemente scoprono che qui sono inutili, non c’è bisogno di loro, l’Italia della loro serietà, della loro formazione, del loro impegno, delle competenze che hanno acquisito non sa che farsene, qui valgono più una laurea comprata in Albania o le competenze attestate da una laurea in Scienze della Pace. Chissà come mai in Germania, negli Stati Uniti o in Gran Bretagna qualche porta si apre e a volte addirittura si spalanca. Ma da noi non c’è bisogno di cervelli: bastano i parassiti, i raccomandati, gli insipienti che in periferia rispecchiano l’insipienza del centro del potere. Da noi c’è bisogno di africani per alimentare tutto il baraccone dell’accoglienza, dalle Ong che provvedono al traghetto a tutto il sistema di smistamento, collocazione, mantenimento; e d’altronde i nostri politici di sinistra avvertono dolorosamente il problema delle urne (non è un refuso per culle) vuote. E i nostri ragazzi vadano pure a morire in un palazzone fatiscente della Londra multietnica e multiculturale con la benedizione del ministro Poletti. Insomma si ha l’impressione di essere risucchiati nel passato, quando la sinistra erano gli anarchici, quando i cattolici erano clericali, nemici, gli uni e gli altri, della patria italiana. Gli anarchici odiavano il tricolore, si sentivano cittadini del mondo; durante la Grande Guerra incoraggiavano le diserzioni e invitavano i soldati a fraternizzare col nemico. E quando il 20 settembre, il giorno della breccia di porta Pia, si rinnovava nella Chiesa il dolore per la ferita subita, tant’è che ancora oggi la ricorrenza passa sotto silenzio, come se il ricongiungimento di Roma alla Patria fosse un evento trascurabile. Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione |