L’Italia è ancora una Repubblica?
L’ITALIA È ANCORA UNA REPUBBLICA?
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L’ITALIA È ANCORA UNA REPUBBLICA? |
Forse è più pertinente definirla una oligarchia; anzi, una oligarchia assoluta. Assoluta in quanto non esiste un organo superiore di controllo dell’operato degli oligarchi, che sono poi coloro che hanno usurpato allo Stato una sua inalienabile funzione quale è quella di battere moneta. In altri termini, l’intera vita pubblica e privata è subordinata agli interessi di una elite di Innominati, di manzoniana memoria, che non deve rendere conto a nessuno del proprio operato, in quanto al di sopra delle leggi che valgono per i comuni mortali. Allo scopo di rendersi inattaccabili, costoro hanno fatto varare dai loro sudditi parlamentari leggi che li blindano da ogni interferenza esterna, giudiziaria, politica, accademica, mediatica: il loro operato è insindacabile e auto-referenziale. Si vedano i regolamenti della BCE e della BIS nei confronti delle legislazioni dei Paesi dell’UE, Italia inclusa. Un simbolo che preannuncia il Nuovo Ordine Mondiale, in fase di attuazione
La struttura di questa elite è piramidale e con l’avvicinarsi dell’apice diventa via via più opaca. Ogni livello si regge sulla connivenza di quello immediatamente inferiore. Alla base brulica l’immensa platea degli in-coscienti, di coloro che non sanno, né devono sapere; degli impotenti, che nulla possono se non subire, ma ai quali è stata data l’illusione di contare, chiamandoli ogni tot anni alle urne per eleggere qualche centinaio di parlamentari, che siedono al penultimo gradino della piramide. In inglese si chiamano lawmakers, ossia produttori di leggi, che per lo più provengono dal gradino a loro superiore, dell’esecutivo: il consiglio dei ministri. Le leggi vengono ampiamente dibattute coram populo quando non scalfiscono i privilegi dei piani superiori, dove al massimo livello sta il dio denaro. Se viceversa, quei privilegi vengono intaccati, le leggi passano senza alcun clamore mediatico: si approvano quando l’attenzione pubblica è concentrata altrove, per via del calendario (festività o loro prossimità) o per l’artefatta deviazione dell’interesse mediatico su altre notizie. Classico il 1992, quando leggi di importanza fondamentale per il loro impatto sulla società vennero promulgate in sordina, mentre la grancassa era focalizzata sul fenomeno “mani pulite”, la cui irrilevanza è documentata dal fatto che la corruzione è oggi maggiore di allora. Nel mentre, a partire dalla famigerata riunione sul panfilo Britannia, si lanciava alla grande il grosso delle privatizzazioni, ossia la svendita dei gioielli pubblici italiani, a cominciare dalle banche, tanto da rimanere senza neppure più una banca pubblica, che avrebbe avuto accesso, a tassi irrisori, ai fondi BCE nello scorso decennio della recessione, anziché dover piazzare sui mercati i Titoli di Stato a interessi ben maggiori, dilatando mese dopo mese il debito pubblico. Nel 1992 si dette il colpo decisivo all’interesse pubblico, dopo quello infertogli nel 1981 con il divorzio Tesoro-Bankitalia, costringendo il primo a cercare investitori (cioè speculatori internazionali) disposti a comprare i suoi titoli a prezzi non più fissati dal Tesoro ma dai “mercati” stessi e dalle agenzie di rating. Anche allora, tutto avvenne sopra la testa di tutti noi, impegnati a goderci la vita lungo i “favolosi anni ‘80” dell’edonismo reaganiano e della “Milano da bere”. Ignari di cosa stava bollendo in una pentola a pressione, scoppiata dieci anni orsono a colpi di spread. Il panfilo Britannia, ormai bersaglio di quanti vedono a bordo di esso il lancio del saccheggio d’Italia nell’annus horribilis 1992
Oggi possiamo guardare, da una prospettiva storica, tutti questi avvenimenti, forieri delle più recenti e perduranti disgrazie; e ci aspetteremmo che, educati da simile tragica esperienza, coloro che hanno il potere-dovere di intervenire lo facciano, finalmente, assumendosi quella parola che tanto dispiace a chi si fregia degli onori, ma aborre gli oneri del potere: responsabilità. La mancanza di senso della responsabilità, in sostanza la mancanza di coraggio, o più esplicitamente ancora, la neghittosità di chi ha incarichi dirigenziali è tanto più evidente quanto maggiore la sua ricaduta sulla vita di tutti noi poveri sudditi, tenuti sempre zelantemente all’oscuro delle cause, mentre ne subiamo le drammatiche conseguenze. Se saliamo di un altro gradino della piramide, ci imbattiamo in quella ragnatela di palazzi definiti “di giustizia”, dove la stragrande maggioranza dei cittadini la cerca ma non la trova. O meglio, non la trova quanto più ci si muove verso l’area opaca degli interessi di vertice, obnubilati dalla sete di facili guadagni a spese dell’intera popolazione. Sto parlando, ovviamente, del mondo della finanza speculativa, che i lawmakers si sono ben guardati dallo imbrigliare, ma anche del sistema stesso di produzione del denaro da parte delle banche commerciali, che anno dopo anno, e soprattutto a partire da quel fatidico 1992, le stesse hanno modificato unilateralmente alla chetichella, allontanandosi sempre più dal perimetro della legalità. Più brutalmente, il sistema si è trasformato in un clan di fabbricatori di soldi senza alcuna legge che glielo consenta e nessun organo di vigilanza che glielo impedisca. Allora, per uscire dall’impasse, le strade sono due: o i lawmakers promulgano leggi che vietino espressamente questa pratica e procedano ad un riassetto dei limiti operativi delle banche commerciali; o intervengono i suddetti “palazzi di giustizia”, per riportare nel campo ordine e legalità. Tribunali gemelli, di Firenze e di Savona.
In quest’ultimo si è consumato l’ormai trito rito di consacrazione del corrente sistema monetario con l’ennesima condanna di chi aveva tentato di contrastarlo.
Nulla di tutto questo, sinora. Il parlamento rimane inerte in campo normativo; e i magistrati, sempre in virtù di quella tendenza a seguire il solco più sopra accennata, non osano contrastare il fenomeno, pur posti dinanzi all’evidenza, codice alla mano, della sua illiceità. Infatti, bastonano, con sapore intimidatorio, chi osa ribellarsi, affinché ciò non abbia a ripetersi; ma con ciò premiano i moderni “falsari”, che creano senza fatica alcuna denaro avallato da uno Stato imbelle e succube delle banche; per poi pretenderne la restituzione in denaro “buono”, ossia reso tale dal lavoro negli anni dei loro mutuatari. Una situazione immorale, oltre che illegale, tanto più in quella che dovrebbe essere una “Repubblica fondata sul lavoro” (evidentemente non di tutti). Ma ai giudici sta bene così, pur di non doversi sobbarcare un più approfondito studio della contabilità bancaria, né la nomina di un consulente tecnico d’ufficio che invece si sia preso la briga di farlo. Eh già, uscire dal coro è sempre molto scomodo, e inoltre può compromettere la carriera! Non sto parlando in astratto. Si è appena concluso a Savona, con la condanna in 1° e 2° grado, la vertenza di un imprenditore finanziario che ha voluto applicare l’art. 3 della Costituzione, quello sulla parità di tutti di fronte alla legge, ripagando un mutuo con le stesse modalità della banca mutuante, ossia tramite un “pagamento scritturale”. Visto il clima di riverenza verso i “signori dei soldi”, il ricorso al 3° grado non fa sperare in un ribaltamento della sentenza. Ma allora, ci sono due pesi e due misure: non siamo tutti uguali di fronte alla legge, nonostante nei tribunali campeggi il monito contrario. Né le cose vanno meglio se scendiamo di un gradino e constatiamo quanta solerzia ci sia negli organi preposti all’esazione fiscale: Agenzia delle Entrate e Guardia di Finanza. Ci torturano con esasperanti indagini e controlli, ma proprio non vedono la colossale evasione che avviene quando il mutuatario, a prezzo delle sue fatiche, restituisce quanto alla banca è costato un battito di dita su un PC. Chiediamo troppo se, anche a questo livello, si sprecasse qualche energia mentale per verificare come mai non venga contabilizzato all’attivo il denaro prestato, per capire che alla fine è tutto reddito netto della banca mutuante? E, in quanto tale, perché elude la tassazione, nell’inerzia dei controllori? Eppure, si tratta di importi davvero “sistemici”, nel senso che sconvolgerebbero l’intera scala impositiva; al ribasso, naturalmente. Anche per le stesse banche. Certo, le tasse è meglio non pagarle, o al massimo pagarle sugli interessi, ma non sul capitale creato dal nulla… In conclusione: siamo tuttora convinti di vivere in una repubblica –res publica– o non piuttosto in una oligarchia privata monetaria, radicata in tutti i livelli inferiori, costretti ad operare al suo servizio? Marco Giacinto Pellifroni 2 luglio 2017
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