LETTURA DI UN’IMMAGINE: Il cavallo morto Olio su tavola (1903) Di Giovanni Fattori
Il cavallo morto Olio su tavola (1903) Di Giovanni Fattori
Collezione privata
Al centro di una campagna desolata, sotto un cielo cupo e minaccioso, vediamo un cavallo nero stramazzato, i finimenti allentati, il sacco con la biada rovesciato a terra davanti al suo muso; accanto a lui sulla strada deserta, un vecchio contadino in piedi, nel su abito logorato dagli anni e dal lavoro nei campo, con le spalle curve, le braccia abbandonate lungo i fianchi, lo sguardo sconfortato, assente, volto verso il basso, tiene ancora in mano le redini e la frusta e sembra non voler credere alla disgrazia che lo ho colpito.

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Quello raffigurato da Giovanni Fattori (Livorno, 1825 – Firenze, 1908) in questo dipinto è un uomo disperato e il paesaggio intorno a lui riflette perfettamente il suo stato d’animo: in quella pianura che si stende a perdita d’occhio verso l’orizzonte non c’è anima viva; la strada su cui si trovano il contadino e il cavallo morto non porta da nessuna parte…Come appare evidente da questo dipinto, la poetica macchiaiola e verista di Fattori non è fatta per abbellire la realtà, o per consolare lo spettatore, o per compiacere la borghesia colta della Firenze di fine Ottocento e del primo Novecento, ma intende rimanere fedele alla realtà, soprattutto a quella più umile e quotidiana della vita dei contadini, dei butteri, dei popolani, insomma dei poveri Cristi che “tirano la carretta” per vivere: “Quando all’arte si levi il verismo che resta? Il verismo porta lo studio accurato della Società presente, mostra le piaghe da cui è afflitta, il verismo manderà alla posterità i nostri costumi e le nostre abitudini” . Al Fattori non interessa idealizzare la natura o edulcorare la realtà della vita, per lui uomini e animali partecipano dello stesso destino di sofferenza e di morte. Sembra di avvertire un’eco del verismo di Giovanni Verga.
La prima impressione che mi ha suscitato questo quadro di Fattori è un po’ meno indulgente della tua. Nel contadino vedo certamente lo sconforto, ma non tanto per la morte del cavallo quanto per un immediato bilancio della sua vita, impostata male. Alla Mazzarò, per intenderci.
Briglie e scudiscio in mano gli hanno impedito di capire per troppo tempo che aver cura dell’altro era un investimento anche per sé. Ora che il cavallo è morto, egli è costretto a fare i conti con se stesso, con l’essersi preoccupato solo di se stesso. Non è più proprietario di niente e non ha più potere su nessuno. Tiene, inerte, la frusta che si affloscia sul terreno.
Il cielo minaccia, non c’è strada tracciata che lo possa portare fuori dalla landa desolata in cui, desolato, si trova. Non uno sguardo di pietà per l’animale stramazzato. Guarda invece davanti a sé, fisso, in basso. Per la prima volta realizza che presto la sorte del cavallo sarà anche la sua. E che il frustino non gli servirà a scansarla.
Grazie Fulvio per questa tua lettura “esistenziale” del dipinto desolato di Fattori. Non per niente ho citato il Verga verista della “Vita dei campi”. Certo, il contadino pensa più a se stesso e al suo triste futuro che alla morte del suo cavallo,, “stramazzato” per la fatica e gli stenti. Non è un’altra metafora del “male di vivere” montaliano”? Ecco, volevo aggiungerlo nella mia “lettura”, l’ho aggiunto adesso. Alla prossima.