Le seconde generazioni in Italia in cerca di rappresentanza

Politica, cultura, lingua e consumi si muovono a velocità differenti per realizzare la piena inclusione in un contesto sociale, ovviamente, sempre più multietnico.

C’era una volta un disegno di legge in materia di cittadinanza che interessava tutti i ragazzi e le ragazze nate sul suolo italiano da persone straniere. Si chiamava, in gergo tecnico, Ddl S. 2092, per gli amici, legge sullo ius soli. Riceveva il primo via libera alla Camera nel 2015 ed entrava così nel mondo che conta, o meglio nella quotidianità dei talk show: infiammava i dibattiti, catturava l’interesse dell’opinione pubblica, cercava di rimanere a galla nella soffocante dialettica del pro e contro che, come sempre, semplificando ne impoveriva i concetti di fondo. Subiva modifiche: diventava ius soli temperato e poi ius culturae e così, rimaneggiato e provato dalle numerose peripezie, giungeva al Senato nel giugno del 2017. Poi la sua voce si è affievolita, ha smesso di farsi vedere nel giro dello zapping televisivo e, lentamente, se ne sono perse le tracce. Come orme sul bagnasciuga cancellate dall’andirivieni delle onde del Mediterraneo. Di quella fiaba lontana, oggi, è rimasto solo il disegno.

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Eppure il saldo migratorio italiano è rimasto in attivo negli ultimi anni e si prevede che continuerà a crescere. E anche il dato sulla scelta dell’ora alternativa alla religione cattolica nelle scuole (dato che ovviamente interseca numerosi fattori) solo nel biennio che va dal 2021 al 2023 ha registrato una crescita significativa di circa 90.000 unità.

Perché sì, è successo quello che poteva essere previsto anche in assenza di spiccate doti profetiche: i bambini che nel 2015 avevano 6 anni e cominciavano le scuole elementari, oggi ne hanno circa 15 e nel frattempo hanno completato più di un ciclo di studi e assorbito in blocco la cultura nostrana dalla fotosintesi clorofilliana, al risultato che non cambia se cambia l’ordine degli addendi, dal fantacalcio, alla ricetta della carbonara rigorosamente “come quella della nonna”. Hanno amato e consigliato musica, serie tv e influencer. Hanno seguito e, talvolta anche veicolato, le mode. Insomma, prima di essere cittadini sono stati consumatori in un mondo in cui le due figure spesso coincidono e spesso si confondono così come facevano il cittadino e l’oratore nell’Atene di Pericle o il cittadino e il soldato nell’antica Roma.

Il ruolo del consumatore diventava parecchio importante già a partire dal secondo dopoguerra, dagli anni delle tv che invadevano i salotti e delle pubblicità che invadevano i sogni dei contribuenti. La serie TV Mad Men, per esempio, ambientata proprio in quel periodo che negli Stati Uniti coincide con l’approvazione Civil Rights Act, il provvedimento che apriva la strada a una piena partecipazione degli afroamericani al voto, racconta con un buon livello di attendibilità storica questo fenomeno proprio attraverso le strategie adottate dalle agenzie pubblicitarie di New York che sono al centro della narrazione: si parla spesso di investire sugli spazi pubblicitari della rivista Ebony o si programmano assunzioni per afroamericani solo per averne un ritorno d’immagine immediato. Quell’azione di marketing che chiamiamo blackwashing.

Da allora ad oggi, il potere politico dei consumatori è cresciuto notevolmente fino a diventare centrale con la diffusione dei social media: quello è il luogo in cui la profilazione degli utenti diventa estremamente precisa e preziosa per le aziende, ma anche il luogo in cui un unfollow di massa, una campagna di boicottaggio o una shitstorm possono avere effetti dirompenti sull’opinione pubblica. E quindi sull’elettorato.

Ma se, date le leggi vigenti sulla cittadinanza, il riconoscimento della politica è ancora parziale, quello del mercato è molto più ampio. Basta guardare i numeri del mercato musicale dei rapper di seconda generazione per capirlo: “Cara Italia” di Ghali totalizza circa 138 milioni di visualizzazioni tanto per citarne una, toccano quasi i 20 milioni alcuni pezzi di Simba La Rue e nel remake di “In Italia”, brano iconico di Fabri Fibra, c’è anche una strofa di Baby Gang. Raccontano un pezzo di Italia che esiste e in qualche modo, con tutti i pro e i contro del caso, lo rappresentano. Un successo enorme che porta con sé un nuovo immaginario fatto di tute Adidas, maglie da calcio e capelli rasati ma solo ai lati. La musica è anche moda e questa moda si diffonde in maniera trasversale tra gli adolescenti, dagli istituti professionali ai licei, e vi aderiscono anche molti di quelli benedetti dallo ius sanguinis. Molti, ma non tutti per un semplice e ovvio motivo: le mode non sono universali. Se lo fossero sarebbe un problema.

Per l’universalità bisogna fare un esercizio diverso, diremmo quasi sperimentale: entrare in una classe, o in un qualsiasi contesto con degli adolescenti, e fermarsi ad ascoltare. Gli accenti, la cadenza regionale, quelli sì, saranno uguali per tutti: emiliano in Emilia, veneto in Veneto, campano in Campania e così via. La lingua corre più veloce di tutto il resto, corre così veloce che già nel presente può darci un’idea di futuro.

Orazio Francesco Lella da Pensalibero

 

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