L’antipolitica per salvare la democrazia

L’antipolitica
per salvare la democrazia

 

L’antipolitica per salvare la democrazia

Qualche giorno fa, nel salone della Camera di Commercio, il presedente degli industriali ha consegnato una pergamena in occasione del suo settantacinquesimo compleanno all’onorevole Fernanda, vecchia militante del Pci prima e del Pd dopo, per il suo contributo allo sviluppo del territorio. C’erano i dirigenti del partito, le autorità, le televisioni locali. In città però il suo nome è ormai sconosciuto e gli stessi vecchi compagni hanno di lei un ricordo sbiadito, anche perché fra la gente non si era fatta vedere molto nemmeno agli inizi del suo cursus honorum, quando per farsi strada scelse la strada dei rapporti personali, anche stretti, piuttosto dei bagni di folla, delle piazze, dei comizi, lei che era timida e non avrebbe saputo cosa dire. Il suo contributo allo sviluppo del territorio rimane un mistero gaudioso, vista la desertificazione operata dalle nostre parti, prima che ci si mettesse la crisi, da settanta anni di monopolio comunista (Pci, Pds, Ds, o Pd).

Ma quella di Fernanda è una vicenda politica e familiare esemplare.


Fernando, detto Nando era un omaccione venuto dalla campagna per lavorare a giornata in una segheria, un attaccabrighe che la troppo assidua frequentazione di una storica fiaschetteria rendeva a volte violento. La sua vita rimase segnata da tre eventi: tre giorni di permanenza nelle patrie galere per essere stato preso dai regi carabinieri durante una chiassata mentre cantava la sua intenzione di bruciare il Vaticano con dentro il papa, l’aver stretto la mano del mitico Andrea Costa e infine la bastonatura che lo aveva consacrato infertagli dai fascisti un po’ prima della marcia su Roma, anche se qualche malevolo sussurrava che il mandante fosse un marito tradito. Messa su famiglia, dei cinque figli che aveva avuto uno era entrato in ferrovia ed aveva preso il testimone dell’ideale socialista paterno, pur essendosi affrettato ad aderire al partito, quello fascista, ovviamente. Nei mesi del passaggio del fronte era tornato nelle campagne avite rimanendo nascosto in cantina per qualche giorno per sfuggire ai rastrellamenti. A guerra finita aveva cercato inutilmente di farsi accreditare come partigiano per quel nascondiglio. Morto prematuramente lascia la vedova incinta e con una bimba grandicella. La donna non si perde d’animo, si improvvisa sarta, cresce da sola le due figlie, le fa studiare, la maggiore diventa maestra l’altra esce da un istituto religioso con la maturità classica e si iscrive all’università. Esempio edificante di una società che cresce e si rinnova.

La ragazza è carina, ha uno sguardo seduttivo e, soprattutto, è molto ambiziosa e sogna di diventare avvocato. Certo l’università è un’altra cosa, i sorrisi non funzionano come con le suore, gli anni passano e l’esame di diritto privato rimane un ostacolo insormontabile. Ma c’è un grande fermento fra gli studenti, assemblee permanenti, urla nel megafono, scritte sui muri e Fernanda sente che in quel nome un po’ imbarazzante ereditato dal nonno antifascista è il segno del suo destino: comincia a frequentare i compagni di unità proletaria, si iscrive al partito, e quando con gli esami di gruppo e il 18 politico acciuffa la laurea ha ormai passato la trentina ma ha le idee più chiare e trasloca nel Pci che ha fame di donne e di laureati. Ci sono già delle concorrenti ben posizionate e con studi più brillanti ma bruttine e la decana della segreteria, con un passato di staffetta partigiana e due legislature alle spalle, la prende in simpatia mentre nello stesso segretario provinciale si risveglia un sentimento, diciamo così, paterno quando Fernanda sbatte i suoi grandi occhi azzurri. Alle porte ci sono le elezioni comunali, la mettono in lista in posizione utile per passare. Subito un assessorato, quello all’istruzione, considerato che la ragazza è nella graduatoria degli aspiranti a supplenze e, quindi, di scuola se ne intende. Come assessore non fa danni, anche perché non fa proprio nulla, quindi viene premiata, con qualche crisi di nervi di chi era in lista di attesa da anni, e finisce in parlamento dove rimane per tre consecutive legislature. Intanto si è accompagnata, casa a Roma e qualche puntatina al nido per non perdere il contatto e il controllo del partito, ha avuto un figlio, studi in Svizzera, poi in America in attesa di farlo tornare in Italia col botto, e finalmente la pensione, intervallata da qualche incarico poco definito nel merito ma preciso per i compensi, ovviamente con denaro pubblico.  Nei quasi tre lustri passati alla Camera nessuno ha mai sentito la sua voce ma la ragazza ha realizzato un record di presenze e apposto diligentemente la sua firma a un paio di centinaia di progetti di legge e, quel che conta ha saputo rapidamente orientarsi nel sottobosco dei lavori parlamentari, ha imparato a far infilare provvedimenti ad hoc in qualche decreto omnibus per favorire i potenti di casa sua contribuendo attivamente a rendere più fitto l’intreccio fra politica e affari che proprio nella provincia mette le sue radici più profonde. Con gli anni lo sguardo si è fatto un po’ meno seduttivo ma nel suo vecchio collegio elettorale è una madre nobile e del resto sopperisce con un look impeccabile, lunghe sedute dal parrucchiere e dall’estetista e il luccichio degli ori appesi al collo e alle braccia inesorabilmente avvizziti.

A conti fatti Fernanda, che ora ogni mese si mette in tasca 6500 euro oltre gli incerti, ci è finora costata 5 milioni e seicentomila euro, destinati a levitare per una vecchiaia che si annuncia lunga e serena. Più di cinque volte quello che ha guadagnato un lavoratore dipendente per 40 anni al servizio, lui sì, del Paese, negli uffici, nelle scuole, negli ospedali.

Di Fernande, e Fernandi ce ne sono migliaia, un centinaio dei quali, a voler abbondare, hanno o hanno avuto un ruolo, positivo o negativo che sia, a livello locale o nazionale per avere operato delle scelte, avere elaborato delle idee, aver lasciato comunque un segno. Ma la maggior parte di loro sono semplicemente stati delle braccia alzate, dei pulsanti premuti, ectoplasmi della politica, nullità. Ci si può scandalizzare perché persone che, come dicono loro, hanno sacrificato all’impegno politico la carriera, che poi è quella di impiegato d’ordine o di insegnante di scuola media, si sono dimenticate in fretta della loro origine proletaria e, quel che è peggio, del proletario che li ha votati, ma io mi scandalizzo di più per il costo immane che grava sulle nostre tasche per mantenerle. E ben venga la battaglia di Grillo contro la casta, purché sia coerentemente portata fino in fondo. Perché considerato in astratto il problema ci può anche lasciare indifferenti, due chiacchiere al bar e finisce lì; ma quando si avverte da vicino, in carne e ossa, non dico l’iniquità ma l’assurdità della presenza di un esercito di parassiti che non solo succhiano risorse pubbliche ma alimentano un sistema di clientele, di familismo, di corruzione, ci si chiede se è veramente questo che intendiamo per democrazia, perché se la democrazia è questa ridateci l’assolutismo monarchico.


 Che i parlamentari non rappresentino più, se mai le hanno rappresentate, le istanze popolari, è ormai evidente, come è evidente che si adoperano solo per tutelare gli interessi di lobbies di ogni genere e di grandi e piccoli potentati. Il male origina a sinistra ma ha ormai contagiato tutto il sistema.  In questa prospettiva l’antipolitica non è l’espressione di un populismo becero e qualunquista ma una guerra santa per liberare il tempio dai mercanti che l’hanno occupato e imbrattato. Una guerra santa che Grillo ha bandito con la passione che riflette gli umori di chi lo ha votato anche se in certi ambienti del suo movimento quella passione tende un po’ a stemperarsi forse perché qualche militante sotto sotto un pensierino alla propria sistemazione ce l’ha fatto. Perciò ci vuole chiarezza, tutta la chiarezza e la determinazione che richiede un obiettivo definito in modo chiaro e distinto: questa politica, questi politicanti, questi parassiti devono sparire.  Questo non è solo l’obiettivo di una parte, è oggettivamente un’esigenza fisiologica del Paese, un passaggio obbligato per consentire alla società italiana di avviarsi sulla via del proprio risanamento e di riprendere la propria sovranità. Salvini e la Lega devono capire che l’Italia sta sprofondando sotto il peso della casta, non solo sotto quello della povertà e dell’invasione e che nessuno di questi problemi può essere risolto separatamente: un programma di risanamento del Paese deve affrontarli insieme.

Reddito di inclusione per gli italiani che vanno alla deriva, stop immediato all’invasione seguito dai rimpatri senza tanti cavilli, messa in liquidazione della politica come mestiere sono aspetti diversi di un unico problema, quello del malgoverno e del tradimento della volontà popolare e del bene del Paese perpetrato dal regime criptocomunista.


Riguardo alla casta, urge passare rapidamente dalle dichiarazioni generiche ad un piano operativo, che preveda immediatamente l’eliminazione di ogni trattamento di fine rapporto e sancisca il semplice ritorno, nel caso di dipendenti, al lavoro precedentemente svolto mentre a quelli che un lavoro non l’hanno né dispongono di altre fonti di reddito spetterà  un sussidio finché non ne hanno trovato uno, come dovrà essere per qualsiasi altro disoccupato; in secondo luogo l’allineamento degli emolumenti, intesi come rimborso spese, a quelli di un Paese economicamente simile al nostro come la Spagna; infine ci dovrà essere, come ho già avuto modo di scrivere, una qualche forma di dissuasione per chi intende tradire il mandato ricevuto. Su questo è possibile un patto elettorale fra la Lega e i Cinque stelle, che comprenda anche il reddito di inclusione per gli italiani che rischiano l’emarginazione e un preciso impegno a porre termine all’affare torbido dell’invasione e impedisca il definitivo affossamento del Paese. Ma senza perdere ulteriore tempo, perché Renzi e la sua banda si stanno riorganizzando, e su questo, mi spiace dirlo, Belpietro non ha capito granché; l’attacco ai Cinque stelle proseguirà, con la carta di riserva della seduzione – alias corruzione – che con Grillo e il giovane Casaleggio spero bene che non funzioni; e presto toccherà alla Lega, per la quale i centri sociali stanno affilando le armi.

Perché nulla cambi, perché il Paese continui ad essere rappresentato, si fa per dire, da nullità come Fernanda, sono in atto grandi manovre per riorganizzare la sinistra, al cui interno pare che ci sia una guerra per bande ma c’è di sicuro una precisa strategia per mantenere il potere; se, com’è ovvio, il 40% dei suffragi è fuori portata si prova la strada dello spacchettamento, fidando nel fatto che due o tre partiti raccolgano più consensi di uno solo, per di più screditato. Poi si vedrà se andare alle urne con una coalizione o mettersi d’accordo dopo il voto. L’importante è che si dia l’illusione di una formazione liberaldemocratica che peschi nell’elettorato di centrodestra, una democristiana che incarni l’anima del centrosinistra, e una di sinistra che sia la casa di tutti i malumori, le nostalgie e le frustrazioni. Il regista, ovviamente, rimane il venditore di pentole fiorentino, che troppo frettolosamente viene dato per spacciato. Ma perché l’operazione riesca ci vuole una buona dose di astensionismo e occorre assolutamente impedire la convergenza di Lega e Cinque stelle. Ne vedremo delle belle.

    Pier Franco Lisorini

Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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