La vigna, i laccetti e la decrescita

La vigna, i laccetti e la decrescita
Da quando è stato proposto e si è diffuso il concetto di decrescita, a dispetto del rassicurante aggettivo “felice”, assistiamo a desolanti tentativi di renderlo negativo, di associarlo al declino, alla crisi, al pauperismo e allo sfacelo

 
La vigna, i laccetti e la decrescita

Da quando è stato proposto e si è diffuso il concetto di decrescita, a dispetto del rassicurante aggettivo “felice”, assistiamo a desolanti tentativi di renderlo negativo, di associarlo al declino, alla crisi, al pauperismo e allo sfacelo.

Del resto per chi, come l’essere umano, tende ad appoggiarsi sulle abitudini consolidate contro il cambiamento (e ben sa chi sfrutta tutto questo a proprio vantaggio) la cosa più difficile è proprio l’apertura mentale. 


 Non passa il concetto troppo complicato che questa crescita sia insostenibile, una forzatura delle leggi naturali, per cui non ci si può espandere all’infinito in presenza di risorse finite. La mente pigramente lo rifiuta, assicurandosi e rassicurandosi che qualcuno, sicuramente, troverà la soluzione. La scienza, magari. Quella stessa scienza vituperata un giorno sì e l’altro anche dall’uomo della strada, tenuto volontariamente nell’ignoranza da chi ha tutto l’interesse a lucrarci su.

Ma neppure il concetto più evidente si riesce ad ammettere. Quello, cioè, che questo tipo di sviluppo forsennato piegato solo a leggi economiche a dispetto di tutte quelle naturali e sociali e di tutti gli equilibri necessari, non ha senso, va a vantaggio solo di pochi, di pochissimi, crea squilibri enormi e masse di poveri sfruttati e diseredati, ansie da consumo senza alcuna relazione col benessere e la legittima aspirazione alla felicità e alla qualità della vita, e distrugge e desertifica senza ritorno l’ambiente, sia quello naturale sia quello sociale della nostra specie.

Non solo: alla lunga, come stiamo vedendo, perseguire questa teoria a ogni costo si rivela insostenibile anche sul piano economico. Lo dicevo già anni fa: se impoveriamo le persone, le lasciamo senza soldi, lavoro, certezze, e pretendiamo lo stesso che spendano, comprino, acquistino, per quanto gli forniamo merci sempre più scadenti ed economiche fabbricate da schiavi sfruttati dall’altra parte del mondo, a un certo punto il giocattolo si romperà. Il presunto meccanismo virtuoso per cui la delocalizzazione porterebbe alla lunga allo sviluppo universale,  si rivelerà una assurda pretesa, sulla quale si gioca la pelle, la vita, la felicità delle persone.

Niente da fare. Ciò che dovrebbe essere evidente per tutti  incontra ostacoli non solo, ovviamente, dai pochi che ne traggano beneficio (per quanto anche quei pochi, prima o poi, sperimenteranno sulla propria pelle e su quella dei loro discendenti che non si mangia il denaro, che non si vive bene in un ambiente distrutto) , ma anche purtroppo e soprattutto dai molti che avrebbero tutto da guadagnare se si abbracciasse un altro modello economico, e tutto da perdere rimanendo con quello attuale, nell’infelicità individuale e nell’incertezza.


Come pecoroni, ci aggrappiamo a quelle poche certezze precarie, anche a quelle che ci opprimono e producono sofferenza,  per paura di perdere tutto.

Eppure, il problema è alle porte, non si può più impedire, e la sola cosa che separa il declino, la recessione, la povertà, la scarsità di risorse, negativi, dalla decrescita voluta, dal cambio di modello di sviluppo, è appunto la consapevolezza, la volontarietà. Un conto quel che scegli e modelli a tuo piacimento, un conto quel che subisci comunque.  E su questo “comunque” mi soffermerei.

Fa una bella differenza. Prima lo capiamo e agiamo in tal senso, prima e meglio ci salviamo. Se ci salviamo. Perché già siamo a questi punti, a mettere in discussione di essere ancora in tempo.

Mi ha colpito in negativo un esempio di qualche tempo fa. Ho collaborato a una antologia sul tema della decrescita, intitolata “Terra promessa” ed edita da Tabula fati.  Stiamo parlando di racconti e di scrittori di fantascienza, che in teoria dovrebbero avere una mente più “aperta” di chi non si stacca dal reale, e una maggiore sensibilità e prospettiva per il futuro.

Ebbene, non solo molti si rivelavano contrari all’idea, operando stravolgimenti ironici, ma anche fra i favorevoli c’erano interpretazioni convenzionali.  Insomma, il curatore mi confessò  che ben pochi erano, da una parte o dall’altra, i racconti di chi veramente padroneggiasse il tema e sapesse di cosa stava parlando.

Memore dell’episodio, vorrei fare un piccolo esempio di cosa si può intendere per, non chiamiamolo decrescita dunque, ma diamogli il vero nome: nuovo modello di economia.

Parlando di vigna. 

Un esempio, dicevo, che va preso come tale e quindi non alla lettera. Per evitare le consuete ironie in proposito,  vi informo che so di che parlo, avendo avuto mio padre un terreno con viti e olivi, e avendo la sottoscritta impugnato la zappa dall’età di undici anni. 

E neppure intendo sostenere la nostalgia del buon tempo antico, dei calli alle mani e dello sfruttamento dei braccianti. Vorrei solo recuperare qualcosa, qualche concetto utile, e rifletterci.

 

 Parliamo degli anni ’70, non poi tanto tempo fa, e delle vigne attorno a Savona. (Prima che iniziassero ad ammalarsi tutte e ad essere eradicate in massa. Vi parlano di xylella degli olivi ma nessuno cita la flavescenza delle viti, che è un fenomeno simile e altrettanto nefasto.) Per sostenerle si usavano dei pali di castagno, detti “carasse” o “scarasse”, mi scuso per eventuali imprecisioni di trascrizione dialettale.

Si tagliavano nei propri boschi i pali adatti, diritti ma dotati di qualche ramificazione, li si lasciava stagionare, si scortecciavano, si faceva la punta all’estremità inferiore. I rimasugli rimanevano a far concime nel bosco.  Ci si rivolgeva a un carrettiere per farsi recapitare i pali. Ne ricordo uno, un omone chiamato Battistin, grosso e baffuto, eppure capace, specie dopo un gotto di quelli buoni, di commuoversi per un nonnulla.  La sua bella cavalla da tiro trascinava il carretto per i sentieri più stretti e impervi, ma tenuti puliti.

I pali, non senza una qualche fatica da gomito del tennista, erano piantati nel terreno, e andavano sostituiti, ahimé, dopo un certo numero di anni. Per sostenere il filare orizzontalmente si usavano dei pali più lunghi, diritti e di diametro molto inferiore, detti “trappelle”. Il resto del filare doveva ricevere altri appoggi. Contrariamente al Piemonte, noi abbiamo vigne più alte e  molto vento, e dobbiamo evitare l’effetto vela. Per cui si infilavano molte canne verticali, dai canneti che abbiamo in abbondanza in zona. Le stesse canne ottime per sostenere i pomodori o i fagioli rampicanti.

 E per legare? Ah, qui abbiamo diverse opzioni. I legacci più forti, per unire carasse e trappelle, erano costituiti dai “baasammi”:  ci si portavano a casa dei tralci di castagno, che venivano pazientemente scortecciati in strisce insieme a  un pochino di polpa per renderli più forti,  dagli anziani più abili, magari la sera intorno al fuoco.

Dai rami diritti dei salici, presenti anche quelli in abbondanza lungo i ruscelli, si ricavavano tagliandoli annualmente altri legacci, di varie misure, da quelli per i pali a quelli per fissare i tralci di vite.

Con rametti diritti di ginestra fatti essiccare in mazzi, si ottenevano i legacci intermedi. Per le legature che dovevano durare poco, le legature estive dei tralci carichi d’uva, a evitare che il vento li rompesse,  erano ottime le foglie di canna, morbide ma resistenti,  raccolte d’estate e anche queste fatte essiccare in mazzi, e messe a bagno per ammorbidirle prima dell’uso.

Le stesse foglie direi indispensabili per legare i pomodori senza rovinarne gli steli verdi.


Vedete del rifiuto, in tutto questo? Vedete un consumo eccessivo, uno spreco di risorse? Io ci vedo una perfetta circolarità dell’economia, un uso sapiente del proprio tempo, delle energie e dei pochi materiali a disposizione,  e una certa intelligenza sociale. I vecchi, per esempio, chi è inabile al lavoro o ha poche energie, potevano ancora rendersi utili mettendo a frutto le proprie esperienze e capacità, e il tanto tempo a disposizione. Non sorridete troppo: meglio gli ospizi, allora, e il vuoto dell’attesa della fine?

Le famiglie, le persone, potevano riunirsi e chiacchierare e lavorare in casa sulle materie prime e i raccolti, quando i ritmi naturali e il buio e il freddo impongono pause al lavoro esterno. Eccetera.

Ora per le legature agricole, a parte spaghi o rafia,  ci vengono forniti vari tipi di fili con anima in metallo, plastificati o cartacei. Pensate solo a quanto lavoro e quante risorse ci siano dietro: si estrae il metallo, si lavora,  si trasporta di qua e di là, si fanno i fili, si portano le matasse a un’altra industria che effettua il rivestimento, la carta viene da una cartiera, la plastica dal petrolio…

Un movimento immane di risorse, per un infimo laccetto che compirà a malapena il suo dovere, per poi finire rapidamente a inquinare, nel suo piccolo, il terreno.

 

 La filosofia del più produco, più consumo, più porto in giro per il mondo meglio è, ci conduce necessariamente a  inquinare  a sprecare e a distruggere senza senso.

E non basta ancora. Bisogna tenere bassi i costi, o il prodotto non si regge. Paghi sempre meno le persone, peggiori la qualità delle materie prime. Meno metallo, plastica più scadente. Ed ecco allora le ultime generazioni di laccetti, talmente inconsistenti da non servire più a niente. Li ho provati: pochissimo metallo e plastica floscia.

Questo è l’andamento insensato dell’economia. Qualcuno ritiene viceversa che chi si oppone a tutto questo sia un pauperista, un velleitario, un retrogrado.

Eppure c’è una differenza sostanziale, fra la decrescita e i concetti negativi di cui sopra: il modo e la volontà.  Il una parola, la SCELTA.

Non si nega il progresso, non si dimentica il buono che abbiamo, si tiene quel che può essere utile e si rifiuta ciò che è devastante o strumentale.

Se continuassimo così, presto non avremmo più a disposizione neppure le materie prime per gli inutili e rinunciabilissimi laccetti. Saremmo costretti  ad arrangiarci, a tornare indietro, a usare quel che troviamo, e quello sì, sarebbe regredire. Non avremmo neppure più pali e legname, dati i boschi scarsi, malati, degradati. Torneremmo alla zappa per mancanza di combustibile, imposteremmo economie di sussistenza con risorse sempre più scarse in un ambiente avvelenato.  Non avremmo neppure acqua a sufficienza.

Questo NON è la decrescita. Questo E’ ESATTAMENTE CIO’ CHE CI ASPETTA SE CONTINUIAMO CON LA PRESUNTA CRESCITA come la intendiamo.

Il capolinea è l’isola di Pasqua: una distesa brulla e arida, con enormi idoli inutili, ed esseri umani costretti ad andarsene.  Solo che al momento noi non abbiamo dove andare. Neppure riusciamo a tenerci buono questo povero sassolino nel cosmo che ci sostiene.


La decrescita invece non vuol dire tornare indietro in tutto.

No: è logico che per le intelaiature dei vigneti ci siano sistemi più duraturi e che gli attrezzi meccanici per i lavori agricoli siano una miglioria irrinunciabile. 

Non sarebbe ancora meglio, però, utilizzare una piccola parte delle risorse, della ricerca e della tecnologia che si dedicano a inventare superflui gadget, a ideare piuttosto attrezzi e sistemi più efficienti, tecnologici, meno inquinanti, a produrre l’energia in modo più sostenibile e consumarne meno?

Ma se veniamo ai nostri laccetti e ai pali in plastica per i pomodori, siamo proprio sicuri sicuri che importarli da chissà dove sia una economia migliore del ripristinare in loco coltivazioni di canne, ginestra, salici? E magari in grande quantità ed esportarli pure, pensate, verso le vicine regioni che hanno altri climi e altra vegetazione. Ma ugualmente vigne, piante e pomodori.

Dite che non sarebbero economicamente sostenibili? Be’, l’economia è non è una scienza esatta, non è una legge fisica ineludibile. Se dessimo più importanza all’entropia e meno al PIL, non saremmo a questi punti. Del PIL si può fare carta straccia, dell’entropia, ahimé, ancora no. 

C’e’ qualcosa di profondamente sbagliato in un sistema in cui, per esempio, un pacco di lenticchie canadesi  che ha girato mezzo mondo costa 3 euro e uno italiano a denominazione d’origine, più del doppio.

In cui un laccetto che ha subito tutte quelle lavorazioni e passaggi si acquista per pochi spiccioli, e se uno volesse usare ancora la ginestra, non può, non la trova in commercio.


 

Basterebbe cambiare le regole e i parametri dell’economia, per invertire la rotta. Favorire ciò che è rinnovabile, premiare ciò che è prodotto in loco e magari non produce rifiuti, penalizzare ciò che inquina e deve essere smaltito. Cambiare decisamente rotta, con leggi diverse, nazionali e sovranazionali. Tenere tutto ciò che è utile, il buono del progresso, e valorizzarlo,  gettare alle ortiche tutto il resto. Non è impossibile.

Oppure subire. Il declino e il degrado verso cui ci stiamo avviando.

Qui sta la scelta, il vero nodo, fra salvarci o affogare. Questo bisognerebbe capire, soprattutto che non solo non sarebbe una scelta difficile o penalizzante, ma tutto il contrario, ci porterebbe a maggior benessere, qualità della vita vera, attenzione verso quei cicli naturali che troppo in fretta abbiamo archiviato come superati, e che pure ci appartengono, nel profondo della nostra natura di esseri viventi inseriti in un contesto unico e interattivo, e se non rispettati producono anche sofferenza interiore.

Ecco, questa è la vera decrescita.  Scegliamo bene.

Finché ancora possiamo scegliere.

Milena Debenedetti

 

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