Il senso della religione

Il senso della religione
Possiedo una chiesa. Mi spiego: non ho titolo di proprietà per un edificio di culto, ci mancherebbe. Possiedo nel senso che per i miei paesani quella è la mia chiesa ovvero della mia famiglia

Il senso della religione
Possiedo una chiesa. Mi spiego: non ho titolo di proprietà per un edificio di culto, ci mancherebbe. Possiedo nel senso che per i miei paesani quella è la mia chiesa ovvero della mia famiglia.

Mio bisnonno, pio, eroico e leggendario patriarca, rese l’anima al Creatore poco dopo la fine della Grande Guerra. Pare abbia fatto appena in tempo a veder tornare un suo figlio dal Carso.

Era stato proprio mio bisnonno che aveva deciso di edificare quel tempietto. Pochi metri quadrati, ma disegnati da qualcuno che sapeva quel che faceva: il timpano preciso e simmetrico, le finestrelle con l’arco a tutto sesto, l’abside a semicerchio coperta da un quarto di sfera, l’altare proporzionato.


È giunto fino a noi anche il motivo per cui quella chiesetta fu edificata. Il figlio più giovane s’era tagliato una gamba, da qui un’infezione, da qui la decisione dei medici di amputare prima che fosse troppo tardi (non esistevano gli antibiotici, allora). Ma non fu necessario, e il patriarca menifestò il suo voto, redasse e firmò il contratto alla presenza dei debiti testimoni, davanti al parroco della sua parrocchia, impegnandosi lui e tutta la sua discendenza maschile, a prendersi cura della chiesetta. Aggiunse anche (perché era uomo avveduto nonché abile commerciante) che avrebbe ritenuto per sé dieci anni di proventi dalle elemosine, per rientrare dalle spese sostenute.

Non lasciò traccia, lapide, papiro scritto a riguardo di questa vicenda, se non il contratto anzidetto. Fece una chiesa, dunque, per sé e per i suoi discendenti. Per i suoi vicini, per i compaesani, per quelli dei borghi vicini, per i viandanti che si trovassero a passare di là, per ringraziare della buona sorte toccata al figlio.

Di mio bisnonno conservo una fotografia che lo ritrae in piedi, circondato dai suoi famigliari. Aveva sposato una vedova madre di cinque figli ormai grandi. A tutti aveva pagato il viaggio per l’America. Poi aveva generato i suoi, di figli, adottandone o allevandone altri. Portava una barba folta e lunga, incolta, perché diceva: “Dio me l’ha data, chi sono io per tagliarla?”.

In ogni caso io e gli altri discendenti del grande vecchio curiamo tutt’oggi questa chiesetta. Il parroco vi dice messa una volta all’anno e la gente di quei boschi lo sa, fa parte della consuetudine, ed è diventato un appuntamento, un modo per guardarci negli occhi, salutarci meglio che non quando ci si saluta incrociandoci in auto, o ad un funerale.


Mio bisnonno non era ricco, come d’altra parte tutti i compaesani. Aveva della terra e dei boschi suoi, della legna, dei diritti. Questo lo faceva più ricco di altri, ma non di quella ricchezza che sappiamo oggi. La sua vita, la sua sorte (e quella della sua famiglia) era legata ad un filo: bastava una grandinata, un periodo di siccità, un malanno più grave del solito, e tutto sarebbe andato “a ramengo”. Certo, aveva qualcosa da perdere rispetto a chi faceva il mezzadro, proprietario solo dei suoi figli, e magari di un carro e di un mulo. Ma le condizioni di vita erano simili per tutti.

Vivevano nella grande casa molte persone, molti animali, molti bambini. Altri ne nascevano, altri ne morivano, ché la mortalità infantile aveva livelli per noi oggi inammissibili, ed era così normale la morte di un lattante per cui non c’era famiglia che non avesse accompagnato al cimitero qualche bambino, senza poi smettere di faticare, lavorare, vivere e fare altri bambini.

Eppure mio bisnonno ha costruito una chiesa, dimensionata e adatta rispetto al luogo in cui abitava. E l’aveva fatta fare da gente competente: basta vedere le case sghimbesce dai muri scaleni del circondario. Quella chiesetta è ortogonale e simmetrica. Non solo: è arrotondata e dotata di cornici là dove ci si aspetta di trovarle. Poteva bastare forse un crocifisso in parrocchia, una dotazione di banchi, un baldacchino nuovo, e invece no, ha voluto costruire, edificare. Evidentemente non per sé, o meglio, non solo per sé. Consapevole che di una chiesetta, in quel posto, c’era bisogno. Perché il ciclo delle stagioni, del sole, della luce e della notte, del seme che germoglia nel buio, della buona o della cattiva sorte, sono la motivazione sufficiente per percepire il mondo “altro”, che non si tocca e non si afferra, che nessuna parola può descrivere. Un mondo profondamente intimo, al massimo sussurrato sottovoce, come certe orazioni dette in punta di labbra. Una chiesetta serve a questo e serve a tutti, prima di tutto alla gente che là ci vive, perché si riconosca in una immagine sacra, superiore a tutti i bisogni, agli ordini, alle necessità, ma compresente con il lavoro, la terra, gli animali, le persone vive e morte e pure quelle che verranno in futuro.

Venivano da paesi lontani, dal Piemonte, a fare le novene alla Madonna nel mese di maggio. Giravano per nove volte intorno al piccolo edificio, salmodiando il rosario. E nelle gambe e sulla schiena avevano una giornata di lavoro (che a maggio i campi si sono bell’e svegliati) e nello stomaco la poca cena che gli era permessa dalla stagione più dura (in primavera i semi sono seminati e i nuovi raccolti ancora non ci sono).

E dopo la Prima Guerra le cose non cambiarono, addirittura qualcuno fece fare una tovaglia bianca per l’altare, per devozione, su cui fece ricamare: “Ricordo di tre fratelli tornati dalla guerra di Piana”. Ed io ragazzotto saputello, anni dopo, ridacchiando chiedevo: “Dalla guerra di Piana? Perché, c’è stata la guerra a Piana?”, mi deridevano perché non capivo. Si, va bene, è sgrammaticato, ma devi sforzarti di capire. E allora non pensavo più all’errore, ma agli anni di guerra infame sul Carso, e alla buona sorte di tre fratelli che riescono a tornare a casa, tutti e tre.

Nelle vicende di questa povera chiesetta non si sono salvate storie di preti, di clero, di curie o di vescovadi, dispute teologiche o rituali. Questo tempio ha guardato soprattutto contadini mal vestiti, con gli zoccoli di legno nei piedi, stanchi e affamati. Ha raccolto i loro segni, le loro preghiere fatte in comunità o in solitudine, anche da fuori, dalla finestra. Ha raccolto tante e tante richieste, domande, desideri: un ritorno, una lettera, un miglioramento, una spinta ad una nuvola di troppo, una buona pioggia gentile.

Io non so capire, non riesco a immaginare se mio bisnonno pensava a tutte queste cose mentre faceva costruire la chiesetta. Forse il senso del tempo, dell’appartenenza e della ricchezza sono cambiati, rispetto a quello che abbiamo oggi. Mi permetto di pensare, però, che al grande vecchio, come ai suoi coetanei, non sarebbe piaciuto affatto vedere la sceneggiata pubblica, lo spettacolo macabro, di un barocco moderno rivoltante, a cui noi, oggi, abbiamo assistito, a riguardo di quel che resta delle spoglie ricostruite di san Pio.

Alessandro Marenco

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