La vera difesa del lavoro

La vera difesa del lavoro
Essere solidali e non ostili. Chiedere rispetto, e la possibilità, per ciascun individuo, di contare. E di contare insieme. Pretendere condizioni diverse di lavoro, non cedere

La vera difesa del lavoro

Si fa solo fermandosi un attimo a ragionare. E soprattutto, cercando di sviluppare strategie che non si fermino dietro l’angolo, all’immediato, al tappabuchi, al menopeggismo, al prendiamo tutto quello che capita. 

Altrimenti, tutto quello che si fa, TUTTO, non solo non risolve, non tampona i problemi, ma li esaspera, li peggiora, pregiudicando il futuro, tagliando le gambe a possibili vere soluzioni future.

Difficile da invocare un briciolo di buon senso e lungimiranza in una situazione come la nostra. Tutto il potere in questo Paese sembra essere in mano a imbelli, incompetenti, miopi, limitati, aridi, con pochi furbi (non intelligenti, solo astuti approfittatori senza scrupoli) a lucrarci sopra in grande stile.

Anche senza alcun ritegno, come si evince dai tanti politici che sistemano parenti, amici, sodali e società affiliate.

Ogni ente che ha voce in capitolo è inadeguato: dai sindacati, a Confindustria, ai politici.

 E qui a Savona certo non facciamo eccezione, in generale la nostra classe dirigente è di una opacità senza uguali, di una piattezza desolante, di un provincialismo da cartolina.

 Lo so che, in momenti drammatici come questo, risulta difficile non provare soggezione ogni volta che si mette sulla bilancia il peso del discorso occupazione.

Eppure, proprio la difficoltà del momento dovrebbe essere un fattore in più, per chi ragiona, per tenere nervi e polsi saldi, non cedere alla lusinga della facile scappatoia che puntella la facciata e posticipa il crollo di Pompei solo per un giorno, ma intravedere una strada diversa e avere il coraggio di imboccarla. Prevedere gli sviluppi e scegliere di conseguenza. Andare oltre, con apertura mentale, duttilità, fantasia.

 Faccio un esempio: potremmo mai pensare di costruire una ferrovia senza avere una minima idea del percorso, di quante fermate fare, del possibile volume di traffico, dell’itinerario migliore e della configurazione del territorio?

Eppure è esattamente quel che facciamo, continuamente: aggiungiamo un pezzetto di binario, anche stortignaccolo, e procediamo alla cieca, alla giornata, e ci incavoliamo e diamo del disfattista a chiunque obietti o tenti di fermarci.

Dicendogli che siamo convinti che poco oltre non ci sia una montagna, ma un prato, non c’è bisogno di andare a vedere, o consultare le cartine; che se anche si parla dei vantaggi di transitare merci, noi facciamo treni passeggeri; che se oggi i passeggeri in quella zona sono scesi a poche decine, è previsto senz’altro che aumentino di nuovo a diverse migliaia come un tempo; che se ci richiedono carrozze per biciclette e per animali al seguito, noi gli diamo massaggi tailandesi e musica new age… e così via.

E’ in questo modo che progettiamo tutto. E’ così che si va avanti, tra malafede interessata, disinformazione, prevenzione ottusa.

 Attenzione a sbandierare questo discorso lavoro. Spesso è il gioco delle tre carte: i posti spariti da qui, li ricreo per magia di là. Cioè, non incremento l’occupazione, tampono alla meno peggio le falle ( di cui sono spesso corresponsabile), tra cassintegrati, prepensionati e ricollocati.

 E in più in ciascun passaggio si consuma qualcosa. Sotto forma di concessioni, di rese incondizionate, sia contro la salute e l’ambiente e il territorio, sia contro i diritti sindacali. Sotto forma di soldi pubblici impiegati per sovvenzionare, rallentare, assistere, anziché per investire.

 Per quanto può durare questa spirale verso il peggio? Quanto spropositato sarà, alla fine, il prezzo da pagare, alla resa dei conti? Qualcuno se lo è mai chiesto?

 Non voglio, non posso pensare che siano tutti al soldo dei poteri forti, devo credere che per qualcuno si tratti solo di mancanza di riflessione, miopia, incapacità di prendere in considerazione alternative, di conformismo, di quieto vivere. (Sai che quieto!)

 Perché tutti siamo sulla stessa barca, che è questo mondo. Tutti abbiamo figli, certo nessuno di noi può desiderare di toglier loro in partenza il terreno sotto i piedi. Di condannare il loro futuro.

Ma è proprio questo che accadrà, andando avanti così.

Dunque, viviamo in questo sistema, il famoso liberismo trionfante, quello del mercato che si automodera e altre baggianate.

C’è sempre meno lavoro, è un dato di fatto, per colpa dell’automazione ma anche per i meccanismi del sistema.

 Contro l’automazione si rischia la sconfitta inevitabile, come accadde ai luddisti.

Ma i meccanismi del sistema? Il liberismo, l’economia, la finanza, la programmazione non sono scienze esatte della natura. Non sono processi, progressi inarrestabili.

Sono dottrine fittizie create dall’uomo. Che ora mostrano ampiamente tutte le loro inadeguatezze.

Come tali, basterebbe la volontà, la consapevolezza ormai evidente di quanto siano fallimentari, di quanto ci portino verso la catastrofe, per cambiarli.

Ho letto, in un pezzo scritto da un economista, che i giovani e brillanti laureati delle scuole economiche di Chicago non sanno come affrontare questa crisi, perché le leggi stesse che hanno studiato, non la ammettono, prevedendo il verificarsi inevitabile di compensazioni automatiche del mercato.

Il quale mercato, invece, col cavolo: va per conto suo. Che irrispettosa, questa realtà, a non conoscere e a non applicare le infallibili leggi del liberismo.

 Dunque, c’è sempre meno occupazione. La strada? Una, quella che va di moda, cedere sempre di più, un pezzettino, di diritti, di ambiente, in cambio di posti di lavoro. 

Risultato? Il sistema sempre più avido di profitti non si ferma, ci prova sempre, va oltre, dà un nuovo giro di vite, fino all’intollerabile.

Masse di popolazione diventano schiave di fatto, della precarietà, del bisogno, del ricatto, del consumo, della possibilità di essere sostituiti, delle masse migranti che premono. Si dirige l’odio contro di loro, gli altri, gli esterni, gli ostili, che diventano i nemici. 

Si innescano guerre e persecuzioni, la società diventa più misera in tutti i sensi, il mondo, l’ambiente subiscono ingiurie e ferite irreversibili, e intanto chi fa affari si ingrassa indisturbato. 

Questo è senz’altro il futuro che ci aspetta, purtroppo, se continuiamo su questa strada. 

Oppure, possiamo lottare per cambiare. Non cedere, riappropriarci dell’identità di esseri umani. 

Essere solidali e non ostili. Chiedere rispetto, e la possibilità, per ciascun individuo, di contare. E di contare insieme. Pretendere condizioni diverse di lavoro, non cedere.

 Fare proposte. Offrire speranze. Non abbiamo niente da perdere, solo da guadagnare. 

Per esempio, la piattaforma di Vado.

A buon senso, è evidente che è un progetto irresponsabile, sproporzionato al territorio, al rapporto costi /benefici, alle infrastrutture e all’occupazione. Su cui sta sospesa anche l’ombra dell’incompiuta. 

Eppure, chi lo sponsorizza continua a negare l’evidenza, e a trovare sponde autorevoli che avallano l’insostenibile. Con quanta cecità? Con quanta malafede? 

Prima o poi, le sensazioni a buon senso dei profani trovano conforti realistici e argomenti pratici. 

A proposito di grandi piattaforme logistiche, un articolo di shipping online citato da Uomini Liberi ammette la scarsa occupazione che danno, e in più ci offre un altro prezioso dato, da non sottovalutare, nella testimonianza del console della Culmv: queste strutture per i nostri porti non sono soltanto sovradimensionate come capacità (sarebbe come costruire un parcheggio per macchinoni USA in una piazzetta medioevale) ma anche per loro stessa caratteristica: movimentare grossi volumi, sempre gli stessi traffici, mentre da noi “c’è troppa variabilità. “

“I volumi dei nostri porti – spiega il presidente di Assologistica e ad di Contship Italia, Nereo Marcucci – sono troppo esigui, per cui un’automazione spinta e gli investimenti massicci che comporta non pagano. L’ammortamento non viene compensato dalla sostituzione del lavoro umano con l’automazione”.

Allora, persino a me, assoluta profana e digiuna di portualità e logistica, sorge spontanea un’intuizione, che butto lì non pretendendone copyright: non è che una caratteristica, addirittura una debolezza, possa trasformarsi in un vantaggio?

E’ questa la crisi per gli americani, “challenging”, le criticità, per le persone intraprendenti, coraggiose e aperte al futuro, si trasformano in opportunità.

L’idea me l’ha data aver avuto a che fare con la neonata Amazon.it, commercio on line. Una struttura estremamente elastica e mirata che sfrutta tutti i vantaggi dell’interattività.

Dato che i porti che si reggono su grandi scambi costanti, grandi volumi, sovradimensionati e difficili da ammortizzare, saranno i più colpiti dalla crisi, è proprio il caso di darci la zappa sui piedi e metterci in quelle condizioni, non avendone le caratteristiche, o non sarebbe il caso di attrezzarsi per approfittarne?

Chissà che non ci sia un modo di sfruttare l’automazione soprattutto come flessibilità di programmazione, capacità di adeguarsi a richieste mutevoli di carico e scarico, volumi e merci variabili, in modo efficiente e veloce?

Insomma, porti reattivi e tecnologici, sì, ma capaci di rispondere a un futuro che sarà sempre meno movimentazione di massa (almeno me lo auguro, o rischieremo di non avere alcun futuro) e sempre più risposta agile, innovativa e intelligente alle sfide.

E’ solo un’idea buttata lì. Forse rozza e incompetente, visto che provo a immedesimarmi in panni non miei.

Ma almeno ci provo. Credo che dovremmo tutti spremerci le meningi, ciascuno nel suo campo, ritrovando il famoso genio italico, se vogliamo sopravvivere, anziché credere alle pericolose sirene di un progresso che è già passato.

Forse nel futuro che abbiamo di fronte, un futuro che vede pesanti cambi di assetti di potere mondiale, anche se ci rifiutiamo di vederlo, non abbiamo molte scelte, o cedere al ricatto economico fino in fondo, popoli interi in balia di una finanza che si autoalimenta, con una società e un benessere sempre più limitati e precari, oppure inventarsi nuove strade, di tecnologia e di società e di sviluppo.

Perché non dimentichiamoci che quella “decrescita felice”, citata come una minaccia, con disprezzo, dal segretario della Cgil (che si dimostra così assai poco giovane di pensiero, assai poco informato e assai poco adeguato ai tempi) è in realtà una forma di sviluppo. Di sviluppo virtuoso. L’unica salvezza che si scorga attualmente da una società verticalizzata e da un mondo degradato.

 
Milena Debenedetti   4/12/2010

Il mio ultimo romanzo  I Maghi degli Elementi 

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