La valanga del NO seppellisce i partiti

La valanga del NO seppellisce i partiti.
È l’ora del popolo sovrano

 La valanga del NO seppellisce i partiti.
È l’ora del popolo sovrano

L’idea di ancorare il destino di una Nazione a un testo vecchio di settanta anni, redatto in condizioni di emergenza da un gruppo eterogeneo di vecchi liberali, comunisti preoccupati di compiacere il compagno Stalin, socialisti infarciti di retorica e democristiani ansiosi di rivalsa clericale, tutti rigorosamente avulsi dal paese reale impegnato a leccarsi le ferite, rimasto monarchico fino al giorno prima come lo stesso capo provvisorio dello Stato, ha in sé qualcosa di inquietante. Non si confonda l’attualità dei principi fondanti con l’esistenza di mitici padri fondatori, molti dei quali affetti da amnesia, e si faccia finita col culto del Libro, degno corollario del culto della Resistenza.


La costituzione è un pezzo di carta datato, il cui contenuto è valido per quello che riflette e fa propri  principi alla base di tutti gli stati moderni ma è inficiato da un incipit degno di uno stato satellite dell’Urss: “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”.  Far credere che i milioni di italiani che hanno rispedito al mittente la riforma costituzionale concertata dai quattro amici al bar per far quadrare comunque i loro conti si siano mossi per impedire che venisse violato il Sacro Testo dimostra solo l’ipocrisia e la pochezza dei nostri politologi. La semplice verità è che agli italiani si è presentata l’occasione per farsi sentire e ne hanno approfittato. È un’occasione che non hanno mai avuto – nel referendum del 2001, paralizzati dal bossismo, non andarono a votare –  e non riguarda solo gli ultimi anni con i governi non eletti e un parlamento che ha stravolto il risultato elettorale. Alle elezioni politiche essi sono costretti a dare il loro voto a partiti sapendo già che non li rappresenteranno, partiti che li hanno ingannati nel passato e continueranno a farlo nel futuro, partiti di cui non si fidano e fra i quali, se ancora se la sentono di recarsi alle urne, cercano di scegliere quello che si illudono sia se non il migliore almeno il meno peggio. Questa volta i partiti non c’erano e il voto è stato, come si dice, trasversale rispetto agli schieramenti ufficiali. Né creda Renzi, incoraggiato dai disgustosi commenti dei giornaloni,  di poter mettere il cappello sul 40% di sì, ottenuti col terrorismo mediatico, la mobilitazione della finanza e della stampa internazionali, la brutale ingerenza della commissione europea e delle cancellerie, la paura di vedere compromessi i propri risparmi. È stato un grande segno di maturità che nonostante tutto ciò il popolo italiano in grande maggioranza e autonomamente, non certo per merito dei due unici giornali che hanno fatto una campagna coerente e senza sbavature per il NO, il Fatto e la Verità,  ma che insieme non raggiungono i centomila lettori, né dei partiti schierati contro il governo, ridotti praticamente al silenzio, abbia voluto esprimere con forza la propria presenza e la propria voglia di esserci – non dico la propria rabbia, che è riduttivo – per imporre un freno alla deriva del Paese. Una deriva che sfugge alle vestali della costituzione ma è evidente nell’impoverimento collettivo, nella mancanza di prospettive, nello spettacolo indecente della cosiddetta accoglienza.


 Gli italiani hanno detto no al goffo tentativo renziano di mettere in costituzione un trucco che gli avrebbe consentito di mantenere il potere a prescindere dai risultati elettorali. Ma se fosse loro concesso di esprimersi su questioni serie  come lo stare, o non stare, in Europa o nell’Euro, il tetto agli stipendi che gravano sul bilancio dello stato e quindi sul contribuente, la revisione radicale del sistema fiscale, lo stop all’invasione e il rimpatrio con le buone o con le cattive di profughi e clandestini, verrebbero spazzati via definitivamente il sistema dei partiti, l’incapsulamento forzato in un’area piuttosto che un’altra, tutto il bagaglio di pregiudizi, stereotipie, luoghi comuni che costituiscono le ideologie. Questo voto ne è l’anticipazione e la promessa. La sfasatura che si è creata fra partiti politici e paese reale è ormai insanabile e non credo possibile al punto in cui siamo un loro riallineamento. Tanto più che anche le forze politiche di nuova formazione, e mi riferisco ai Cinque stelle, si sono subito adattate alla stessa sfasatura. Nell’entusiasmo generale per aver sfrattato l’inquilino abusivo di palazzo Chigi, a caldo, commentando l’esito del referendum, la deputata pentastellata omonima del fondatore, ha convintamene sostenuto che la valanga del NO è la risposta popolare al tentativo di toccare una costituzione intangibile, che non va né corretta né emendata ma semmai attuata in tutte le sue parti. A parte che la costituzione è una pulzella già ampiamente violata nel corso di un assalto notturno perpetrato dai compagni al suo Titolo V, è imbarazzante che la rappresentante di un movimento votato da gente che vuole cambiamento e pulizia parli come un reduce della Resistenza. Nella medesima circostanza un suo sodale di partito, quello scivolato su Pinochet,  mentre diciannove milioni e mezzo di italiani vogliono far sentire la loro voce  non trova di meglio che appellarsi ai quattro gatti della rete, dai quali dice di attendere risposte per stabilire il da farsi. Meno male che Grillo – quello originale – c’è, e meno male che c’è lui per spaventare l’intero sistema di potere incarnando il populismo, che poi non è altro che la voce del popolo che si fa finalmente sentire, ma il suo movimento non ha risolto il problema della distanza fra eletti e elettori. Eletti incapaci di avvertire la responsabilità  dell’investitura ricevuta  col voto, eletti tentati di mascherare la loro modestia, della quale non hanno colpa,  con una colpevole supponenza, un colpevole repertorio di frasi fatte e una colpevole disattenzione nei confronti del Paese e di chi ha consentito loro di battere i compagni ai ballottaggi. E, siccome sulla tragedia dell’invasione lorsignori osservano un religioso silenzio come se la cosa non li riguardasse mentre quelli che sono tenuti a rappresentare perché li hanno votati ne sono vittime come tutti gli italiani che non ci lucrano sopra, quella sfasatura non solo non si corregge ma viene tranquillamente perpetuata. Scambiare le poche centinaia di frequentatori assidui dei loro forum e delle loro chat, il loro popolo della rete, con quelli che non stanno in rete ma nelle fabbriche, negli uffici, nelle scuole e soprattutto nelle cabine elettorali sarebbe come far passare i centri sociali come il luogo di aggregazione dell’italiano medio.  Uno strabismo che se dovesse continuare  costerebbe caro al movimento e farebbe perdere un treno a tutti noi.


 Si è detto che il fronte del No è un’accozzaglia da cui non può uscire un progetto politico. È vero esattamente il contrario. Gli italiani che si sono compattati contro Renzi non hanno semplicemente votato contro ma hanno soprattutto votato per una svolta, per il superamento degli steccati di parte eretti nel segno del divide et impera; hanno indicato la strada maestra  che passa dal ritorno al proporzionale, esorcizza il fantasma della governabilità, pretesto per passare sopra la testa dei cittadini, e va nella direzione segnata dalle attese del popolo sovrano: quella di una completa ridisegnazione del quadro politico.  Chi agita il pericolo di inciuci o pateracchi va guardato con diffidenza perché è uno di quelli pronti a cambiare casacca per il proprio personale tornaconto. Se due o più forze politiche hanno l’obiettivo comune di mettere fine all’invasione, estirpare dalle radici il turpe affare dell’accoglienza, impostare una politica economica senza imposizioni interne o esterne, liberare risorse per procedere ad una riforma fiscale che cessi di falcidiare gli stipendi e possa rilanciare i consumi, attivare una politica per il lavoro contrastando la delocalizzazione; se,  in breve, condividono l’obiettivo di perseguire l’interesse del Paese, dovrebbe interessare meno che nulla se si dichiarano di destra, di sinistra o di centro: si mettano d’accordo e comincino a lavorare sul serio non per sé e per i propri amici ma per la patria comune.


 Lo dico senza infingimenti: Lega e movimento Cinque stelle sono oggettivamente accomunati dal medesimo marchio, il marchio del populismo. Quello che la loro miopia non riesce a vedere lo vedono chiaramente i loro avversari. Gli elettori della Lega e dei Cinque stelle vogliono le stesse cose e covano la stessa rabbia. Il problema sono i politici partoriti dalla rete o residuati dalla “Padania” ai quali non rimprovero tanto l’estemporaneità o la mancanza di cultura – non solo quella politica – quanto l’incapacità di essere autenticamente e fino in fondo populisti. Buon per loro che ci sono le banche altrimenti continuerebbero a cincischiare gli uni sulle autonomie, memoria illanguidita del secessionismo, gli altri sul reddito di cittadinanza e a girare a vuoto con il minimalismo esasperante che connota i loro deludenti amministratori. Se si decidono a diventare un po’ più simili ai loro elettori, e qualcuno dovrebbe dire alla Raggi, improvvida paladina dei clandestini,  che non sono i ragazzi dei centri sociali che l’hanno portata al Campidoglio, questa è l’occasione buona per dare ai partiti e alle lobbies di cui sono al servizio la spallata decisiva. L’occasione buona per dare al fronte del NO il riconoscimento politico che gli spetta, rivendicando, in sintonia con quanto accade in Francia, in Germania, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna ma con una connotazione e una specificità nazionali forti, il proprio orgoglioso populismo. Un legame organico di Lega e  Cinque stelle è imprescindibile ma richiede da entrambi i movimenti una maggiore compenetrazione col Paese. La Lega ha ritrovato slancio rinunciando ad interpretare gli umori, la grettezza e il provincialismo di un Nord che ha molto da farsi perdonare, non è più quella di Roma ladrona – come se Milano fosse stata una comunità zen – ma dovrebbe calibrare la propria sacrosanta battaglia contro l’invasione, depurandola dagli atteggiamenti contro, difensivi, sterili, ottusi come l’antica avversione verso i “terroni” e inserendola nella cornice del sentimento nazionale, della rivendicazione della propria identità, del rifiuto del meticciamento culturale ed etnico e della fierezza e responsabilità di essere cittadino italiano.  Ormai si dice tranquillamente che italiani e stranieri sono uguali di fronte alla legge e godono dei medesimi diritti; sicuramente tutti gli uomini sono uguali di fronte alla legge divina ma negli stati le cose funzionano in un altro modo. I Cinque stelle dal canto loro si devono convincere che nel confronto con un mondo e con un’Europa di popoli che perseguono i loro interessi nazionali alimentare il mito illuministico di un popolo senza frontiere e identità nazionale significa condannare il nostro Paese ad essere stritolato come un vaso di coccio fra vasi di bronzo. Le opinioni filosofiche, i riferimenti ideali, gli strumenti concettuali sono una buona cosa se illuminano la realtà ma se impediscono di vederla o la deformano vuol dire che non vanno bene o che sono usati in modo sbagliato. Insomma: con le ideologie ci hanno già pensato i comunisti a fare disastri; non vorrei che, in buona o in cattiva fede,  si ripetesse lo stesso errore. Chi fa politica non basta che sia personalmente onesto; deve essere libero da pregiudizi e le  sue convinzioni filosofiche o le sue personali utopie non ci interessano più di quanto ci interessino la sua fede religiosa o i suoi gusti sessuali:  deve essere animato da spirito di servizio ed è sicuramente bene che sia un idealista, se i suoi ideali sono la patria e il benessere e la sicurezza del proprio popolo.


 Senza quest’opera di depurazione i due movimenti rinnegano la loro natura, vengono meno al patto con i loro elettori, mancano l’appuntamento con la storia e fanno il gioco di quei poteri che dicono di volere abbattere. Poteri che ora sono nel panico. Sono arrivati al punto che dopo aver dichiarato la morte di Berlusconi e averne celebrato le esequie lo hanno riesumato e rimesso in campo per averne il sostegno. È altamente probabile che gli verrà al più presto restituita la piena agibilità politica e come d’incanto i giudici si dimenticheranno di lui.  Come Giano bifronte ha parteggiato per il sì – con la sua controfigura – e per il no ma non soffre di schizofrenia. Come ebbi ad osservare in un’altra occasione Berlusconi ha impersonato una stagione di grande entusiasmo popolare solo perché la sua immagine non corrispondeva affatto al personaggio reale. Gli Alfano o i Verdini di cui si è circondato e che ci ha portato in dono non sono il prodotto di scelte sbagliate. Berlusconi è tutto fuorché un imbecille: quelle scelte, come quella più recente di Parisi, corrispondono perfettamente al ruolo che egli si è attribuito, quello di leader dei moderati, che io non so bene chi siano, forse quelli che non vogliono fare troppo rumore o quelli ai quali in fondo sta bene tutto perché stanno bene loro, quelli che tanto si sentono al riparo e gli altri possono crepare tutti.

Berlusconi da un lato tiene agganciati Lega e Fratelli d’Italia e approfondisce così il solco che li divide dai Cinque stelle, che già si emarginano da soli, dall’altro insiste sulla governabilità, che è un modo elegante per dire che se nel Paese coesistono interessi contrastanti o c’è unanimità di sentire e di obiettivi questo è irrilevante. Evidentemente il principio che il governo deve essere la proiezione del popolo e che le coalizioni, quando si formano, non sono il risultato di giochi di potere ma la conseguenza di una frammentazione presente nel Paese sfugge proprio a quello che denunciava il “teatrino della politica”. E gli sfugge che stabilire una governabilità a priori è esattamente l’opposto della democrazia: la governabilità, con tutte le sue modulazioni, deve scaturire dal voto, senza leggi truffaldine che lo stravolgano.

In sintesi: se in Italia si intende la politica come la capacità di mettere il cappio al popolo  i movimenti che esprimono direttamente la sua voce devono impegnarsi a scioglierlo. È un buon segnale che né Salvini né Grillo si siano prestati al gioco delle consultazioni: ora ci aspettiamo che tengano alta la guardia e non deludano il popolo italiano.  E stiano attenti al soldato di Rignano, che prima si finge morto per poi sparare alle spalle di quelli che gli hanno tributato l’onore delle armi. Attenti a lui “che è diverso, che si  dimette davvero, che lascia la politica e si dedica alla sua famiglia” ma il giorno dopo “non ha paura di nulla e di nessuno”, dice di volere un governo con tutti dentro o elezioni subito e studia una triangolazione col capo dello Stato e la Consulta che di fatto lo lasciano al potere e consentono a questo parlamento di non eletti di finire la legislatura.  

Pier Franco Lisorini

Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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