La retorica dell’essere se stessi

La retorica dell’essere se stessi

La retorica dell’essere se stessi

“Essere se stessi”. Ormai è concetto assurto a nuova formula magica. A  toccasana che l’amico dà per consiglio e il counselor dà per mestiere; e che le riviste, da quelle psicologiche di nicchia a quelle di gossip, elargiscono senza risparmio e senza pietà.

Ma è poi così scontato che essere se stessi possieda questa qualità di faro che rischiara la notte e  indica la direzione?

Ancora più radicalmente: è così scontato che sia corretto spingere a, o che abbia un senso cercare di, essere se stessi?

Partiamo da molto lontano. Partiamo da Socrate.

Egli diceva che ogni uomo deve impegnarsi per giungere a conoscere se stesso. Ma evidentemente conoscere se stessi non è proprio la stessa cosa che essere se stessi. In cosa consiste la differenza? Nel fatto che per Socrate la situazione umana originaria è quella dell’ignoranza. Ad essa bisogna sostituire la consapevolezza, che a sua volta è fondamentalmente il rendersi conto della… propria infinita ignoranza. Questo speciale tipo di conoscenza, fu ciò che indusse l’oracolo di Delfi a decretare Socrate l’uomo più sapiente del mondo, perché la vera sapienza sta nel sapere di non sapere.

Socrate dunque non si autoconsiglia di essere se stesso, e non consiglia a noi di essere noi stessi. Non può: non saprebbe dove dirigersi e dove dirigerci. L’uomo è, con semantica latina, ignorante. Come potrebbe essere edotto di qual è il suo (tento di dargli un nome) autentico alter ego spirituale originario? Quindi Socrate per il rinvenimento di questo fantomatico quid non ci può soccorrere; se mai, anzi, ce ne mette in guardia. Forse presentiva che coloro i quali lo avessero considerato reale, sarebbero più facilmente, prima o poi, scivolati nell’integralismo di una verità unica e incontestabile, e da lì nell’idea che di quella verità inoppugnabile fosse senz’altro lecito, o magari doveroso,  pretenderne il rispetto da tutti.

Per l’uomo, la realizzabilità dell’essere se stessi proprio non si riesce a vedere. Non più dell’Araba Fenice. La quale, come ironicamente ebbe a scrivere Metastasio, “che ci sia ciascun lo dice / dove sia nessun lo sa”.

Voglio portare un esempio estremo. I nuovi kamikaze. Quelli che si fanno saltare in aria pur di trascinare nella loro sorte gruppi più o meno numerosi di persone, tra cui spesso solo una parte minoritaria rappresenta il nemico, e altrettanto spesso addirittura non sono il nemico, ma soltanto l’oggetto strategico per mandare messaggi al nemico. Ebbene, se arrivano a imbottirsi di tritolo per di lì a poco diventare brandelli di carne sparsi nel raggio di centinaia di metri, si può davvero pensare che indossino una maschera, che portino avanti una pantomima, che recitino una parte cui non credono profondamente, che, insomma, non sentano quella scelta come il frutto più completo dell’ “essere se stessi”?

 Credo proprio di no, e tuttavia il loro resta un gesto aberrante e criminale. Una gesto che sgombra il campo da quelle obiezioni che potrebbero giungere da coloro i quali, traditi da una certa somiglianza espressiva tra i due concetti di “sii te stesso” e “conosci te stesso”, ne deducessero un’equivalenza. Invece sono concetti lontanissimi tra loro. Se infatti l’invito a conoscere se stessi è funzionale a che ognuno intraprenda un duro lavoro di ricerca per capire di quali e quanti condizionamenti è il frutto, e quindi, tenuto conto di essi, possa trovare il modo più adeguato per vivere la sua avventura di uomo, l’invito a essere se stessi è funzionale a trasmettere l’idea che esista una sorta di sarcofago che sostanzia simbolicamente il nostro io più vero, più spontaneo, più originario, per cui una volta che intellettualmente ed emotivamente lo si (ri)acquisisce, non serve nessun Procuste che sloghi al soggetto le giunture per allungarlo, o gli seghi le gambe per accorciarlo. Il sarcofago c’è, ed è fatto a nostra misura. L’aderenza su ognuno di noi è così pennellata, così propria, da essere confermata da un sentimento di piacere e di simpatetica simbiosi, come accade per le dune, che in qualche modo sono la forma visibile del vento, e lo modellano e ne sono modellate.

Sarcofago, ho detto. Avrei potuto, avendo richiamato il mito di Procuste, parlare di letto. Invece ho sostituito il secondo oggetto col primo. Questo perché non si tratta, a guardare con un minimo di attenzione, di lasciar venir fuori qualcosa di vivo, di dinamico, di fluido; ma di mostrare una mummia. Una piccola mummia ideale alla quale rivolgersi quando la vita mette di fronte a crocicchi che rendono incerti i nostri passi, nel momento in cui per insicurezza e paura si fanno goffi e tentennanti. E’ in questi frangenti che ci si rivolge, per lo più senza rendersene conto, all’idea (che in questo contesto non vuol ovviamente  trasmettere nulla di funereo e che comunque è da intendersi in senso emotivo e non iconico), di sarcofago, e si sollecita la relativa mummia a…farsi viva, a battere un colpo a testimonianza della sua rassicurante presenza.

Una mummia strana, certamente. Una specie di ombelico spirituale che resterebbe la parte più intima di noi, inossidabile al trascorrere del tempo. La nostra parte profonda che resta lì, ad attendere, come il padre attende il ravvedimento e il ritorno del figliuol prodigo. Ad attendere che la fasciamo col nostro sarcofago-avatar sorridente di un sorriso appena accennato, ieratico ed eterno, soddisfatto per aver riattinto dopo l’azzeramento di tutti i condizionamenti, alla purezza incondizionata del nostro autentico essere.

Ma è proprio così? Non sarà piuttosto che invece di sentieri tracciati ci siano sentieri che vediamo soltanto se ci voltiamo indietro, perché li hanno creati i nostri piedi schiacciando le erbe alte? Non sarà che “l’essere noi stessi”, ci lascerebbe nello stato di mummie? Di entità, cioè, che nel tentativo di mantenere una parvenza di vita nel cadavere, lo mortificano ulteriormente?

Fulvio Baldoino

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