Ma che cosa fai! Ma che cosa dici!

Ma che cosa fai! Ma che cosa dici!

Ma che cosa fai! Ma che cosa dici!

Oggigiorno si raccontano molte sciocchezze a proposito dei maestri e dei discepoli, e dell’insegnamento che il maestro lascia in eredità agli allievi prediletti, autorizzati così a trasmettere la verità ai propri seguaci. Naturalmente lo Zen dovrebbe essere comunicato in questo modo, da cuore a cuore, e in passato avveniva proprio così.

Regnavano il silenzio e l’umiltà, non l’asserzione e la dichiarazione. Chi riceveva un simile insegnamento teneva segreta la cosa persino dopo vent’anni. Finché un altro, spinto dal proprio bisogno non scopriva che era disponibile un vero maestro, nessuno sapeva che l’insegnamento era stato impartito, e anche allora l’occasione si presentava in modo del tutto naturale, e l’insegnamento si faceva strada da sé. In nessun caso l’insegnante avrebbe dichiarato: «Io sono il successore del tale». Questa asserzione avrebbe dimostrato proprio il contrario.

Il maestro di Zen Mu-nan ebbe un solo successore. Il suo nome era Shoju. Quando Shoju ebbe compiuto i suoi studi di Zen, Mu-nan lo chiamò nella propria stanza. «Sto diventando vecchio,» disse «e a quanto ne so io, Shoju, tu sei l’unico che continuerai questo insegnamento. Qui c’è un libro. È stato tramandato da maestro a maestro per sette generazioni. Anch’io vi ho fatto molte aggiunte secondo il mio criterio. 

Il libro è molto prezioso e io te lo do come simbolo della tua successione».

«Se questo libro è una cosa tanto importante, faresti meglio a tenertelo» rispose Shoju. «Io ho ricevuto il tuo Zen senza scritti, e mi sta bene così com’è».

 «Lo so» disse Mu-nan. «Tuttavia, sono sette generazioni che quest’opera passa da un maestro all’altro, così puoi conservarlo come segno che hai ricevuto l’insegnamento. Tieni».

I due stavano parlando davanti a un braciere. Non appena Shoju ebbe il libro tra le mani lo gettò sui carboni accesi. Non aveva nessun desiderio di possedere qualcosa.

Mu-nan, che sino a quel momento non era mai andato in collera, strillò: «Ma che cosa fai!». Shoju gridò di rimando: «Ma che cosa dici!».

Tratto da: “101 Storie Zen” a cura di N. Senzaki e P. Reps, XXV ed.(Adelphi, Milano, 1994).

Il senso di questa storia non ritengo richieda particolari commenti. Quando un “senso religioso” o una “filosofia di vita” richiedono libri più o meno sacri, dogmi e commentari, temo che le originali parole del Maestro siano servite solo a togliere tempo al bene.  Tale fu anche l’insegnamento di Gesù e trovo grottesco ogni riferimento della Chiesa a Gesù che non viene mai chiamato con il suo nome, ma con l’appellativo “Il Cristo”

In effetti l’esempio, in primis, e la parola, per comunicare, siano gli unici strumenti per vivere in pace e in armonia. L’uomo è, tuttavia, un poco più complesso e allora si scatena la logorrea. La parola per incitare, tanto cara ai Domenicani.

Salvatore Ganci

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