La deriva dell’Occidente, se i figli sono meno intelligenti dei genitori

È tornata improvvisamente di attualità la ricerca condotta nel 2005  da due studiosi norvegesi sulla relazione fra l’intelligenza  misurata dai test (il QI) dei genitori e quella dei figli. lo scopo era quello di verificare l’attualità dei risultati ottenuti  venti anni prima dallo psicologo neozelandese James Flynn a conclusione di un’indagine longitudinale sull’andamento nel tempo del fattore g, il fattore costante in tutti i test di intelligenza, il cui valore è considerato  la misura dell’intelligenza generale.

In tutte le popolazioni considerate dal 1938 (da quando datano rilevazioni sistematiche con i test di intelligenza) fino alla fine del secolo  veniva registrato un aumento costante di questo valore.  L’indagine si collocava  sulla linea inaugurata da Francis  Galton, il cugino di Darwin, che aveva studiato la relazione fra la statura dei padri e quella dei figli ed era arrivato alla conclusione che i figli dei genitori di alta statura sono tendenzialmente più alti della media della popolazione ma più bassi dei loro genitori; insomma, una regressione verso la media che in questo caso invece non si verificherebbe, sostituita da un costante aumento della media: la popolazione, almeno nei Paesi sviluppati oggetto dello studio, diventerebbe progressivamente più intelligente, con  i figli che in ogni passaggio generazionale risultavano più intelligenti dei loro genitori. Da allora questo fenomeno è noto come “effetto Flynn”.

James R. Flynn

Nessuno, per quel che mi risulta, ne contestò seriamente l’attendibilità; piuttosto si riaprì la polemica annosa sul valore euristico dei test – dei quali per altro è difficile negare l’utilità anche oltre l’ambito clinico -, e, a latere, sulla relazione fra intelligenza e linguaggio e fra pensiero e linguaggio. Fra le ipotesi che venivano formulate per spiegare l’effetto Flynn segnalo  l’alimentazione, la possibilità di accesso all’istruzione superiore,il progresso scientifico e tecnologico.  Poi è accaduto che i due ricercatori norvegesi hanno scoperto che a partire dall’ultimo decennio del secolo l’effetto Flynn non si è solo rallentato ma addirittura invertito: i padri sono ora più intelligenti dei figli; non solo più colti dei figli – un dato che si spiega come effetto perverso della scolarizzazione di massa – ma più intelligenti; l’hanno chiamato “effetto Flynn inverso”, confermato da altri ricercatori, fra i quali lo stesso Flynn.

E, ancora una volta, si è aperto il dibattito sulle cause, che ha visto sul banco degli imputati di volta in volta i videogiochi, i cellulari, le calcolatrici, la riduzione drastica del tempo dedicato alla lettura e, con particolare insistenza, la semplificazione del linguaggio. Nel caso dell’italiano l’attenzione è rivolta alla difficoltà nell’uso del congiuntivo, alla scomparsa del condizionale, alla semplificazione dell’impianto sintattico.  Un periodare complesso e articolato, si dice, corrisponde a un pensiero altrettanto complesso e articolato. Per una valutazione corretta dell’effetto Flynn inverso  bisogna però sgombrare il campo da questo rapporto causa-effetto, che non è solo un errore di metodo, perché la correlazione positiva di due fenomeni – impoverimento intellettivo e impoverimento linguistico – non implica l’esistenza di un nesso causale, ma un errore nel merito perché restano valide le conclusioni di Jean Piaget: l’educazione, il livello di scolarizzazione, gli strumenti linguistici non influiscono sul problem solving, sulle prestazioni ai test di intelligenza, sulla velocità di apprendimento, sulla capacità di passare dalla teoria alle applicazioni pratiche o sul pensiero divergente. Il linguaggio è uno strumento di comunicazione, serve per convincere, per minacciare, per consolare,per trasmettere il pensiero ma a poco a che fare con l’intelligenza: semmai serve per coprire la mancanza di intelligenza. Detto questo resta ovvio che in condizioni di deprivazione l’intelligenza potenziale – genetica – non ha modo di esprimersi: solo in questo senso l’ambiente influisce sull’intelligenza.

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Con l’inversione dell’effetto Flynn  gli psicologi hanno scoperto l’acqua calda, cosa non rara nella ricerca scientifica istituzionalizzata. Hanno però avuto il merito di dare il manto del rigore scientifico a qualcosa che è sotto gli occhi di chiunque voglia vedere: la deriva della società occidentale. Si conferma una diffusa percezione sbrigativamente imputata al misoneismo dell’anziano: l’esperienza personale è effettivamente viziata dalla tendenza alla sopravvalutazione di se stessi e della propria generazione, una sorta di reazione alla marginalizzazione  sociale accentuata dai cambiamenti del costume e degli stili di vita. C’è però un osservatorio privilegiato, quello della scuola, e un testimone attendibile, l’insegnante, che può confermare empiricamente i risultati ottenuti con i metodi della statistica psicometrica, che pecca di eccessiva astrattezza. Bene, per quello che personalmente mi riguarda ho registrato un graduale calo di prestazioni di fronte al medesimo compito, correlato col crollo della partecipazione, del coinvolgimento e dell’attenzione.  E anche qui, come nel caso del linguaggio, si rischia di confondere la causa con l’effetto. Lo studente che non capisce tende a estraniarsi, a sfuggire al confronto, ad assumere atteggiamenti oppositivi, quelli che sempre più frequentemente sfociano in aggressioni verbali e qualche volta fisiche. Non è in gioco, come molti credono, una frattura generazionale o  la mancanza di interesse ma un deficit di intelligenza. È infatti escluso che si possa essere coinvolti da qualcosa che si fa fatica a capire ed è comprensibile che chi non capisce si trinceri dietro la mancanza di interesse: non mi piace, mi annoio, non ho voglia. Meglio così per la propria autostima.  Lo stesso insegnante cade nella trappola: non studia, ha la testa altrove, dovrebbe applicarsi maggiormente, quando in realtà semplicemente lo studente non capisce e se non capisce è inutile che studi e per difendere la sua autostima bisogna che si sposti verso aree più congeniali.

Uscito dall’università, in anni in cui dopo aver superato entrambi i concorsi  ero indeciso fra l’insegnamento di lettere o di filosofia ricordo ancora in una  classe di liceo classico  una ragazza che  di fronte al Canzoniere petrarchesco era infastidita dalle note e dall’apparato critico che, diceva, le toglievano il gusto della lettura e della scoperta personale: un caso esemplare di pensiero insofferente degli schemi, come quello di un suo compagno che mi chiedeva con quale metro fosse possibile giudicare il passato, sottintendendo che il passato non va giudicato ma compreso.  Negli ultimi due decenni dietro la cattedra studenti così non ne ho più avuti. Sta il fatto che allora erano la regola  ma oggi non sarebbero neppure eccezioni ma  passerebbero per marziani.  Meno distrazioni, minori opportunità, più tempo passato in casa, la lettura come scelta obbligata?  o semplicemente strumenti più potenti? e, dall’altra parte, maggiore apertura verso il mondo, un orizzonte più ampio, un approccio più lieve all’esistenza o semplicemente meno strumenti?  Fra le due ipotesi mi sembra più attendibile la seconda, coerente appunto con l’effetto Flynn inverso. Che, se corrisponde alla realtà, apre uno scenario terribile, quello di una deriva che condanna il nostro Paese e l’Occidente tutto.

E che purtroppo spiega tante cose, dall’imbarbarimento del costume al confinamento dei classici all’interno delle aule scolastiche alla totale generalizzata cecità nei confronti dell’arte. È calato il sipario sui riferimenti culturali che davano un senso all’identità nazionale e nello stesso tempo connettevano culture diverse in un’unica superiore civiltà.  Si spiega così come sia stato possibile estromettere la grande madre Russia dal nostro universo nell’indifferenza generale; Tolstoj non ci appartiene più, Mussorgsky non ci appartiene più come non ci appartengono più Mozart o Chopin, Degas o lo stesso nostro Fattori. Tutto senza un’alternativa, senza che a quello che si è perduto si sia sostituito qualcosa che vale. E se ne esce impoverita la comunicazione, perché quel che resta in comune è la banalità del quotidiano, va peggio per la politeia, la coscienza civica. Ignoranza, apatia,  e il protagonismo lasciato alla canaglia dei centri sociali e dei collettivi studenteschi o alle menadi furiose che pretendono di imporre all’universo mondo le proprie turbe erotiche. Buon gioco per i politici, per le nullità dalle quali siamo governati direttamente o indirettamente, a destra e a sinistra. Buon gioco per gli organizzatori  e per i complici dell’invasione, che non viene percepita come una minaccia perché mancando la coscienza della propria identità non si avverte il rischio di perderla e, incapaci di vedere oltre il proprio naso, non si mette in relazione con il dissesto dei conti pubblici e il tracollo delle stato sociale; e  buon gioco per gli incapaci e gli incompetenti, con i quali ci si identifica e per i cialtroni di ogni risma che hanno occupato il centro della scena.

E l’insistenza della comunità scientifica nell’attribuire sviluppato ai più disparati fattori ambientali alimenta sulla rete il fiume delle banalità. Nell’unica, per quel che ne so, ricerca che prende in considerazione l’immigrazione lo si fa per escluderne aprioristicamente il peso: è una variabile ininfluente, non vogliamo mica rischiare  l’accusa di razzismo, l’ostracismo e la fine della carriera. Quindi alla larga dalla genetica. Io, che non ho queste preoccupazioni, non ho alcuna remora a riconoscerne il peso,  anche in Paesi in cui l’integrazione – per altro più apparente che reale – ha avuto più successo; e sono convinto che un’altra causa genetica, direi darwiniana, sia all’origine dell’effetto Flynn inverso: gli individui più intelligenti sono anche  i più restii a riprodursi proprio perché più responsabili, più in grado di guardare al futuro e più sfiduciati. Un gatto che si morde la coda perché con l’aumentare del numero dei meno dotati, nella scuola e nella società, i più dotati rischiano l’emarginazione, gli standard dell’istruzione si appiattiscono e aumenta il degrado sociale. Se solo un incosciente può scommettere sul futuro e i figli, si sa, sono proprio una scommessa sul futuro, sono guai e guai seri.

Pierfranco Lisorini

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