KRESCERE

KRESCERE, KRESCERE, KRESCERE

KRESCERE, KRESCERE, KRESCERE 

La formula magica ricorrente sulla bocca di politici, industriali e banchieri, con particolare accentuazione negli ultimi mesi, è sempre la stessa: “Per uscire dalla crisi l’Italia ha bisogno di crescere”, “L’Italia cresce troppo lentamente”, ecc.

 Su un numero precedente avevo enfatizzato quanto la crescita venga identificata nel PIL; e poiché deficit e debito pubblico sono sempre espressi, più che in valori assoluti, in percentuale del PIL, i governanti, per rispettare i parametri di Maastricht (deficit sotto il 3% del PIL, debito pubblico “virtuoso” non oltre il 60% del PIL), non hanno che due strade: la prima, di loro diretta responsabilità, richiede un taglio della spesa pubblica; la seconda, affidata al mondo del lavoro, esige una crescita di produzione di beni, quali che siano, onde compensare il mancato taglio delle uscite di Stato ed enti pubblici.

La situazione è bloccata dal fatto che la produzione rallenta in quanto le aziende o chiudono o licenziano o pagano stipendi precari o da fame per sopravvivere, col risultato di conferire minor capacità di spesa a un numero sempre maggiore di cittadini. Ciò riduce le entrate fiscali e costringe ad alzare le tasse, diminuendo ulteriormente la capacità di spesa sia dei consumatori che delle aziende, alle prese con fatturati in picchiata.

Al governo allora non resta che (s)vendere il patrimonio dell’erario, attraverso le privatizzazioni, impoverendo lo Stato; ridurre drasticamente i servizi pubblici essenziali, precarizzare quanto più possibile i dipendenti statali e parastatali ed esternalizzare mansioni per tradizione di competenza statale. In sostanza, abolire lo stato sociale, vanificando gran parte delle conquiste di anni di lotte dei lavoratori.  

È così che pongono la questione il governo, la maggioranza, la Confindustria e gli stessi lavoratori e sindacati, che finiscono per adottarne gli schemi e lo stesso linguaggio (anche i lavoratori della Fincantieri e la Fiom urlano che vogliono la crescita), non lasciando intravedere altre vie d’uscita che quella di produrre per produrre, sempre di più, non importa cosa, da automobili a case, in un mercato saturo di entrambe.

Sarebbe ora che perlomeno i lavoratori cessassero di farsi cooptare in questa logica e cercassero di arrivare al vero bandolo della matassa. Un bandolo tenuto gelosamente al di fuori di tutti i dibattiti TV, ma anche di piazza. Cerchiamolo insieme.

Lo so che i documenti economico-finanziari sono tutto tranne che leggibili, e tali devono essere, onde ammantarli di un’aura di irraggiungibilità dalle menti dei comuni cittadini. Ma da comune cittadino, quale io sono, ho voluto lo stesso cimentarmi nell’impresa e, grazie ad Internet, sono andato al nocciolo dei documenti pubblicati sul sito del Ministero del Tesoro, firmati dal presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi e dal Ministro dell’Economia e delle Finanze Giulio Tremonti. Un tempo si chiamava DPEF, da un anno DFP (Decisione di Finanza Pubblica), ma in via transitoria, in quanto sarà presto sostituito da un documento omologato ai dettami dell’Unione Europea.

Il cuore del DPEF 2010-2013 si trova a pag. 28*, e consiste in una Tavola le cui righe più interessanti ai fini del presente discorso sono quelle riguardanti, appunto, gli interessi passivi sul debito pubblico, in valori assoluti e in % del PIL.

Il cuore corrispondente del DFP 2011-2013 è la Tabella di pag. 23** .

Dal raffronto delle due Tavole salta subito all’occhio il calo degli interessi passivi nella seconda versione, non già per una riduzione del debito pubblico, quanto per il drastico taglio del tasso di sconto della BCE dopo la crisi innescata nel 2007 e tuttora in atto.

 

Si osserva peraltro che gli interessi pagati ogni anno dallo Stato alle banche centrali (8% alla BCE e 92% a Bankitalia, ossia alle sue proprietarie, in primis Unicredit e Intesa, che insieme ne possiedono circa 2/3), equivalgono grosso modo all’indebitamento netto dello Stato. In sostanza, se quegli interessi non ci fossero, l’Italia sarebbe in pareggio o addirittura in avanzo, a seconda degli anni considerati.

Questo è ancora più vero nel DFP, rispetto al DPEF, in parte per i tassi più bassi da un biennio in vigore (previsti però in salita), ma presumibilmente per i piani di privatizzazioni e tagli di varia natura che il governo non avrà mancato di mettere in conto per i prossimi anni. Nota costante delle due tavole è che, a fronte di interessi passivi previsti comunque in crescita, dai circa € 72.000 nel 2010 a quasi € 84.000 nel 2013 (nel DFP), si prevede un indebitamento netto in drastica diminuzione, da € 77.000 a € 38.800 nel 2013: un vero tonfo!

 

Com’è possibile ciò, se non con misure anti-sociali del calibro di quelle, se non peggiori, imposte in questo periodo alla Grecia per mantenerla nell’area Euro?

Tremonti, si dice in coro, tiene i conti in ordine. Grazie, ma con quali conseguenze sul nostro livello di vita? Mette alla frusta un’intera nazione pur di pagare gli interessi alle banche. Interessi di un ordine di grandezza tale che fanno la differenza tra una vita dignitosa ed una di progressiva indigenza generalizzata, togliendo ad almeno due generazioni sia il presente che il futuro.

Non c’è bisogno che ribadisca quanto questo colossale debito pubblico, e quindi anche gli interessi sullo stesso, siano un castello di carta pazientemente costruito attraverso gli anni dal sistema bancario con la connivenza di tutti gli schieramenti politici: destra, ex-sinistra e centro. Nel totale silenzio di tutti gli organismi sociali e sindacali.

Per cui non ha più alcun senso che continuino ad esistere gli attuali partiti, compromessi col mondo della finanza, che ha ormai scalzato quello produttivo, dal quale emunge sempre più voracemente ricchezza. Non ci sono speranze di cambiamento finché non si andrà al cuore di tutti i problemi: il sacco dei redditi da parte del circuito bancario transnazionale attraverso le esattorie pubbliche, che riscuotono le tasse anche per pagare alle banche interessi su prestiti fasulli, perché erogati a fronte del nulla.

Il governo prevede, se va bene, una “manovra” da oltre € 40 miliardi entro il 2014; e la Corte dei Conti aggiusta la cifra a € 46 miliardi, asserendo gravemente che “sarà impossibile ridurre le tasse”. Ma la Corte dei Conti, che si presenta ogni anno in pompa magna, con tanto di magistrati in ermellino, i conti che ho modestamente tratto dai bilanci dello Stato, s’è mai apprestata a farli? Ha mai appurato da dove arrivano tutti i miliardi che lo Stato prende in “prestito”, genuflesso, dalla banca centrale? Se un cittadino fa operazioni bancarie superiori a € 2.500 c’è un cervellone centrale che lo addita al pubblico controllo, specie se si tratta di contanti. Bene, ma la BCE tutti quei miliardi che eroga, pardon, che “presta” allo Stato, da dove li prende? Semplice, li stampa, e li dà allo Stato in cambio di BOT, CCT, BTP, ecc., a interesse, per giunta: ecco come si forma il c.d. debito pubblico. Cosa ne dice la Corte dei Conti? E su quel fiume di denaro dal nulla, le banche ci pagano almeno le tasse? La Guardia di Finanza, così vigile sugli scontrini dei negozianti, e la coppia Agenzia delle Entrate/Equitalia, cui persino Tremonti ha chiesto di allentare la morsa (e le ganasce alle auto), hanno mai calcolato che evasione mostruosa c’è sul denaro circolante, tutto erogato a debito dalle banche?

Detto tutto questo, discuterò in un prossimo numero quali sarebbero le conseguenze dell’applicazione generalizzata delle misure sopra indicate, sia positive che negative, queste ultime dal punto di vista ambientale. Perchè nessuna soluzione presenta risvolti solo positivi. Purtroppo.        

 

Marco Giacinto Pellifroni                                                       29 maggio 2011

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