intercettazioni

CONDIZIONATI A CREDERE
Le intercettazioni e l’etica

CONDIZIONATI A CREDERE
Le intercettazioni e l’etica

Quando ho finito di scrivere “Condizionati a Credere”, il mio ultimo libro appena pubblicato da “Lampi di Stampa”, il tema delle intercettazioni telefoniche non era ancora di moda e non ci ho badato. Ora che, invece, è venuto alla ribalta in modo così rumoroso insieme alle sue implicazioni etiche, m’induce qualche riflessione che può servire.

Perché, dietro agli argomenti addotti in pro e in contro, si celano i pesi di diversi pregiudizi e condizionamenti a credere, che non solo limitano la nostra libertà di pensiero – e, quindi, di essere – ma che, soprattutto, rendono confusa e ambigua l’intera discussione.

Alla base di tutto si trovano i due principali condizionamenti a credere che governano l’oc­cuparsi dei fatti altrui.

  • Per il primo, è disdicevole fare la spia, origliare, guardare dal buco della serratura, spettegolare, in altre parole occuparsi dei fatti altrui che non ci riguardano. E’ disdicevole e basta: e non importa se i nostri motivi siano nobili oppure no. Dopotutto, è la privacy.
  • Per il secondo, tutto questo è addirittura indispensabile da sempre, perché serve a combattere il crimine e l’abuso del privato verso la collettività. E tanto peggio per la privacy.

Qualcuno li chiama concetti, ma sono solo atti di fede. Il primo è evidentemente libertario, mentre il secondo è totalitario. Dove si contrappongono l’esigenza per la libertà individuale e quella per un’etica che dovrebbe proteggere la collettività buona dagli individui cattivi.

Peccato che l’etica della collettività da proteggere, vecchia come l’uma­nità, sia sempre stata presa a pretesto per impedire le libertà individuali più elementari: ed ecco l’inquisizione cattolica, i processi alle streghe, la guerra di Hitler agli ebrei e ai diversi, le aberrazioni di Al Qaeda. E la stessa ostilità del papa al relativismo culturale potrebbe essere solo una difesa del proprio modo di vedere certi valori, contro la libertà di chi la pensa diversamente: perché gli altri sbagliano, mentre noi no, e basta.

La libertà dell’individuo, invece, viene difesa sul serio solo da poco tempo, diciamo dall’Illuminismo in poi. Sappiamo tutti che, un tempo, questa libertà – anche dalle nostre parti – era sostenuta solo da pensatori coraggiosi isolati, di solito ostacolati dal Potere in carica e, quindi, destinati a finir male: come Socrate, Cicerone, Seneca, Cartesio, Erasmo, Giordano Bruno, Galileo. Sappiamo tutti che solo negli ultimi secoli si sono sviluppati movimenti collettivi e politici con il culto della libertà individuale. E sappiamo anche quanto questa libertà sia stata ostacolata dalle monarchie dell’Ottocento e dalle dittature del Novecento. Tra gli oppressori della libertà non ci sono stati solo il fascismo e il nazismo, ma anche ogni clericalismo e ogni populismo, più il comunismo, l’Iran, il Tibet, Cuba, più mille altri che conosciamo e chissà quanti di cui non sappiamo nulla. E le attuali leggi sulla privacy – che non è libertà, anche se vorrebbe somigliarle – sembrano molto più burocratiche e formali che sostanziali.

Ai nostri giorni e dalle nostre parti, l’etica che pretende di proteggere i popoli dagli individui cattivi è attuale perché passa per sociale. E il sociale è di moda, anche per chi lo usa solo in appoggio alla propria carriera. In più, quest’etica fornisce argomenti utili a demonizzare gli avversari politici: Pierluigi Battista, il 14 giugno sul Corriere della Sera, ha ricordato come la stessa sinistra, che oggi dice “intercettateci tutti”, qualche anno fa vedesse lo strapotere dei magistrati come una minaccia di Stato contro la libertà dell’in­dividuo. D’altra parte l’idea intercettateci tutti vuol significare che siamo così trasparenti e onesti da non avere nulla da nascondere: mentre, invece, tutti abbiamo qualcosa da nascondere, magari remoto, magari inconscio, magari inconfessato anche a noi stessi, magari solo una caduta di stile, ma sicuramente da nascondere. E, quel che è peggio, vuol significare che gli altri, ossia quelli che non sono come noi, inclusi gli avversari politici, sono un branco di disonesti anche se sono la maggior parte dell’u­manità. Dunque, tutto questo rende difficile stabilire quanto si tratti di un’etica e quanto di un’i­pocrisia, così come è difficile stabilirlo verso chi pretende una libertà individuale piena, a tutti i costi: libertà di potere, di fare i propri comodi contro tutti e, perché no, di delinquere.

A questo punto sembra possibile trarre qualche conclusione razionale, indipendente dai nostri condizionamenti, dalla nostra fede e dai nostri pregiudizi.

Razionalmente, è ovvio che la società debba difendersi dall’abuso di libertà dei suoi membri: perché di questo si tratta. Così com’è ovvio che i vari modi d’investigare, a cui ci hanno abituati i film polizieschi, siano tutti concettualmente identici: i mezzi elettronici, le intercettazioni telefoniche, le telecamere a circuito chiuso e le “cimici” sono solo aiuti tecnologici che prima, semplicemente, non esistevano. Anche se tenere sotto controllo i telefoni di un individuo per diversi mesi, sperando che presto o tardi costui si tradisca con qualcosa d’interessante, non sembra avere molto a che fare con un’inve­stigazione mirata. Ma questi sono problemi dell’investigatore

Invece, la logica dell’intercettateci tutti è pericolosa almeno per la difficoltà a definire i crimini per i quali l’intercettazione è lecita: oggi sono l’asso­ciazione mafiosa, la corruzione, la delinquenza comune. Domani potrebbero essere l’appartenenza a un certo partito politico, a una certa religione, a una certa razza o, semplicemente, l’essere diversamente abili. È già successo.

Chi dice “intercettateci tutti” forse non si domanda cosa accadrebbe se un futuro capo del governo somigliasse ad Ahmadinejad, a Hitler, a Stalin o solo a Milosevic. Oppure suppone che ci penseremo allora, come se a quel punto si potesse ancora far qualcosa. Intanto la Chiesa Cattolica ci sta intercettando tutti da secoli con la confessione, condizionandoci in un modo del quale non sembriamo ancora consapevoli. E ciò legittima il sospetto che la nostra disponibilità a lasciarci intercettare derivi proprio dall’atavica abitudine di confessare i propri “peccati” a un estraneo che da secoli si è arrogato il diritto di giudicare, assolvere e condannare: l’ennesimo condizionamento.

Dunque, niente da fare: l’intercettazione, con la sua logica da “Grande Fratello”, può essere lecita solo di fronte a crimini indiscutibili. Ma supporre che sia “buona” perché buoni sono coloro che la gestiscono, è una sciocchezza, un’il­lusione folle. Buoni i pubblici ministeri, buoni i giudici, buoni i poliziotti, buoni i politici? Meglio Torquemada, l’inquisitore integerrimo, o Ferdinando re d’Aragona che sollecitò l’Inquisizione adducendo motivi religiosi mentre pensava al proprio potere politico?

Intanto le intercettazioni saranno sempre più invasive perché, figlie dell’elettronica, sono comode, efficaci ed economiche contro ogni parere contrario: e non sarà certo una riflessione su queste pagine a frenarle, più di quanto non potrebbero fermare un acquazzone o un terremoto.

Tuttavia bisogna almeno impedire che, occupandosi dei fatti altrui per professione, qualcuno sconfini su chi non c’entra nulla, su chi non è un criminale, su chi non è e non sarà mai indagato, magari gettandolo in pasto all’opinione pubblica come se fosse un pericoloso delinquente o, peggio, come un ignorante, deficiente, superficiale e chiacchierone: è successo ed è indegno.

Perché questa è l’unica etica da considerare razionalmente, in una democrazia occidentale: non a caso esiste il segreto istruttorio. Ed è anche l’unica etica possibile in una civiltà che pretende di avere radici cristiane, di essere la culla dell’amore cristiano: perché questa è soltanto l’etica del rispetto per l’individuo. 

Quest’etica implica solo che nessuno possa approfittare del proprio diritto alla libertà professionale per sputtanare qualcuno, mettendolo alla berlina per i propri difetti. E implica che nessuna libertà di stampa, di divulgazione e di pettegolezzo possa prevalere sulla libertà individuale, privata, personale di chiunque: libertà di essere, di pensare, di chiacchierare a vuoto e perfino di dire parolacce al telefono.

Il giornalista che, invocando la libertà di stampa, descrive la propria costernazione per le volgarità telefoniche degli intercettati, è un ipocrita che finge di essere superiore a queste miserie perché, tanto, non rischia di essere sputtanato a sua volta: anche se nessuno crede che lui le parolacce non le dica. Il giornalista che, invocando la libertà di stampa, pubblica intercettazioni telefoniche senza eliminare la parte relativa a chi non c’entra – in un periodo di esaltazione della “privacy”, con le facce oscurate dalle televisioni – al meglio è uno che non si degna di controllare la trascrizione che manda in stampa perché non si cura del danno che fa.

E questa trascuratezza è, ancora, mancanza di rispetto per il prossimo: altro che amore cristiano.

Ma ora, in mezzo al chiasso conseguente alle proposte di leggi restrittive, si sente quasi solo una voce: la voce di chi pretenderebbe che la libertà di stampa sia illimitata per dogma, anche quando è libertà di sputtanare. Mentre le autocritiche sono poche, intelligenti e sommesse.

La protesta generale non stupisce, perché un conto è non doversi preoccupare se si danneggia qualcuno (tanto, si è sicuri della propria impunità), un conto è rischiare qualcosa. Ma colpisce, perché è come se non si capisse che nessuna libertà può essere piena e assoluta, neppure la libertà di stampa: altrimenti è arbitrio. Colpisce per la sua analogia con le solite proteste sindacali che non riconoscono i problemi del mercato e delle aziende, ma si limitano a pretendere oltre il ragionevole. Colpisce perché la cultura dei giornalisti dovrebbe bastare a capire che qualcosa, in questa diatriba, dipende anche da loro, dalle loro responsabilità e dalle loro trascuratezze. E, invece, sembra di no.

Poi, magari, succede che queste leggi esagerino o che siano sbagliate, nulla di strano. E magari succede pure che un governo, a sua volta, nell’in­teresse di chissà chi, sembri voler bloccare anche le informazioni che andrebbero diffuse. Ma tutto il resto è fatto solo di dettagli e tecnicismi, di cui non ci vogliamo occupare.

In ogni caso, se è vero che a monte ci sono i nostri condizionamenti a credere – fenomeni dell’inconscio, cose difficili da sondare, da comprendere e da gestire, proprio come la fede – resta il sospetto che a valle qualcuno finga di aver fede in qualcosa solo per trarne vantaggio. E, allora, non abbiamo più a che fare con credenti ma con simulatori.

                                                                      

Quanto sopra era già stato scritto e varato, quando mi è arrivata un’osservazione: “Guardi che i giornalisti fanno solo il loro mestiere, guardi che ricevono tutto direttamente da inquirenti che non si curano del segreto istruttorio e della privacy. Guardi che alcuni pubblici ministeri lasciano la porta aperta e i fascicoli su un angolo della scrivania. E, ai giornalisti in attesa, non dicono: “Prendeteli quando volete”, ma solo: “Guai se, dopo averli fotocopiati, non li mettete come li avete trovati”. Qualcuno è arrivato a dire che c’è una sorta di associazione tra certi magistrati e certi giornalisti: i primi che passano notizie riservate ai secondi per averne, in cambio, fama e notorietà. Dunque, cosa dovrebbero fare i giornalisti: dovrebbero rifiutare tutto e lasciare lo scoop a qualcun altro?

Ho risposto che non ci credo, che non può essere vero in uno Stato dove i magistrati bacchettano ogni giorno il Presidente del Consiglio per innumerevoli motivi, e viceversa. In uno Stato dove i magistrati, qualche anno fa, mandarono a questo signore un avviso di garanzia persino durante un convegno internazionale: una solerzia esemplare, chissà che guaio se avessero aspettato due giorni.

Non ci credo anche perché, altrimenti, della giustizia dovrei farmi un’idea molto diversa e molto peggiore di quella che ho: non per pregiudizio, non per opinione personale, non per condizionamento a credere, ma per ideale, per serietà e per necessità oggettiva.

In ogni caso, casomai da qualche parte fosse successo qualcosa del genere – perché tutto può succedere, perfino questo – nessun giornalista serio potrebbe comportarsi diversamente da come abbiamo scritto: perché ci sono in gioco il rispetto per il prossimo e il suo diritto alla libertà. Cosa volete che sia il diritto allo scoop e alla libertà di stampa, di fronte a questo?

Per concludere, anche ciò che ho scritto potrebbe dipendere da un mio condizionamento a credere di cui non sono cosciente: e questo potrebbe offuscare la mia capacità di ragionare, anche se faccio il possibile per riuscirci.

                                                                                                                  

Filippo Bonfiglietti

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