Intelligenza artificiale e intelligenza umana latitante
Sullo sfondo dell’economia green, delle energie rinnovabili, dei cambiamenti climatici e del riscaldamento globale (il buco nell’ozono è sparito dal radar) si stagliano ora digitalizzazione e intelligenza artificiale, confidenzialmente AI o IA. Uscita dall’hortus conclusus della cibernetica e data in pasto all’economia, alla politica e ai media è diventata qualcosa di mitico, di allusivo, sospesa fra il salvifico e il minaccioso.
Se ne dà un’idea comunque distorta e soprattutto si presenta come una novità che ci proietta nel futuro quando è semplicemente un’operazione di mercato che ha imposto l’applicazione su grande scala di modelli datati sia sotto il profilo teorico sia sotto quello dell’applicazione pratica. Storicamente e concettualmente origina dalla mathesis universalis leibniziana e dalla macchina calcolatrice di Pascal ma il vero atto di nascita è segnato dall’incontro di percorsi disciplinari differenti – filosofia, logica matematica, linguistica, cibernetica (termine introdotto da N. Wiener nel 1957) e soprattutto neuroscienze, centrate sul rapporto fra processi mentali e cervello -; un approccio che ha dato luogo alla scienza cognitiva e alle sue applicazioni come la robotica. Tutto ebbe inizio con la domanda su come funziona la mente per cercare di riprodurla poi si aprirono strade diverse, qualcuna più praticabile, qualcuna destinata a scontrarsi con l’utopia.
Fuori dall’ambito scientifico cinema e fantascienza dopo il capolavoro di Kubrick del 1968 si sono sbizzarriti nel dar vita a una paccottiglia di robot buoni e cattivi, fedeli servitori dell’uomo o determinati a sostituirlo, senza nemmeno sfiorare la visionaria sobrietà e la verisimiglianza dell’Odissea nello Spazio. Nelle università e nei centri di ricerca c’è stata una sorta di divisione dei compiti: macchine capaci di leggere un testo, di scrivere, di tradurre da una lingua a un’altra, di emettere suoni articolati, rispondere a domande, di compiere azioni di varia complessità come la manipolazioni delle immagini o la creazione di ologrammi e, ovviamente, di calcolare.
Un approccio tende a riprodurre le strutture della mente (o meglio di quelle che allo stato attuale delle conoscenze paiono essere le strutture della mente), un altro tende a costruire un’alternativa ai processi mentali umani. Entrambi urtano contro la stessa difficoltà, che indico in forma di domanda: in linea di principio una pseudomente è in grado di pensare o, quali che siano il grado di complessità dei suoi processi e il livello delle sue delle sue prestazioni, si limita a simulare il pensiero, come un bambino che copia le lettere e le riproduce fedelmente ma non per questo sa scrivere? A distanza di tanti anni il dibattito su questa questione non ha fatto significativi passi avanti. Rimane attuale l’esperimento virtuale della camera cinese, ideato da John Searle (Minds, brains and programs, 1980), che riassumo. Un uomo di lingua inglese che non conosce il cinese, per il quale gli ideogrammi sono solo disegni senza senso, è chiuso in una camera isolata. Riceve una storia nella sua lingua, che capisce ed è in grado di rispondere a domande che la riguardano e insieme gli vengono forniti i seguenti materiali:
A script: una serie di ideogrammi
B la storia in caratteri cinesi (ideogrammi)
C domande relative alla storia in caratteri cinesi (ideogrammi)
D risposte alle domande in caratteri cinesi (ideogrammi)
P istruzioni in inglese (programma).
Le istruzioni P (il programma) gli consentono di correlare A con B e di produrre sia ideogrammi corrispondenti a D sia quelli corrispondenti agli ideogrammi C. Un osservatore esterno non potrà distinguere le risposte D fornite dall’inglese del tutto ignaro del significato degli ideogrammi (script) da quelle fornita da un parlante cinese. Bene: l’uomo nella camera è nella condizione del calcolatore programmato per manipolare simboli come i pezzi su una scacchiera. Non c’è alcun significato, vale a dire non c’è alcuna intenzionalità, nessun accesso sul mondo. Il programma può essere estremamente più complesso di P, come oggi sta accadendo, ma questo non sposta di una virgola il risultato ottenuto da Searle: l’intenzionalità, la comprensione, il passaggio dal segno al significato non sono programmabili: dal piano della logica a quello dell’esistenza non c’è passaggio. L’intelligenza della macchina è ancora quella dell’ars combinatoria; fra quella e l’intelligenza non dico di un essere umano ma anche quella di un cane resta uno iato incolmabile che è per l’appunto l’accesso al mondo, cioè al significato. In sintesi: l’IA è uno strumento, capace di simulare il ragionamento umano e di potenziarlo ma privo della sua base intenzionale, è uno strumento, stop. Ma è uno strumento che rischia di impoverire l’aspetto computazionale della mente umana, di schiacciare l’uomo sull’affettività, sulla soddisfazione dei bisogni e in particolare di quelli indotti, sulla primarietà del dolore, dell’ansia, della paura. Già ora la media delle persone incontra difficoltà con gli algoritmi della sottrazione o della moltiplicazione, per non dire del’elevazione a potenza o dell’estrazione di radice quadrata, affidati esclusivamente alla calcolatrice. Lo strumento è inizialmente dominato e consente di risparmiare risorse ma c’è un limite oltre il quale lo strumento prende il sopravvento e comincia ad atrofizzare e depotenziare quella componente computazionale, astrattamente logica della mente. L’uomo macchina cede di fronte ad una macchina infinitamente più potente: il servo, come nella dialettica hegeliana, diventa padrone, pur restando servo; nient’altro che uno strumento, in sé stupido, che un’umanità regredita non sarà più in grado di utilizzare. Per concludere: può darsi che la macchina prenda il sopravvento ma il risultato è il deserto, il vuoto, il silenzio. Non è però questo l’unico rischio che corrono l’umanità e l’intelligenza umana.
Se, infatti, è vero che ad opera di quello strumento troppo potente che è l’IA l’intelligenza umana rischia di essere privata del suo strumento naturale, interno e non esterno, frutto dell’aumento dei legami sinaptici e dei circuiti di retroazione del cervello, è anche vero che quest’ultimo poggia sulla base “animale” della pulsione esplorativa, del bisogno, del gioco. Quello strumento “naturale” si è sviluppato grazie agli ostacoli, alle difficoltà, alle resistenze che l’uomo ha dovuto superare per sopravvivere e grazie al fatto che nel corso dei secoli ha alzato l’asticella del compito, ha creato da sé altre difficoltà e altri ostacoli. L’esistenza di ogni singolo individuo è la rappresentazione della storia e dell’essenza dell’umanità. Se mancano gli stimoli l’intelligenza, che è uno strumento, non serve, non ha modo di esprimersi e inevitabilmente declina. La società del benessere – per altro finto – crea falsi bisogni e fornisce il modo per soddisfarli, crea gusti, opinioni, atteggiamenti, stereotipie. E i risultati si vedono. Il pensiero critico, libero, non condizionato diventa un inutile orpello quando non un ostacolo in una società che non discrimina più i suoi membri col parametro dell’intelligenza ma che, al contrario, la considera un fattore di disturbo e la guarda con diffidenza. Come si dice con un’espressione triviale il pesce puzza dalla testa: le posizioni apicali nell’industria pubblica e privata, nelle istituzioni, nella conduzione della cosa pubblica sono occupate da individui non migliori ma peggiori della media.
E questa circostanza costituisce una malattia mortale non solo della democrazia ma della nazione come tale. L’attuale governo del Paese pare uscito da un brutto sogno, da un incubo, da un film horror. Il sostegno all’Ucraina (cito la Meloni) “in ogni ambito”, incondizionato, perinde ac cadaver, aprioristico, a prescindere da qualsivoglia dato di fatto è una plateale dimostrazione di stoltezza umana prima che politica come lo sono le dichiarazioni trionfalistiche di tutti senza eccezione i rappresentanti del partito che ha vinto le elezioni e si pavoneggia con i sondaggi grazie all’astensione e alla metamorfosi della sinistra. Una volta si diceva con sarcasmo tout va très bien madame la marquise, ora non ci sono più né ironia né sarcasmo, c’è solo acquiescenza dinanzi a un indecoroso ribaltamento della realtà, ad una scoperta derisione del popolo che non sarebbe tollerata senza l’ottundimento di massa che ha caratterizzato gli ultimi decenni. Il colpo di grazia lo darà probabilmente l’Intelligenza Artificiale ma già si avvertono gli effetti della mancanza di stimoli, della deresponsabilizzazione, della delega delle decisioni, dei cattivi modelli . E la scuola? nelle mani di uno che da quando è stato suo consigliere politico Salvini non ne ha più azzeccata una c’è da temere che quel buono che ne resta grazie al capitale umano finisca per essere buttato al vento del pensiero unico, dell’educazione affettiva e dell’ideologia gender.
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