Il vigile urbano

Il vigile urbano

Il vigile urbano

 Il vigile urbano di Xxxxx lo conosco abbastanza bene. È quasi sempre di buon umore, saluta tutti volentieri, chiacchiera volentieri con chi gli capita a tiro. Anche in servizio. Peraltro non smette mai di fare il suo mestiere, che è quello di guardarsi attorno, comprendere cosa sta facendo chi, perché, come, se arreca danno o ha necessità di aiuto.

Ha un fare un po’ allampanato, come stupefatto o rapito. Una vaga smorfia sul labbro, la divisa ordinata ma dimessa, come una semplice formalità che non può aggiungere o togliere nessuna autorevolezza al suo ruolo.

Il giorno della fiera del paese sta sulla strada principale, respinge o fa sloggiare tutti quelli che parcheggiano fuori posto o in un posteggio non adatto, o pericoloso. D’altro canto in un giorno affollato come quello della fiera, a molti trova parcheggio, o se lo inventa, consiglia, devia, trova accordo per fare in modo di far parcheggiare tutti.


L’episodio più divertente cui ho assistito è stato un pomeriggio estivo dell’anno scorso. Mi trovavo nel paese di passaggio, a piedi. Lo vedo, lo saluto e mi fermo, come sempre a parlare con lui. Mi mette al corrente delle ultime scoperte storiche, in archivio. Dei fondi trovati, non senza difficoltà, per il restauro di una vecchia chiesa, in una frazione. Mentre mi illustra la faccenda tra entusiasmo e modestia, sentiamo il rumore di un ciclomotore a tutta birra, in arrivo sulla strada principale. Io comincio ad agitarmi: cosa farà il vigile? È pur sempre nell’esercizio delle sue funzioni. Lui continua a parlare con me, serafico. Senza voltarsi verso il motore prosegue nell’accorata descrizione degli interventi di restauro preventivati. Io penso: vedi, in paese, tutti ci si conosce. Come fa lui, che è solo vigile, a fermare uno in moto che va magari un po’ forte? Chiaro che lo ignora: stasera se lo ritrova al bar. D’altra parte cosa farei io se fossi al suo posto, per una infrazione non così grave?

Il vigile continua a parlare mentre fa un passo indietro, senza voltarsi. Sfila la paletta dal cinturone e si ritrova così in mezzo alla strada, con il segnale in pugno. Non lo alza, non lo brandisce. Ora è ben piantato nel mezzo della carreggiata. Mi chiede scusa per l’interruzione, ora il ciclomotore è ad un paio di metri, e si ferma, senza che il vigile gli abbia fatto alcun cenno.


Sopra c’è un ragazzotto, quattordici, forse quindici anni. Senza casco, sorride. Saranno parenti, penso io.

Il vigile: “Non ti sembra di andare un po’ troppo forte?”

Il ragazzotto: “Eh ma vado fino lì…”

V. : “Non ti ho chiesto dove vai”

R. : “Ah si, beh, ma dai, questo motorino è fermo come un cancello, non va forte”

V. : “Pure troppo per te. E lo sa tuo padre che sei in giro?”

R. : “Eh si eh! Ci mancherebbe!”

V. : “Lo sai cosa ti direbbe se ti vedesse senza casco?”

R. : “…”

V. (senza aspettare la risposta, urlando e menando delle gran botte con la paletta di piatto sulle mani dei ragazzotto): “Che il casco ci vuole, che devi metterti il casco, che il casco è obbligatorio e ci vuole sempre, stupidotto che non sei altro. E che devi andare piano: siamo in centro abitato. Hai capito? E stasera telefono a tuo padre, così ti dà il resto, va bene?”

R. : “Ahi! Ahi! Ahi!, cavolo che male, basta, basta, ho capito!”.

Ho assistito alla scena senza poter fare a meno di ridere (rideva anche il ragazzotto, imbarazzato). Poi ci ho ripensato molto, e devo dire che forse il mio amico vigile ha fatto la cosa giusta, che talvolta non corrisponde alla cosa legittima.

Un agente integerrimo avrebbe fermato il ciclomotore, accertato l’identità, elevato contravvenzione per (che so io) velocità pericolosa e guida senza casco, con una cospicua ammenda ai danni del genitore (visto che il ragazzotto era, evidentemente, ancora senza reddito). Il genitore si sarebbe rivalso (si fa per dire) sul fanciullo, tutti sarebbero stati più arrabbiati, anche se ufficialmente avrebbero ammesso il loro torto e la rettitudine dell’agente. Ma una piccola fessura, una minima discontinuità si sarebbe aperta tra il ragazzo e il vigile.

Il modo che il mio amico vigile ha, di risolvere questi piccoli problemi, è criticabile per molti versi. La giustizia, grande o piccola, non può essere gestita su base individuale. Le regole, perché siano valide ed efficaci, devono essere valide per tutti, e la loro gestione deve essere sottoposta a procedure univoche e non trattabili. Soprattutto, il modo “amichevole” di comporre una infrazione, non può essere regolato da norme, designato e descritto da un codice, perché applicato con discrezione, caso per caso, e questo rinnega il principio della giustizia equa.

Nonostante tutto, il paese, il rione, vivono di questi episodi. Esistono le leggi, le corti e i giudici. Ma ricorrere ogni volta al giudizio istituzionale rende il rapporto tra le persone arido e rigido. Mentre c’è sempre più bisogno di socialità e affetto. Occorre tutto il buon senso dell’agente preposto a far rispettare norme, codici e ordinanze, per fare in modo che il clima complessivo sia vivibile. Non c’è un modo per descriverlo, per codificarlo. Eppure io trovo che sia più efficace un vigile che si arrabbia, ci sgrida, ci strapazza pure (senza insulti, evidentemente) che non un ligio e freddo applicatore delle norme.


Arrabbiarsi vuol dire tenerci, avere a cuore una cosa, una situazione, un luogo, un diritto, il decoro urbano, la sicurezza delle persone, il paesaggio, la buona nomina degli abitanti. Questo ha a che fare anche con la funzione pubblica, ed è (anche) per questo motivo che i dipendenti pubblici avrebbero diritto a un trattamento un po’ diverso rispetto a quello degli altri lavoratori dipendenti: perché il loro mestiere non è una questione di produttività, ma di benessere della comunità, e questo si può raggiungere solo con la condivisione, con il buon senso, con la volontà di risolvere problemi e semplificare la vita delle persone.

Non è neanche da mettere in discussione il pubblico ufficiale che applica il regolamento. I vigili di Cairo che hanno multato le ragazzine sull’altalena hanno fatto semplicemente il loro lavoro. Immaginiamo cosa sarebbe successo se l’avessero prese a scappellotti, o anche solo sottoposte a qualche brusco rimbrotto. Eppure ho il sospetto che nelle ragazzine, fra i loro parenti, in molti cittadini, anche se non hanno nulla da dire sulla vicenda, un gusto amarognolo sia rimasto. Per lo stesso motivo per cui ci infastidisce l’intromissione dello stato nella misura delle zucchine.

   ALESSANDRO MARENCO

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