Il successo del referendum

Il successo del referendum

Un voto per l’autonomia o piuttosto un voto contro questo governo e contro l’invasione; ma col rischio di fare un favore ai compagni

Il successo del referendum

Un voto per l’autonomia o piuttosto un voto contro questo governo e contro l’invasione; ma col rischio di fare un favore ai compagni.

 E così è andata. Lombardia e Veneto hanno auto il loro referendum, ottima affluenza per Zaia, delusione e invidia malcelata per Maroni, esito scontato. Al di là del discorso fumoso sulle tasse che dovrebbero rimanere nelle regioni, come se le regioni fossero entità naturali e non costruzioni artificiali imposte sulla base di altrettanto artificiali suddivisioni geografiche, la necessità di un referendum per chiedere al governo maggiore potere su materie concorrenti sfugge all’uomo della strada. Nessuno pensa seriamente che le nostre regioni siano delle entità politiche, culturali, storiche, con un’economia articolata, autonoma, alimentata all’interno dei loro angusti e artificiali confini e non parti di un sistema integrato nelle quali in forza di circostanze ambientali si possono concentrare il capitale finanziario, gli insediamenti industriali, gli snodi commerciali, i territori boschivi o il patrimonio storico e artistico.


Ma vi erano motivi più seri e più profondi per i quali, chiamati ad esprimere un voto, i cittadini non si sarebbero lasciata sfuggire l’occasione ghiotta di un voto contro lo Stato prima che per la regione, percepita ovunque come un’inutile mangiatoia; questo voto si è espresso non per qualcosa ma contro qualcosa,

Le comunità che hanno fatto le barricate contro le prefetture intenzionate a riempirle di clandestini come avrebbero dovuto pronunciarsi? Per uno Stato fellone complice dell’invasione, per uno Stato che si mobilita contro i cittadini?

La verità è che ci tocca subire gli effetti devastanti della modifica del Titolo Quinto della Costituzione attuato dai compagni nell’ottobre del 1999 con un colpo di mano molto simile a un colpo di Stato. Il regionalismo è in sé un disastro, un moltiplicatore delle burocrazie e una fonte perenne alla quale si abbevera una casta sempre più assetata, ma l’ipotesi del federalismo è addirittura umoristica. Poteva aver senso per mantenere in vita il Regno delle due Sicilie, che aveva una sua ragion d’essere interna e internazionale, o il Granducato, che non l’aveva più, o lo Stato della Chiesa, che non l’aveva mai avuta, ma erano comunque soggetti politici consolidati; ma un federalismo i cui soggetti sono la Puglia, il Lazio o la Lombardia fa ridere e può essere sostenuto solo da cricche di opportunisti che per un loro tornaconto immediato mettono a repentaglio il Paese.


 

L’obiettivo che le persone di buona volontà devono perseguire è quello di risanare lo Stato, di strapparlo dalle grinfie del Pd e della sinistra per restituirgli dignità e credibilità. Così come è stato ridotto è indifendibile e tanto basta per giustificare chi ha visto nelle urne l’occasione per far sentire la propria rabbia e il proprio disgusto. Ma la soluzione non è certo quella di aggravare lo squilibrio all’interno del Paese finendo per sfasciarlo né quella di aumentare il numero delle regioni a statuto speciale, che piuttosto dovrebbero essere abolite: sono figlie della vergogna dei trattati di pace, dell’ingerenza degli alleati, delle minacce dell’Austria – e sai che paura – dell’arroganza francese e dell’acquiescenza verso la Iugoslavia. L’Italia ha docilmente salvaguardato gli alloglotti francesi e tedeschi, Nizza e la Corsica sono state francesizzate senza tanti problemi mentre gli inglesi hanno provveduto a cancellare l’italianità di Malta come gli slavi hanno fatto con l’Istria e la Dalmazia. Di fatto gli statuti speciali sono serviti solo a garantire assurdi privilegi alla val d’Aosta e all’Alto Adige, che ha ripagato col separatismo ed è ritornato Südtirol, e ad affossare la Sicilia e la Sardegna. La regionalizzazione della sanità ha creato solo guasti e malaffare. E non si venga a dire che il migliore funzionamento degli ospedali lombardi è merito della regione: politici e sindacalisti che per togliersi un callo evitano accuratamente le strutture sotto casa per farsi curare al San Raffaele non devono niente alla regione Lombardia ma semmai debbono essere grati al Cavaliere. La strada per “risanare la sanità” non passa né dal ministero né dagli assessorati regionali, tantomeno dalle asl, ma dal potenziamento e dalla responsabilizzazione delle strutture ospedaliere, dalla regolamentazione dei concorsi, dalla formazione universitaria e, di conseguenza, dalla recisione del legame fra politica e università. Un legame che le regioni rafforzano stendendo una rete di clientele politiche e familistiche su tutto il territorio.


I guasti del decentramento regionale non si avvertono solo sulla sanità. I concorsi pubblici a livello locale sono una farsa, sulla quale, se solo lo volessero, in qualunque momento si potrebbe abbattere la scure dei pubblici ministeri. Regionalizzare i concorsi significa automaticamente esporli a ingerenze, pressioni, accordi, spartizioni. Nell’ultimo concorso per dirigenti scolastici se ne sono viste di tutti i colori col risultato che a distanza ormai di quattro anni, dalla Sicilia alla Lombardia, non si sono ancora esauriti i contenziosi. Se questa è l’autonomia torniamo al centralismo asburgico o napoleonico.

L’ottimo Pellifroni ha ricordato su questi Trucioli un altro disastro perpetrato dalla sinistra democristiana: lo sganciamento di bankitalia dal Tesoro voluto da Andreatta nel 1981; per garantire l’autonomia della banca e metterla al riparo dalle ingerenze del governo di turno: e chi ha garantito l’autonomia dello Stato dal sistema bancario e finanziario? Ma la sinistra non più occultata fra le pieghe della Dc ha saputo fare di meglio: la legge Bassanini ha creato l’ircocervo del dirigente pubblico, con lo stipendio del dirigente privato ma, a differenza di quello, irresponsabile, inamovibile, sindacalizzato, con tutte le tutele del semplice impiegato. Che però una funzione la svolge: quella di guiderdone per i politici e i sindacalisti per i quali non è disponibile una carica rappresentativa e che vanno a estendere i tentacoli della casta sugli enti e le aziende municipalizzate e creano squilibri retributivi in tutti i comparti del pubblico impiego.

Chi chiede uno Stato leggero non vuole spostare burocrazia, sprechi e corruzione dal centro alla periferia ma chiede di ridurne il peso, chiede di umanizzare i rapporti fra il cittadino e le istituzioni, chiede lo Stato di diritto al posto dell’arbitrio, che il decentramento e l’autonomia, lungi dal mettercene al riparo, trasformano in prassi normale. Quelli che sostengono che gli enti locali sono più esposti al controllo popolare mentono, in buona o cattiva fede. Dalle multe per fare cassa alla assegnazione delle case popolari passando per la gestione del trasporto urbano, in periferia si fa strame del diritto, si usa l’impersonalità della burocrazia come uno schiacciasassi e si agita il feticcio del Potere come uno spauracchio. L’autonomia degli enti locali è servita soprattutto a far lievitare stipendi e ad accelerare carriere: non stupisce che dalle parti della politica venga difesa con tanto accanimento. E stendo un velo pietoso sulla buffonata della finta abolizione delle province.

Se è vero, come pare sia vero, che lo Stato ha sprecato soldi al sud per infrastrutture inutili e ha lasciato il nord, o almeno certe aree del nord, con una rete viaria, autostradale e ferroviaria obsoleta, il problema non è il centralismo ma sono la cattiva politica, il clientelismo e il malaffare – che spesso ha la sua testa proprio al nord – e sono questi che vanno combattuti, non il centralismo. Mettere Milano contro Roma come continua a fare uno dei quotidiani del sedicente centrodestra è un’idiozia sotto tutti gli aspetti. Il quotidiano di Belpietro, quando titola “I soldi del Nord devono restare al Nord”, fa anche peggio, assolutizzando un “Nord” e mettendo in discussione uno dei principi fondanti della comunità statale. È triste che un giornalista si presti ad alimentare pregiudizi e stereotipi fondati sull’ignoranza e la stupidità. L’Italia è un grande Paese per storia, civiltà, laboriosità e intelligenza della sua gente ma è geograficamente minuscolo e pretendere di dimezzarlo è demenziale. Fra parentesi, vorrei anche ricordare che Gentile, Croce, D’Annunzio, Majorana o De Chirico, tanto per citare a caso i moderni, avevano tutti i natali da Roma in giù.


Quanto agli showmen del referendum, devo dire tranquillamente che di Maroni la cosa che mi piace di più sono i suoi orribili occhiali mentre di Zaia non ho capito che cosa voglia: se fosse vero che vuole insegnanti dipendenti dalle regioni siamo al delirio, se non vuole clandestini, chapeau!, ma non li vogliono neppure gli altri italiani e la soluzione non è certo quella di rimpallarli da una parte all’altra o di spalmarli dappertutto: la soluzione è non farne entrare più nemmeno uno e rispedire a casa quelli che ci sono. Se poi invece la sua è solo invidia per la condizione privilegiata dell’Alto Adige, che tiene per sé quello che ritiene suo e si prende una parte di quello che è di tutti, mi sembra che sbagli prospettiva. Gli statuti speciali, quando, se il Signore lo vorrà, ci sarà un Italia un governo serio e autorevole, verranno aboliti, altro che moltiplicati.

Intanto un risultato certo il referendum l’ha ottenuto. Ha regalato qualche carta ai compagni ormai fuori del gioco, consentendo loro di presentarsi come paladini dell’unità nazionale; proprio loro che sono gli eredi dei disfattisti, i campioni della globalizzazione, i nemici giurati della Nazione, quelli che hanno voluto a tutti i costi l’ente regione e che ora sognano l’Europa politica, gli stessi, lo ripeto ancora una volta, che nottetempo hanno snaturato la costituzione inferendo allo Stato un colpo mortale. E ora si è consentito loro di presentarsi come pensosi e responsabili garanti dei più deboli, argine contro gli egoismi e le derive secessioniste. Ma via!

 Pier Franco Lisorini

 Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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