IL PROCESSO A ROBERTO SAVIANO

A pensarci bene, guardando il processo contro Roberto Saviano, lo scrittore più scomodo d’Italia, tuttora sotto scorta perché minacciato di morte dalla camorra napoletana, si profila in controluce quello contro Metteo Salvini, l’ex ministro dell’Interno più opportunista, cinico e disumano che mai abbia ricoperto quella carica da quando esiste la Repubblica italiana: si tratta, infatti, di due processi politici sia pure con motivazioni opposte: il primo, contro lo scrittore accusato di diffamazione per aver dato del “bastardo” e della “bastarda” rispettivamente a Salvini e a Giorgia Meloni, considerata la loro bieca insensibilità per  la morte in mare di tanti migranti con i loro nati; il secondo, per sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio per aver impedito che sbarcassero 147 migranti dalla Ong spagnola Open Arms, nell’agosto di tre anni fa, quando era ministro dell’Interno.

Inutile sottolineare la differenza riguardo alla gravità delle accuse mosse allo scrittore e al ministro, sta di fatto che entrambi devono risponderne davanti alla legge, anche se nessuno dei due imputati si considera colpevole e tutti e due dichiarano che rifarebbero esattamente quello che hanno fatto, convinti della giustezza delle loro motivazioni. Sappiamo come si difende Salvini, e quante volte ha ripetuto di aver agito solo per la difesa dei sacri confini della Patria minacciata dall’invasione dei migranti irregolari, considerati alla stregua di nuovi barbari invasori dell’Impero (?). Ma Saviano come si difende dall’accusa di diffamazione? Anzitutto ricapitoliamo i fatti:  la vicenda risale al dicembre del 2020 quando lo scrittore, ospite di “Piazza pulita” su La7, di fronte alla morte di un bambino in un naufragio di migranti, apostrofò da remoto i due querelanti con questi termini: “Vi sarà tornato alla mente tutto il ciarpame detto sulle Ong: ‘taxi del mare’, ‘crociere’… mi viene solo da dire bastardi. A Meloni, a Salvini, bastardi, come avete potuto?”. Risultato: il leader della Lega ha presentato istanza per costituirsi parte civile anche in questo processo; dato che ne ha già un altro in piedi contro Saviano, reo di averlo diffamato, in un’altra occasione, definendolo “ministro della malavita”.

Ad accompagnare Saviano in tribunale a piazzale Clodio, in segno di solidarietà,  c’erano, tra gli altri, gli scrittori Sandro Veronesi, Michela Murgia, Nicola Lagioia e Walter Siti, oltre al direttore de La Stampa Massimo Giannini, tanto perché non ci siano dubbi sulla loro scelta di campo e a beneficio dei sarcasmi e degli strali avvelenati dei giornalucci-acci-astri-ini-oni  della destra destra per i quali solo i nomi di Saviano, di Sandro Veronesi (autore – ricordiamolo ai distratti – della “scandalosa”  proposta “Mettiamo i nostri corpi sulle navi che salvano i migranti”)  e di Michela Murgia sono sufficienti a far loro venire l’orticaria.

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L’imputato aveva chiesto di poter leggere una memoria difensiva; richiesta respinta, a causa della decisione di aggiornare l’udienza al 12 dicembre 2022. D’altronde il pubblico ministero aveva invitato lo scrittore a non mettersi a fare comizi. Sennonché Saviano, appena uscito dal tribunale, ha letto ai giornalisti lì in attesa il testo che aveva preparato per i giudici.
Ne trascrivo qui di seguito i passi più significativi: “Io sono uno scrittore: il mio strumento è la parola. Cerco, con la parola di persuadere, di convincere, di attivare. In fondo l’ha insegnato Omero stesso: il santuario della persuasione è nella parola, e il suo altare è nella natura degli uomini. La parola  è ciò per cui sono qui. L’accusa è quella di aver ecceduto il contenimento, il perimetro lecito, la linea sottilissima che demarca l’invettiva possibile da quella che qui viene chiamata diffamazione. Sono uno scrittore e dunque, avendo ottenuto la libertà di parola prima di qualsiasi altra, sono deciso a presidiarla. E lo farò non sottraendomi, non proteggendomi dietro una dialettica comoda, sicura, approvata e già per questo innocua. Ho scelto nella mia vita di scrittore una parola che affronta direttamente il potere, criminale o politico, di qualunque segno…Dinanzi ai morti, agli annegamenti, all’indifferenza, alla speculazione – soltanto poco più  del 10% dei migranti vengono salvati dalle Ong e tanto basta per aver generato un odio smisurato verso di loro e verso i naufraghi stessi – dinanzi a quella madre che ha perso il bambino, io non potevo stare zitto. Non potevo accettarlo. E sento di aver speso parole fin troppo prudenti, di aver gridato indignazione perfino con parsimonia…Di fronte a tutto questo, non c’è la volontà di ragionare con franchezza sulla gestione dell’accoglienza. Tutto questo implicherebbe un dibattito, una diversità di vedute, l’esercizio della democrazia; ma la delegittimazione, il fango che è stato riversato su chi non ha voce, non ha nulla di politico: è solo propaganda, pregiudizio, razzismo, aberrazione…La mia non è una risposta emotiva: vuole essere un’invettiva. Un urlo. Un gesto di ingaggio che dinanzi a quella madre che aveva perso il suo bambino voleva smuovere. Non è un’opinione politica screditare ambulanze di soccorso: è infamia. E soprattutto è disumano. Ecco: di fronte a quel video e a quelle urla ho avvertito il bisogno di sentirmi umano” (da La Stampa del 16 novembre 2022).
Che cosa si può aggiungere a questa che l’autore stesso definisce “un’invettiva”? Prima osservazione: gli argomenti messi in campo da Saviano possono esser condivisi solo da chi è già convinto delle sue buone ragioni, mentre esasperano  ancor di più i destinatari  della sua invettiva, rivolta, evidentemente, non solo a Salvini e alla Meloni, ma a quella parte non esigua di opinione pubblica italiana che la pensa come loro e che ha i suoi portavoce negli opinionisti nemici giurati dell’autore di Gomorra, di Michela Murgia e di Sandro Veronesi (tanto per non fare nomi: la redazione de La Verità al completo, idem per quella di Libero, lo stesso per quella del Giornale e fermiamoci qui).

Murgia e Saviano

Seconda osservazione: questa invettiva sembra concepita apposta per vanificare l’iniziativa del Pen club, l’associazione internazionale degli scrittori che, in nome della libertà d’espressione (tra l’altro tanto cara ai nostalgici del Ventennio, ai no-vax, ai filorussi, ai negazionisti e ai complottisti d’ogni risma) ha invitato Giorgia Meloni a ritirare la querela contro Roberto Saviano. Naturalmente la risposta è stata negativa: “Non capisco la richiesta di ritirare la querela perché ora sarei presidente del Consiglio: significa ritenere che la magistratura avrà un comportamento diverso in base al mio ruolo, ovvero che i cittadini non sono tutti uguali davanti alla legge?”, ha dichiarato di recente  la Meloni al Corriere della Sera in un’intervista, per poi aggiungere: “Io credo che tutto verrà trattato con imparzialità, vista la separazione dei poteri”.

Già, come se ogni cittadino avesse la facoltà di difendersi con gli stessi mezzi economici, mediatici e di  potere politico di un (o una) presidente del Consiglio! Ma questo è un altro discorso. Terza osservazione: questa autodifesa dell’imputato Saviano è impostata sulla contrapposizione tra  umano e disumano, colpevole indifferenza di fronte al dolore e pietà e solidarietà per i naufraghi e i disperati alla ricerca di una vita migliore; libertà di parola e di espressione e tentativo di intimidire e di censurare il libero pensiero e anche, infine, tra razionalità e propaganda ingannevole basata sulla paura, sul pregiudizio e sull’odio verso lo straniero “invasore”, cioè sul razzismo esplicito o inconscio di tanti italiani. Bene. Tuttavia, quarta e ultima osservazione: l’urlo di indignazione tutto può essere meno che una risposta razionale all’irrazionalità della xenofobia e dell’odio razziale, il rischio è quello di contrapporre un’emotività buona a un’emotività cattiva, e la storia insegna che quando i sentimenti prevalgono sulla ragione ad avere la meglio sono i sentimenti del più forte.

Fulvio Sguerso

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