IL MARKETING CULTURALE

IL MARKETING CULTURALE

IL MARKETING CULTURALE

di Nat Russo

Internet ha dato un contributo decisivo all’evoluzione della specie.

Da qualche anno il PC, il Web e la Telefonia Mobile, hanno favorito un processo di dematerializzazione culturale che va dall’analogico al digitale. Ciò ha facilitato la realizzazione di nuovi prodotti attraverso nuovi processi, rendendoli praticabili per un numero sempre crescente di soggetti (tendenzialmente tutti) poiché ha ridotto l’entità delle risorse necessarie alla loro realizzazione (tendenzialmente zero).

Ciò ha messo sotto una nuova luce gli aspetti classici del marketing culturale: quali soggetti fanno cultura, che tipo di prodotto culturale propongono, con quale processo produttivo lo realizzano, chi è il consumatore di questo prodotto, in quali circuiti è distribuito, con quali strumenti è promosso, con quale finalità si opera?

Fino a poco tempo fa erano legittimati a fare cultura solo quei soggetti che erano forniti del prerequisito di una “solida formazione culturale” (l’high brow culture contrapposta alla low brow culture). La velocità del mutamento, ha progressivamente relegato ai margini la cultura solida, ritenendola spesso aprioristica ed autoreferenziale, poco duttile al cambiamento e quindi incapace di interpretare efficacemente l’evoluzione della realtà.

Si è venuto progressivamente facendo luce un modello culturale più dinamico ed efficace, perché attento al costante monitoraggio di quanto accade, una cultura liquida capace di avvolgere gli eventi e su di essi continuamente modellarsi, riuscendo a comprenderli ed interpretarli senza doverli necessariamente connotare con una classificazione. Ciò porta alla comparsa di una nuova pluralità di soggetti che fanno opinione e tendenza, contribuendo alla creazione delle mode culturali.

Il panorama culturale diventa quindi molteplice. Venendo a mancare il filtro preventivo di una legittimazione basato sulla valenza culturale degli operatori, la cosiddetta cultura dell’O/O, contrappositiva, perde terreno. Essa, infatti, si comporta come un motore di ricerca up-down, che permette di scegliere solo all’interno di ciò che è stato preventivamente selezionato come il “meglio”.

Si viene progressivamente affermando, viceversa, un modello iperliberista, la cosiddetta cultura dell’E/E, integrativa. Essa infatti si comporta come un motore di ricerca down-up, che permette di visualizzare “tutto”, anche se un’offerta molto ampia rischia un involontario oscuramento del prodotto per sovrapposizione spaziale o temporale.

Oggi assistiamo alla proliferazione delle tipologie dei prodotti culturali. Essa è stata resa possibile da una importante integrazione nei sistemi produttivi. Al prodotto high touch, (il concerto, il libro, il quadro, ecc.), corporeo, analogico/oggettuale, pesante, che richiede grandi risorse concentrate su pochi prodotti per molti fruitori, tipico, nella logica delle major, della restrizione della gamma, monologante/impositiva poiché monopropositiva, si è progressivamente affiancato il prodotto high tech (l’mp3, il file, il DVD, il blog, ecc.), incorporeo, digitale/virtuale, leggero, che richiede risorse assai più contenute poiché destinate a molti prodotti per molte nicchie di mercato, tipico, nella logica delle indie, dell’allargamento della gamma, dialogante/democratico poiché multipropositivo.

Questa specialissima proliferazione di prodotti ha portato anche alla necessità di un adeguamento dei canali distributivi dove, accanto al modello hard di commercializzazione (lo store, la libreria, il teatro, ecc.) si affianca il modello soft di commercializzazione (l’e-commerce, e-bay, i caffè culturali, i pub musicali, ecc.). Questo poiché accanto all’acquirente generalista (l’unico per cui valeva la pena investire in passato) si è venuta affermando anche una molteplicità targettizzata di acquirenti specialistici di prodotti di nicchia.

Cambia anche la connotazione e la localizzazione dei luoghi deputati alla cultura. Un tempo collocati in luoghi urbani centrali; caratterizzati da precisi markland visivi, palcoscenici istituzionali, destinati a pubblici di massa (il teatro civico, la sala delle conferenze, ecc.) secondo rituali identificativi dell’espressione di autoriconoscimento della vecchia comunità, oggi essi cedono posizioni alla molteplicità delocalizzata dei piccoli spazi privati (la rete dei pub, dei circoli, ecc.) che danno ospitalità ed identità alla nuova comunità deistituzionalizzata, nomade e territorialmente diffusa.

Muta notevolmente anche la metodologia degli strumenti con i quali il prodotto culturale è promosso. A quelli classici della comunicazione massmediatica (quotidiani, televisioni, radio, ecc.) si affiancano quelli della polverizzazione del passaparola (le web radio, i siti internet, il tam tam degli sms, ecc.).

Ed infine cambiano le finalità per cui si realizzano i prodotti culturali e che costringono ad una seria ed approfondita riflessione sulla mission del soggetto proponente. Accanto all’esigenza di una sempre crescente visibilità del majority report volta al consolidamento del consenso, attraverso operazioni inclusive in territori non tradizionali, attraverso l’allargamento neoclientelare; si manifesta una volontà di emersione ormai matura del minority report, che per sopravvivere deve uscire dallo stallo di una situazione di “stato nascente”, per proporsi, credibilmente, come un soggetto che ha la dignità di essere considerato “nuova istituzione”, anche se senza volontà egemoniche o contrappositive.

A Savona vige prevalentemente un modello di cultura solida dell’o/o, legato alla produzione culturale high touch, gestito da finanziatori istituzionali per eventi da realizzare in arene di massa istituzionali, che utilizza un marketing comunicativo massmediatico, secondo un criterio up-down, destinato ad un pubblico generalista, volto alla gestione del consenso di massa. L’obiettivo del majority report è di perpetuare il suo “status” di vecchia istituzione egemonica.

A questo modello si sta affiancando quello di una cultura liquida dell’e/e, legato alla produzione culturale high tech, autoprodotto da piccole realtà private, che utilizza un marketing comunicativo polverizzato ai limiti del passaparola, per micromanifestazioni fatte in palcoscenici di nicchia, diffusi secondo un criterio down-up, destinato ad un pubblico specialistico targhettizzato, volto all’emersione dello “stato nascente”. L’obiettivo del minority report è di acquisire la dignità di nuova istituzione.

Da una parte un prodotto anziano, pensato dagli anziani, per gli anziani; dall’altra un prodotto giovane, pensato dai giovani, per i giovani; dove, si badi bene, le categorie giovane ed anziano, non sono categorie anagrafiche o generazionali. Come far dialogare ed integrare questi due mondi?

PS.: A conclusione del mio intervento, desidero segnalare che, naturalmente, non mancano le curiose ibridazioni dei modelli di mercato tradizionale e innovativo. E’ il caso di una inserzione pubblicitaria, comparsa di recente, su un noto quotidiano nazionale La Stampa. Vengono richiesti giovani tra i 18 e i 35 anni, almeno diplomati, con spiccate doti comunicative, capacità di lavorare in gruppo e forti motivazioni rispetto ai valori ed alle tematiche aziendali. Sono previste posizioni part e full time per 4 settimane fino ad una durata massima di 6 mesi, con compenso in parte fisso e in parte commisurato agli obiettivi raggiunti. Il lavoro si svolge in strade, piazze e centri commerciali in occasione di eventi mirati. Vengono definiti dialogatrici o dialogatori.

Ci si aspetterebbe la promozione di prodotti commerciali classici. Nulla di tutto questo. Si tratta di Amnesty International (le cui battaglie sono nobilissime), che fa partire una campagna di sensibilizzazione volta alla raccolta di fondi e all’incremento del numero dei suoi sostenitori.

NAT RUSSO

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.