IL FASCISMO E L’ARTE TRA MODERNISMO E CLASSICISMO

Malgrado il comune denominatore di essere nata e di essere cresciuta durante il regime fascista, tutti i tentativi di definire una peculiarità distintiva dell’arte fascista sono destinati a fallire: in quel periodo convergono tendenze artistiche che vanno dall’Art déco al futurismo, dai valori plastici al realismo magico, dal classicismo neo-romano al razionalismo funzionale in architettura. Per orientarsi in questa molteplicità di stili e di tendenze (molteplicità e libertà stilistica che, sia detto tra parentesi, contraddistingue l’arte durante il regime fascista da quella rigidamente controllata e “ufficiale” nei contemporanei regimi nazista e stalinista: né Mussolini, né Gentile, né Bottai hanno mai parlato di “arte degenerata”, e questo è giusto riconoscerlo)  è opportuno concentrare l’attenzione su tre figure di spicco nella cultura artistica di quegli anni (e non solo); mi riferisco alla scrittrice e critica d’arte Margherita Sarfatti, al pittore Mario Sironi e all’architetto Marcello Piacentini.

Margherita Sarfatti, Mario Sironi e Marcello Piacentini

Riguardo alla prima (stranamente dimenticata da Giorgia Meloni nella sua rassegna  delle grandi figure femminili nella storia d’Italia nel discorso di insediamento al Senato della Repubblica) di famiglia e religione ebraica, biografa e amante di Benito Mussolini, ha un posto di rilievo nella storia dell’arte contemporanea italiana in quanto teorica, sostenitrice e organizzatrice  del Gruppo-movimento del “Novecento Italiano”, così denominato dal pittore Anselmo Bucci e fatto proprio da colei che fu considerata a lungo la musa ispiratrice della politica culturale del fascismo. Margherita Grassini   Sarfatti (il cui ritratto scolpito è una delle opere più riuscite di Adolfo Wildt, lo scultore fascista più amato da Mussolini)  sembra un personaggio uscito da un racconto o da un dramma di Anton Cechov o dalla Recherche proustiana: nata a Venezia, nell’aprile del 1880, educò il suo gusto estetico sugli scritti di John Ruskin e si formò politicamente sui testi di Marx, Filippo  Turati e Anna Kuliscioff. A diciotto anni  sposò , contro la volontà dei genitori,   l’avvocato socialista Cesare Sarfatti, dal quale ebbe tre figli Nel 1912 incontra il giovane Benito Mussolini, all’epoca dirigente del Partito Socialista Italiano, che stava per assumere la direzione de “L’Avanti”.

Ritratto di Margherita Sarfatti scolpito da Adolfo Wildt

Dopo la svolta interventista di Mussolini e la conseguente espulsione dal Partito, diventa redattrice de “Il Popolo d’Italia”(1918), quotidiano fondato e diretto dal futuro Duce e nel 1922 fondano assieme la rivista “Gerarchia”. Nel 1915  segue Mussolini nella svolta interventista. Il primogenito Roberto, partito volontario nel 1915 per quella che sarà chiamata Grande guerra (come se non stonasse l’aggettivo “grande” riferito al sostantivo “guerra”!), cadrà diciottenne sull’altopiano di Asiago; sul luogo dove cadde fu edificato  un monumento funebre dell’architetto Giuseppe Terragni.  commissionato dalla madre. In quegli anni, la sua casa, al numero 23 di Corso Venezia , ospita uno dei salotti più alla moda di Milano,  luogo frequentato da intellettuali e artisti come Marinetti e Boccioni.  Nel dopoguerra tutto cambia: fonda il Gruppo Novecento con il gallerista ebreo Lino Pesaro, il 17 dicembre del 1922, festa di Sant’Ambrogio.   Il contesto in cui nasce questo movimento è  la nuova temperie  di superamento delle avanguardie dei primi anni del secolo, superamento invocato da Jean Cocteau nel suo Le rappel à l’ordre 1918-1926 ed esemplificato dalla fase realistica del pittore Gino Severini, passato attraverso il futurismo e il cubismo per approdare a una forma di realismo classicheggiante con venature metafisiche come spiega egli stesso nel saggio Dal cubismo al classicismo del 1921, sulla scia dall’articolo-manifesto  di Giorgio De Chirico, pubblicato nel 1919 dalla   rivista “Valori Plastici”, in cui invitava gli artisti d’avanguardia  a ritornare al mestiere e, in buona sostanza, all’ordine. Su questi presupposti si basa il lavoro di Ubaldo Oppi,  Gian Emilio Malerba,  Leonardo Dudreville, Achille Funi, Mario Sironi e del sopra citato Anselmo Bucci. Nel 1923, esposero alcune loro opere alla Galleria Lino Pesaro di Milano. L’anno successivo, il gruppo del “Novecento Italiano”, fu presentato da Margherita Sarfatti alla Biennale d’Arte di Venezia. Nel 1926 la prima mostra del movimento, nume tutelare sempre la Sarfatti, fu inaugurata alla Permanente di Milano dal Duce in persona; la mostra riuniva i più significativi artisti italiani contemporanei: da Giorgio De Chirico a Carlo Carrà, da Raffaele De Grada ad Antonio Donghi, da Filippo De Pisis a Gino Severini,  da Massimo Campigli a Mino Maccari e a tanti altri che diventeranno famosi anche dopo la caduta del fascismo e la fine della seconda guerra mondiale. Dopo la morte del marito Cesare Sarfatti, si dedica alla stesura della biografia del Duce. Il testo, riveduto e corretto dallo stesso Mussolini, esce nel 1925 dapprima in Inghilterra con il titolo Thr Life of Benito Mussolini e l’anno successivo in Italia  con il titolo Dux. Il libro ha un enorme successo così in Italia come all’estero. La relazione intima con Mussolini continua clandestinamente nel decennio successivo.   Nel 1928 Margherita si converte al cristianesimo, ma il rapporto con Mussolini si deteriora  negli anni Trenta in seguito all’avventura coloniale e all’alleanza con Hitler, scelte politiche avversate entrambe  da Margherita, finché, con l’approvazione delle leggi razziali, lascia l’Italia dove ritornerà solo nel 1947 e dove morirà in solitudine dimenticata ed evitata da tutti, amici e nemici, nel 1961, nella sua villa di Cavallasca vicino a Como lasciando molti scritti inediti.

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Ma torniamo alla storia dell’arte sotto il fascismo:   dalla seconda metà degli anni Trenta la poetica del Novecento virò  su toni celebrativi del regime ed  epico-popolari, soprattutto con la scultura monumentale di Arturo Martini e il muralismo di Mario Sironi, autore di un Manifesto della pittura murale , 1933. Ecco, appunto, Mario Sironi, certamente il più fascista del gruppo Novecento Italiano: all’entrata in guerra si arruolò volontario con Boccioni, Marinetti, Antonio Sant’Elia, Achille Funi, Luigi Russolo nel battaglione ciclisti e automobilisti, combatté  nella battaglia di Dosso Casina e nel dicembre del 1915 firmò il manifesto di Marinetti L’orgoglio italiano.  Mario Sironi nesce nel 1885 a Sassari dove il padre milanese lavorava come ingegnere. La sua formazione avviene a Roma dove la sua straordinaria famiglia di artisti, architetti e musicisti si trasferisce un anno dopo la sua nascita. Nel 1902 si iscrive alla facoltà di ingegneria per obbedire al padre,   ma l’anno dopo soffre di una forte crisi depressiva che gli fa abbandonare gli studi; è il primo episodio di una malattia che non lo avrebbe più lasciato, e di cui è rimasta testimonianza L’impiccato , una macabra incisione che ricorda lo stile di Felicien Rops. Da quel momento si dedica completamente alla pittura. Anche Sironi ha attraversato  il Tuturismo, la Metafisica e, come abbiamo visto, il “Novecento”, per  approdare infine alla pittura murale. Nel corso degli anni Trenta si dedica sempre più alla grande decorazione murale, che per lui è un modo antico e al tempo stesso moderno, oltre che nuovo e fascista, in quanto “sociale per eccellenza”, di concepire l’opera d’arte.

L’impiccato, opera di Mario Sironi

La grande decorazione infatti è un’arte indipendente dal possesso individuale e dal collezionismo privato: la si incontra per le strade, nelle piazze, nei luoghi di lavoro. Inoltre ridimensiona l’invadenza e lo strapotere del mercato (difficile vendere ed esporre  un muro o un soffitto) e propizia la committenza statale. E infatti fioriscono le opere pubbliche e monumentali: nel 1932 progetta due altorilievi per la Casa dei Sindacati Fascisti a Milano. Nel 1934 partecipa con Terragni al concorso per l’erigendo Palazzo del Littorio di Roma, disegnando rilievi e pitture murali. Nel 1935 esegue il grande affresco L’italia tra le Arti e le Scienze  nell’Aula Magna dell’Università di Roma, La Sapienza. Del 1936-1937 è Il mosaico L’Italia corporativa  al Palazzo della Comunicazione o dei Giornali a Milano. Del 1936-1938 è il mosaico La Giustizia tra la Legge, la Forza e la Verità per il Palazzo di Giustizia di Milano. Accanto a queste grandi opere decorative non vanno dimenticati gli allestimenti architettonici  delle grandi mostre tra cui quella della Rivoluzione Fascista, nel 1932; nel 1934 della Sala dell’Aviazione nella Grande Guerra, nel 1935 allestisce il Salone d’Onore alla Mostra Nazionale dello Sport; . insomma Sironi  non si risparmia anche a costo di compromettere la sua salute.  Alla caduta del fascismo aderisce alla Repubblica di Salò. Il 25 aprile del 1945, esce di casa per allontanarsi da Milano dove si stava ancora sparando per le strade. Viene fermato a un posto di blocco da un distaccamento di partigiani e sarebbe stato fucilato se Gianni Rodari, comandante del distaccamento, non lo avesse riconosciuto e non gli avesse firmato un lasciapassare. Morirà nel 1961 di broncopolmonite in una clinica di Milano. E veniamo al grande architetto romano Marcello Piacentini (Roma, 1881 – Roma, 1960), la cui opera può a ragione considerarsi il simbolo stesso del regime fascista, che fece dell’architettura piacentiniana e dell’architettura in generale il suo fiore all’occhiello, circostanza confermata, sia pur tardivamente, l’8 luglio 2017 dall’ UNESCO, che dichiarò Asmara, la capitale dell’Eritrea, patrimonio dell’umanità, “per la sua architettura modernista e razionalista realizzata durante l’occupazione italiana” .

Monumento alla Vittoria di Bolzano

L’opera che può definirsi come l’incunabolo delle successive realizzazioni monumentali e urbanistiche dilaganti nella quasi totalità delle città capoluogo d’Italia, è il Monumento alla Vittoria di Bolzano. “L’idea originaria di Mussolini era quella di erigere un monumento dedicato a Cesare Battisti. Tale proposito riscontrò grandi consensi nelle organizzazioni fasciste in Italia e all’estero; le federazioni provinciali indissero una sottoscrizione alla quale aderirono anche associazioni di italiani all’estero. In breve si raggiunsero i 3 milioni di lire necessari. Il marmo fu offerto dagli industriali lucchesi” (da Wikipedia). La commissione governativa nominata da Mussolini affidò il progetto all’architetto Marcello Piacentini, che realizzò l’opera a tempi di record nel 1928. Il monumento ha la forma di un tempio ad arco,  con  alte colonne portanti adornate, su consiglio del Duce, di imponenti fasci littori. Il rilievo del timpano, dello scultore Arturo Dazzi, rappresenta la Vittoria sagittaria. Molto significativa l’iscrizione in latino  alla base del timpano leggibile anche oggi, dettata dall’allora  ministro della Pubblica Istruzione  Pietro Fedele: “Hic patriae fines siste signa Hinc ceteros excolimus lingua legibus artibus” (Qui i confini della Patria. Poni le insegne. Da qui educammo gli altri alla lingua alle Leggi e alle Arti”. Come dire: di qua la civiltà, di là la barbarie. Un bel viatico per l’Unione Europea! Notevole anche l’attività urbanistica: pensiamo al Rifacimento del centro di Bergamo (bassa),  alla Piazza della Vittoria a Brescia e a Genova, alla Città universitaria di Roma; alla demolizione e ricostruzione del secondo tratto di Via Roma a Torino; al Piano di risanamento del centro storico e di Piazza Grande a Livorno; alla sistemazione dell’E42 (EUR); alla Via della Conciliazione e sistemazione di Borgo a Roma… Quanto agli edifici pubblici , basti ricordare la Casa madre dei Mutilati a Roma; il Palazzo delle Corporazioni in via Veneto; il Palazzo di Giustizia di Milano…Insomma, nessuno rappresentò l’Italia fascista, nel bene e nel male, meglio di lui.

Fulvio Sguerso

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6 thoughts on “IL FASCISMO E L’ARTE TRA MODERNISMO E CLASSICISMO”

  1. Traspare, dalla lettura di queste pagine, un’aura di vitalità, di effervescenza, che non può limitarsi al solo campo artistico: sotto la fiamma visibile dev’esserci l’olio combustibile, che è fatto, fuor di metafora, dalla grande intraprendenza del regime fascista, al quale va riconosciuta l’aderenza della grande maggioranza del popolo italiano. E mi viene da collegare questo vasto consenso a un passo dell’articolo odierno di Lisorini, dove sottolinea proprio il principale connotato di una dittatura con vasto seguito popolare, con il dittatore che si identifica nella nazione, e viceversa. Caso vuole che questo sia un concetto espresso anche in una mia sceneggiatura, purtroppo ancora in cerca di produttore, dove affermo che la grande finanza preferisce le democrazie (di facciata, ossia senza seguito) alle dittature, in quanto più facilmente manovrabili. Sempre seguendo Lisorini, la continua crescita dell’astensionismo è sinonimo di consenso calante e quindi di parallela perdita di rappresentatività di una classe politica, che non avrebbe più il diritto di fregiarsi del titolo di democrazia. Finirà che alle urne si recheranno solo gli stessi politici, in una farsescaa forma di auto-investitura. E la maschera della democrazia cadrà per rivelare il suo vero volto: l’oligarchia, che tale rimane, anche se cambia il colore dei suoi componenti

  2. Mah, mi sembra di riascoltare un vecchio disco di vinile ritrovato in cantina o in soffitta e riproposto oggi come fosse nuovo di zecca. Ma non vi siete ancora accorti che si tratta di un disco rotto? Se il tema è quello dell’uomo solo al comando è chiaro che non si può comandare senza un consenso plebiscitario. Questa forma di governo si chiama dittatura, e la storia insegna che le dittature e i dittatori finiscono male, perché il consenso popolare è volubile e regge finché le cose vanno bene, ma la storia insegna anche che i pieni poteri conferiti a un uomo o a un partito fanno deragliare tanto l’uomo quanto il partito. Così è sempre accaduto. A me lo ha insegnato un certo Robespierre, non so quali siano i vostri maestri. Non vi è bastata la fine di Hitler e di Mussolini? Non vedete i disastri provocati dall’autocrate Vladimir Putin? Se il vostro ideale è quello di un potere illimitato basato misticamente sull’identificazione tra capo carismatico e popolo, dovreste sapere che la superbia (in greco hybris) prima o poi è punita dagli dei. O avete in serbo un nuovo dio a cui affidarvi? Buona notte a tutti e due. Fulvio Sguerso

  3. Se vogliamo fare i professorini ricordiamo che Cesare era un uomo solo al comando ed è finito pugnalato, Napoleone era un uomo solo al comando ed è finito avvelenato a S.Elena. Li vogliamo rimuovere dalla storia come Hitler e Mussolini (cos’abbiano in comune sia loro come persone sia i regimi che hanno incarnato è un mistero gaudioso)? Chi regge il timone è sempre, sempre, solo. Robespierre non era un uomo solo e non era al comando di nulla. Quanto a Putin è un capo di governo di una repubblica semipresidenziale regolarmente eletto in elezioni regolari fino a prova contraria (o vogliamo parlare dei brogli nelle nostre tornate elettorali?). Quali disastri o quali crimini avrebbe commesso io non lo so e mi piacerebbe che qualcuno me lo facesse sapere. Però sui crimini commessi da quelle parti qualcosa so, come l’autobomba che ha fatto a pezzi la pericolosissima ventinovenne figlia di un professore inviso al burattino ucraino. Quanto al consenso non è un optional, quale che sia la forma di governo, In una democrazia liberale non è la condizione sufficiente ma guai pensare che non sia la condizione necessaria.

  4. In tanti in piazza con slogan: arrestati.
    In tanti in piazza senza slogan: arrestati.
    In pochi in piazza con slogan: arrestati.
    In pochi in piazza senza slogan: arrestati.
    Uno in piazza con slogan: arrestato
    Uno in piazza in silenzio con cartello bianco al collo: arrestato.
    Uno in piazza, immobile, in silenzio, senza nessun cartello scritto o bianco al collo: arrestato.

    1. Qualcuno, in malafede, la chiama senza pudore “democrazia”; altri la chiamano “democrature”; altri ancora “plutocrazia” (con riferimento agli oligarchi.; altri ancora “autocrazia” o “teocrazia” come ai bei tempi di Pietro il Grande. Avete capito che sto parlando della Russia di Vladimir Putin. Qualcuno la preferisce alle “corrotte” liberaldemocrazie occidentali. Alt! Non dico che queste ultime siano perfette, non è questo il punto. Dico che fra una Maria Zakharova e una Ursula von Der Leyen, preferisco pur sempre quest’ultima, mentre conosco professorini, professorucci e professoroni che preferiscono, anzi, giurano su quello che dice la Zakharova! Come è possibile? Tanto può la propaganda del Cremlino in Italia? Tanto può: si vedano le tirate di un Francesco Borgonovo, di un Michele Santoro, di un Vauro, di un Franco Cardini e anche di un (ahimè) Moni Ovadia!. Tanto può la propaganda del Cremlino quanto l’odio anti americano. per il quale vale la massima : il nemico del mio nemico è mio amico. Altro che amico: per sfuggire al dominio americano sono pronti a sottomettersi al dominio russo. Già, ma non tutti sono di questa idea, ed è per questo che combattono, non per farvi un dispetto, ma per salvarsi dalla “democrazia” russa.

  5. La commissione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite ha trovato prove di esecuzioni, stupri, torture e omicidi -anche nei confronti di bambini e bambine – a Bucha, Mariupol, Odessa e in una trentina di altre città ucraine.

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