Il difficile rapporto fra l’uomo e la natura
Il difficile rapporto fra l’uomo e la natura
Nella dialettica natura-cultura il soggetto è la ragione umana, troppo per i grillini e per i compagni
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Il difficile rapporto fra l’uomo e la natura Nella dialettica natura-cultura il soggetto è la ragione umana, troppo per i grillini e per i compagni |
Ebbene sì, lo confesso: avevo creduto nell’esperimento gialloverde scambiando le mie aspirazioni con la realtà. Sapevo bene che la qualità umana culturale e politica degli eletti nel Movimento era mediocre, tanto per usare un eufemismo, ma, badando alle motivazioni del loro elettorato e dando credito alle uscite di Grillo, mi ero convinto che potessero essere un correttivo nei confronti di una Lega troppo vicina agli interessi dell’industria manifatturiera e, per il loro conclamato antieurocratismo, una spinta decisiva verso il mediterraneo dell’asse politico economico e commerciale italiano. Insomma, attribuivo ai Cinquestelle un progetto, una forza propulsiva, un’anima. Un’anima che hanno dimostrato di non avere, un progetto che si è risolto in chiacchiere e una totale mancanza di enèrgheia che li fa galleggiare nel mare della politica come una barca senza motore, senza vela, senza remi. Col senno del poi devo ringraziare gli artefici del complotto che hanno portato alla caduta del governo gialloverde (è inutile che si ripeta la storiella che l’ha fatto cadere Salvini: la sua caduta era stata programmata da chi era stato costretto a farlo nascere): i grillini sono funesti compagni di viaggio capaci solo di nuocere e i piddini se ne stanno accorgendo. Disinformati, privi di una visione strategica, giulivi responsabili del tracollo dell’industria italiana dell’acciaio ci riprovano con la plastica. I loro compagni di merende quando qualcuno si è preso la briga di notificargli che l’Italia è il principale produttore di materiali plastici hanno goffamente cercato di fare marcia indietro, loro no, avanti tutta: la plastica inquina, finisce nella pancia delle balene, la banchisa polare è piena di lattine di coca cola e di brick di estatè. Quanto all’acciaio, in Germania si fregano le mani. Ma l’ambiente, si sa, prima di tutto. L’ambiente e la salute. I peggiori nemici dell’ambiente sono gli ambientalisti di professione fra i quali primeggiano i grillini, maestri del luogo comune, del sentito dire e del vuoto a perdere. Come l’avvocato di tutte le cause, il nostro ineffabile primo ministro che si è impegnato in prima persona a contrastare i cambiamenti climatici, a raffreddare un po’ il pianeta in ebollizione e a stoppare i fenomeni estremi (del resto lui è un signore delicato e odia gli estremismi). Ma l’ambiente si difende sul territorio e i primi responsabili ne sono gli amministratori locali, come la Raggi, l’Appendino e quel Nogarin che è riuscito nell’impresa di resuscitare i piddini già dati per morti. C’è da ridere a vedere come si è declinato l’ambientalismo pentastellato a Roma, a Torino o a Livorno. E si difende partendo da cose apparentemente piccole, senza guardare troppo lontano, a veri o presunti cambiamenti climatici, che se anche fossero conseguenza di comportamenti umani non potrebbero essere contrastati da velleitari provvedimenti domestici. Si difende curando la pulizia delle strade, l’arredo urbano, i parchi pubblici, combattendo la cementificazione selvaggia, la speculazione edilizia, la creazione di periferie dormitorio e di quartieri ghetto. Poi ci sono interventi strutturali, di più ampio respiro, da non affidare a politici sprovveduti vittime dei loro slogan ma a persone preparate e non sospettabili. Non sospettabili, per esempio, di promuovere una campagna sulle auto più vecchie e, si dice, più inquinanti, solo per fare un favore alle case automobilistiche (oltretutto con una modestissima ricaduta sull’economia italiana). Interventi strutturali paragonabili alla bonifica dell’agro pontino o al rimboschimento dell’Appennino (e non mi si dia del nostalgico o del fascista), realizzabili a patto che l’apparato dello Stato funzioni, cosa di cui ora è lecito dubitare. E, come priorità assoluta, il disinquinamento delle acque interne, perché la salute dell’ambiente si misura essenzialmente con la salute dei corsi d’acqua. Quei corsi d’acqua che erano sacri agli Antichi, protetti dalle Naiadi, fossero esse Potameidi, Creniadi o Lemnadi, le “chiare, fresche e dolci acque” nelle quali Laura si compiaceva di immergere le belle membra. Interventi per fare e non interventi per proibire. In questa differenza di approccio sta la pochezza culturale della sinistra e dei grillini. Intendiamoci: gli insediamenti industriali vanno governati tenendo conto del loro impatto sul territorio e mettendo in campo tutti i provvedimenti necessari per ridurre al minimo il danno ambientale e i rischi per la salute dei lavoratori. L’antropizzazione provoca di per sé un danno ambientale – lo producono in modi devastanti anche altre specie animali -, un danno temperato dalla trasformazione razionale dell’ambiente naturale che riflette la spiritualità e il grado di civiltà umane: le baraccopoli o le periferie anonime delle nostra città sono solo un sfregio alla natura. Un’attività umana apparentemente non inquinante come l’agricoltura “naturale” può portare e ha portato nel passato alla desertificazione o al dissesto idrogeologico. L’industria anche in tempi brevi o brevissimi fa anche di peggio: avvelena le falde acquifere, riempie di fumi tossici l’aria che respiriamo, produce scorie che inquinano i corsi d’acqua. E le attività industriali del passato non erano da meno: noi oggi ammiriamo la tecnologia idraulica degli antichi romani, con le fontanelle che decoravano strade e giardini e l’acqua portata all’interno delle case dei ricchi, ma dimentichiamo che chi ne godeva era intossicato dal piombo delle condutture come dimentichiamo che per riscaldare gli ambienti, per l’acqua calda nelle ville e il funzionamento delle terme avevano deforestato l’Appennino. Insomma l’homo faber lascia il segno e qualche volta sono ferite profonde. L’industrializzazione selvaggia dell’età del positivismo ha lasciato dietro di sé una lunga scia di morti bruciati nelle fornaci, schiacciati nelle presse, intossicati da vapori mortiferi, soffocati dalle polveri, per non dire delle montagne di detriti come a Vada, nel livornese, dove hanno abbellito il paesaggio con chilometri di candide spiagge che sfortunatamente non è sabbia ma bicarbonato. Ma il progressivo affinamento delle tecniche di produzione, la razionalizzazione degli ambienti, l’attenzione rivolta al trattamento e allo smaltimento degli scarti, la robotizzazione e l’informatizzazione hanno profondamente cambiato la fisionomia dei siti industriali, che non per questo possono essere assimilati a parchi giochi o a centri benessere. La modernità ci fa vivere meglio e più a lungo però ha un costo. Credere di poter tornare indietro è illusorio: l’obbiettivo è quello di ridurre quel costo, impedendo che la logica del profitto e l’interesse privato prevalgano sul bene pubblico. Certo fa specie sentire gente che vorrebbe cancellare l’industria siderurgica nel nostro Paese – anche se il danno è stato fatto quando è stata sottratta a mani italiane per consegnarne la proprietà a una multinazionale franco-indiana – facendo, ancora una volta, un grosso favore ai nostri rapaci concorrenti vicini e lontani, dai tedeschi ai turchi ai cinesi. L’industria siderurgica è strategica per la sicurezza nazionale e, anche quando è proprietà di privati deve rimanere sotto il controllo virtuale dello Stato, come accade per le infrastrutture. Ma il grillini vivono nel Paese delle Meraviglie o in quello dell’Armonia Universale e, nella loro innocente ingenuità, non si erano neppure posti il problema dell’effetto domino su tutta l’industria metalmeccanica e manifatturiera: senza materia non c’è niente che possa prendere forma e questo vale per le portaerei come per le pentole. Già, ma l’acciaio ha perso un po’ della sua centralità con l’avvento dei nuovi materiali, quegli stessi che in molti settori hanno sostituito il vetro e il legno. La plastica, appunto; proprio quella messa sotto accusa dagli ambientalisti vecchi e nuovi, che invece di porre il problema del suo smaltimento hanno preso di mira la sua produzione, salvo poi, anche in questo caso, dover prendere atto che è uno dei punti di forza dell’economia industriale italiana. Ma a che gioco giochiamo? Per concludere Quello dell’inquinamento è un tema grave e complesso e nessuno ha una formula in tasca per risolverlo da un giorno all’altro. Poi ci sono casi come quello di Taranto davanti ai quali non si sa che dire anche perché prendersela con i colpevoli, quelli che hanno consentito che le cose arrivassero al punto da rendere qualunque scelta sbagliata, non serve a nulla. Ma un ambientalista serio dovrebbe riconoscere che il maggiore fattore di inquinamento e di rischio per il pianeta non è la produzione industriale, che è di per sé suscettibile di aggiustamenti coatti o spontanei, ma lo sfrenato aumento demografico nel terzo mondo che pretende di traboccare in casa nostra. Senza un impegno deciso da parte degli Stati più responsabili e più influenti per scoraggiare la dissennata prolificità dell’Africa e di parte dell’Asia l’umanità va incontro alla catastrofe. Le orrende megalopoli del terzo mondo sono un cattivo presagio per il futuro nostro e dell’umanità tutta. Altro che cambiamenti climatici, riscaldamento globale o buchi nell’ozono. Pier Franco Lisorini docente di filosofia in pensione
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