Il bilancio di ottanta anni di democrazia e di lotte sindacali

Dall’utopia alla razionalizzazione dell’esistente, da Platone a Marx, dai socialismi ai liberalismo tutto ciò che si poteva dire sulla organizzazione sociale è stato detto. E poco o nulla di quel che è stato detto e scritto ha contribuito a modificare, tantomeno a migliorare le condizioni di vita dei singoli individui e delle collettività. Oggi si chiamano ideologie e sono solo aria fritta, che, si potrebbe pensare, lascia il tempo che trova, è in buona sostanza innocua  e aiuta a evadere dalla realtà spesso insopportabile; ma non è così.

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Le ideologie, e i movimenti che ad esse si ispirano, sono deleteri proprio perché impediscono di identificare le storture delle organizzazioni sociali, di cercarne le cause e di proporre rimedi.  Sono distrattori, o meglio veli che hanno coperto le peggiori malefatte, le più sfacciate soperchierie e i più spudorati interessi privati. L’etica protestante e l’autogoverno dei coloni decantati come il germe della democrazia occidentale hanno coperto il genocidio dei nativi americani e la riduzione a merce di intere popolazioni africane, il liberalismo ha giustificato l’asservimento della persona al guadagno e la nascita di nuovi steccati di classe più invalicabili delle vecchie aristocrazie, la colpevolizzazione della povertà, la sostituzione dell’intelligenza con la furbizia, la perdita di senso e di  dignità del lavoro e la distruzione dell’ambiente; il comunismo è stato la foglia di fico per nascondere l’assalto al potere di bande armate travestite da avanguardie proletarie, ha illuso le masse col miraggio di sollevarsi dalla miseria mentre si è limitato ad asservirle, ha ridotto l’individuo al collettivo, ha sistematicamente usato la tecnica del rinforzo negativo per tenerlo a bada e ha soffocato sul nascere ogni forma di dissenso nei confronti della nomenklatura.

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Intendiamoci: non sono le idee responsabili delle malefatte degli uomini: le idee vengono sempre dopo, non prima, non sono la causa ma l’alibi, la copertura, il fumo negli occhi. Ciò che muove sono le emozioni, non le idee ma il bisogno, la rabbia, l’invidia, non è mai un progetto o un piano razionale e chi interpreta quelle emozioni e si trova a gestirle lo fa per ambizione, interesse personale, sete di potere.

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 Pensiamo all’Italia e al destino delle disuguaglianze sociali dopo decenni di governi ispirati alla fratellanza cattolica, all’egualitarismo comunista, alla tutela liberale del ceto medio,  “spina dorsale”  della nazione. Negli anni Cinquanta, quando in buona parte si mantenevano i parametri prebellici, un professore di liceo alla fine della carriera, un preside di scuola media, il provveditore agli studi, il prefetto, il questore, un colonnello dell’esercito e un giudice percepivano lo stesso stipendio, tre volte superiore rispetto al salario medio di un operaio. Settanta anni di governo da parte di partiti ideologizzati hanno lasciato la situazione pressoché invariata per la maggior parte delle posizioni salvo un significativo arretramento del preside e il tracollo dell’insegnante. Quanto al rapporto con lo stipendio medio dell’operaio è passato dal triplo al quadruplo. Bel servizio al Paese e alla “classe operaia” da parte di partiti e sindacati! Con l’aggravante che i più puniti dalla Triplice sindacale e dalla politica sono stati gli insegnanti. Per questi ultimi non ho bisogno di consultare dati statistici: nel 1962, al mio primo incarico, guadagnavo 105.000 lire netti al mese, più di un bancario e di un magistrato di prima nomina e soprattutto esattamente tre volte lo stipendio dell’operaio di un’industria meccanica; oggi lo stipendio di un docente di liceo di prima nomina è 1400 euro al mese, 100 euro in meno rispetto all’operaio generico, rimasto dal canto suo al palo con tutto il gran daffare di scioperi, occupazioni, bandiere rosse, striscioni, slogan  e urla nei comizi dei  Di Vittorio,  Lama,  Landini di turno. Basterebbe questo per screditare tutta la politica e tutto il sindacalismo nostrani. Ma c’e di più e di più grave. Al di sopra delle posizioni dirigenziali, che in teoria dovrebbero essere quelle apicali, si è costituita, piano piano, di soppiatto, non si sa come e da quando, una piramide di livelli crescenti di super burocrati e di topmanager di Stato, a distanze astrali rispetto alla forbice, pur ampia, che aveva caratterizzato la società civile fino alla metà dello scorso secolo. Era successo che sul modello americano il simultaneo allargamento della base dei consumatori e dei consumi pro capite non era stato bilanciato dal crollo dei prezzi e dall’aumento del numero dei produttori ma, al contrario, aveva dato luogo alla loro concentrazione, seguita dall’abbattimento dei costi di produzione e dalla crescita esponenziale dei profitti. Il valore del denaro ai piani alti della grande industria e degli istituti finanziari con cui era connessa cominciò a misurarsi su una scala diversa rispetto al corpo sociale arrivando a retribuzioni di quattrocento, cinquecento e fino a mille volte superiori  agli stipendi medi.

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Una cosa abnorme ma coerente con l’economia capitalistica, che si riverbera  su tutto quanto impatta su un’utenza di massa, dallo spettacolo allo sport. Sono storture che lo Stato non può correggere neppure ricorrendo alla mannaia fiscale, che le lascerebbe comunque pressoché inalterate  ma rischierebbe di tagliare la testa all’economia produttiva.  Però  lo Stato dovrebbe quantomeno astenersi da qualsiasi tipo di sostegno ad aziende o organizzazioni private che si muovono all’interno di quella scala, senza cedere al ricatto dei licenziamenti,  del trasferimento all’estero o della cessazione dell’attività: è semplicemente grottesco che gravi sulla comunità il costo del servizio d’ordine svolto da polizia e carabinieri sulle partite di calcio quando le squadre possono permettersi di elargire stipendi agli allenatori e ingaggi ai giocatori dell’ordine di milioni di euro; se poi addirittura un’azienda nella quale i vertici sguazzano nell’oro come il papero creato da Walt Disney ha preso i soldi dallo Stato per rimanere italiana, poi smobilita per produrre all’estero e  ha all’estero la sua sede legale e fiscale, si è tenuta gli utili e ha scaricato le perdite, ha accollato all’Inps i costi della cassa integrazione e non ha mai versato né una lira né un euro al fisco italiano, questo è un modo tutto italiano di intendere il modello americano. In questi casi sia chi ha dato sia chi ha preso dovrebbero attirare l’attenzione di qualche giudice.

Ma per la politica e per la magistratura di casa nostra è normale che  si siano raccolti profitti in Italia, che sia attinto agli aiuti di Stato e si paghino le tasse in un altro Paese. Detto questo e tornando allo sconcio della polverizzazione del valore del denaro ricordo che nel dopoguerra, in continuità col Ventennio, i vertici delle grandi industrie come la Fiat guadagnavano a stento dodici volte la paga di un operaio e pareva un’enormità, allora: oggi sarebbe un’inezia. Il punto è che gli enormi profitti che hanno consentito quel cambiamento di scala sono il risultato di un contenimento dei salari e dell’aumento dei prezzi: chi ha pagato sono gli operai e i consumatori.  Bene. Questa è una dinamica congiunturale interna all’economia fondata sul denaro: così come si è affermata finirà per crollare. Quello che mi preme notare è che a mano a mano che il sistema politico italiano si spostava verso sinistra non solo non è stato fatto nulla per contrastare quella dinamica ma si è infranto il confine fra  pubblico e privato e si è assimilato la burocrazia all’imprenditoria. Di conseguenza, senza neppure la base, per quanto artificiosa, del profitto, si è creato un livello intermedio di superburocrati con remunerazioni da dieci a venti volte quelle medie e sopra di loro un gruppetto di  supermanager alla guida di carrozzoni di Stato che girano dall’uno all’altro e godono di trattamenti economici non solo astrali  ma indipendenti dal mercato, quindi più assurdi di quelli delle aziende private, che quantomeno – di norma – creano lavoro.  Vorrei sapere qual è l’utilità sociale degli uomini  d’oro che i governi mettono a capo di uno di quei carrozzoni. Governi con le mani bucate nei loro confronti quanto austeri e attenti al bilancio dello Stato con chi lavora sul serio e manda avanti i Paese.

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Le prime vittime dei governi progressisti sono stati i ceti sociali più poveri. Un operaio, un impiegato d’ordine o un maestro elementare negli anni del miracolo economico non sapevano che cosa fosse la dichiarazione dei redditi; tolte le ritenute previdenziali nessuno metteva le grinfie sulla loro paga: oggi su uno stipendio lordo di ventiquattromila euro lo Stato se ne prende un pizzo di cinquemilasettecento, al quale vanno aggiunte le addizionali comunali e regionali. Una vergogna, aggravata dalla progressiva riduzione degli assegni familiari fino alla loro totale eliminazione – per inciso ricordo che erano stati introdotti nel 1934, inizialmente per i lavoratori dell’industria per poi essere estesi a tutti i dipendenti pubblici e privati – e non si trattava di quisquilie: nel 1960 un lavoratore con moglie e quattro figli a carico raddoppiava il suo stipendio.  Poi è stata la volta del ceto medio tradizionale a subire le conseguenze del regime plutocratico imposto dai compagni; lo hanno sostituito con una nuova classe media di benestanti che assicura la pace sociale e funge da base per il potere degli oligarchi e dei loro cani da guardia nella politica, nell’informazione, nei sindacati e nelle istituzioni. L’ultima mossa in questa direzione è stato il raddoppio delle indennità ai sindaci, funzionale al loro distacco dal territorio, dai cittadini e dai loro stessi elettori e viatico per il loro ingresso nella nuova borghesia parassitaria

Pierfranco Lisorini

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