I boschi sotto assedio

I boschi sotto assedio
 I boschi, e quelli dell’Appennino savonese per quel che ci riguarda, sono un grande patrimonio pubblico

I boschi sotto assedio

Partiamo da una considerazione che dovrebbe mettere d’accordo tutti: i boschi in genere, e quelli dell’Appennino savonese per quel che ci riguarda, sono un grande patrimonio pubblico. Paesaggio, natura, cultura, zone selvagge, archeologia, idrologia, protezione da correnti d’aria, peculiarità agricola, di flora selvaggia e di fauna. Infine anche di legname, di acqua, di percorsi da fare a piedi, in bicicletta, di zone ove sarebbe possibile accamparsi, forse anche dove fare sci di fondo o almeno le ciaspolate, tanto di moda ora.


Se siamo d’accordo su questa approssimativa premessa allora possiamo fare qualche considerazione sullo stato attuale del nostro patrimonio boschivo. Risparmiamo al lettore la solita tiritera per cui il bosco di Savona (situato nella provincia di Savona) è uno fra i più estesi d’Italia ed è anche sottoposto a norme da più tempo: già nel medioevo il comune di Savona si preoccupava di salvaguardare il bosco (evidentemente una risorsa ancor più importante di oggi).

Il bosco è sotto assedio da parte di alcuni fautori della protezione dell’ambiente. Alcuni hanno anche qualche ragione, ma è pur vero l’antico detto: “Dagli amici mi guardi iddio che dai nemici mi guardo io…”.

I cacciatori, che hanno un titolo (può piacerci o no) legale per girovagare nel bosco a frotte, conciati come marines pronti alla pugna, con colonne stupefacenti di fuoristrada, tengono molto al bosco. Lo proteggono per davvero, con la loro assidua presenza, per cui notano, di fatto, situazioni di pericolo, casi di avvelenamento o di malattie tra gli animali o tra le piante, mantengono strade e sentieri. Naturalmente per poter cacciare devono liberare alcuni animali cresciuti apposta, come i cinghiali, i quali demoliscono le opere e le coltivazioni dell’uomo. Tale per cui nei paesi nei pressi dei boschi non è più possibile coltivare un orticello, se non prima di averlo pesantemente cintato e presidiato. Inoltre volano pallottole, le quali obbligano i fungaioli ad indossare giubbotti vistosi e fischiare, talvolta, ricordando ai cacciatori che i cinghiali non fischiano. Abitualmente.

I fungaioli, che nel periodo adatto invadono letteralmente stradine e stradicciuole, armati di strumenti legali (cestini, bastoni, coltellini). Avendo pagato il giusto tesserino si sentono il diritto, a questo punto, di tornare a casa con una merce equivalente: radono al suolo e setacciano ettari di foglie secche, di costiere ombrose, risalgono ruscelli, indagano antri e forre. A volte si perdono, aprendo così la strada ai

Volontari della ricerca in genere soccorso alpino, protezione civile, associazione alpini, dopolavoro ferroviario, filodrammatica… Qualsiasi associazione va bene: è chiaro e giusto, d’altra parte, una persona in difficoltà va trovata, aiutata, protetta. Anche i volontari, comunque, giustificati dall’emergenza, non lesinano fuoristrada, torce, cani, eventualmente ruspe, se fosse possibile…

  

Poi ci sono i boscaioli, da suddividere in due gruppi: quelli che fanno legna per sé, diciamo alcune decine di quintali; e le imprese che lo fanno per lavoro, in grado di acquisire e lavorare ettari al giorno, tagliando piante dalla base, macinando letteralmente tonnellate di bosco.

Ci sono gli Archeologi, che frequentano il bosco facendo in realtà ben poco danno. Vagano silenziosi e sospettosi, indagano, talvolta scalzano una pietra, spostano un poco di foglie, al massimo predispongono una campagna di scavi e quasi sempre scoprono l’antica presenza dell’uomo, in quel sito, da almeno 5000 anni.

Ci sono gli ecologisti, o meglio, le imprese ecologiste, che pur di dare alla nostra società energia da fonti rinnovabili, stipulano accordi con enti come se il bosco fosse il loro, costruiscono basamenti di cemento armato nel mezzo del bosco, su un crinale esposto ai quattro venti, vi montano le pale eoliche, e fanno corrente elettrica. E di questi ventoloni ne sorgono per ogni dove, ferendo il territorio nel profondo, e ferendo il paesaggio, in maniera difficilmente recuperabile, in futuro.

Ci sono i ciclisti, quelli che fanno down-hill, quelli che fanno trial, o semplice escursionismo in moto. Secondo alcuni ci sarebbero da fare delle distinzioni tra un motoveicolo e una bicicletta, per me non è così grande la differenza. Entrambe rompono le scatole, entrambe sono pericolose per chi si trova su un sentiero a piedi. Entrambe segnano il territorio, lo solcano. La differenza, casomai, è tra il numero di partecipanti a questi “raid”, per cui piccoli gruppi su sentieri già tracciati, strade da carri note e segnalate, non sono nulla rispetto ad un plotone di esaltati che predispongono un percorso o arano con le gomme tassellate…

  

Ci sono gli ecologisti puri, come l’associazione Wilderness, che sostiene una cosa molto semplice: il bosco basta a sé stesso, si potrebbe anche lasciar stare, visto che possiede cicli suoi, leggi non scritte tutte sue, basate su un rigeneramento continuo della cellulosa, della trasformazione della luce in nutrimento, in legno e poi in terreno di cultura di insetti, e questi cibo per altri animali. Il tutto in una sorta di sistema che basta a sé stesso, basta soprattutto che l’uomo non si intrometta.

Non possiamo pretendere che il bosco sia un ambiente “altro” o “sterile” rispetto all’uomo. Soprattutto questi nostri boschi, solcati da uomini da almeno cinquanta secoli. È bello e giusto che siano anche una risorsa: legna, caccia, funghi, pesca, percorsi in bici, studi storici. Allora sarebbe importante definire aree selvagge, altre parzialmente libere, altre ancora non sottoposte a vincoli che non siano quelli che competono ad un’area boschiva sempre.

So che però l’Amministratore Pubblico ha definito alcune aree come Sito di Interesse Comunitario, gravandole di norme e tutele maniacali. In alcuni casi sarebbe vietato usare la motosega, il trattore per raccogliere la legna.

Siamo fatti così. Il nostro tempo sarà ricordato come il tempo della contraddizione: pretendiamo si faccia la multa ad una persona che getta una cartaccia sulla strada, motivando questo come un metodo di educazione all’ecologia e al rispetto per l’ambiente. Ma la pallina di carta (biodegradabile) gettata su un enorme nastro di idrocarburi pesanti, intervallato da inamovibili strutture di cemento armato, lamiera zincata e plastica, non è inquinante e non ha niente a che fare con l’ecologia.


Allo stesso modo una persona che ha sempre abitato quei boschi, e che si procura la legna per l’inverno non è la stessa cosa di una società di sfruttamento silvoforestale.

Per proteggere i nostri boschi non possiamo riempirli di regole, norme, statuti, limiti, divieti, imposizioni, tasse, tesserini, cartelli, imbrogli… La protezione di un ambiente naturale e, vorrei dire, anche il suo uso quanto possibile appropriato, discende da una questione squisitamente culturale e non legale. Le leggi vanno bene e vanno fatte per chi nei boschi fa fatturato, venendo da fuori, e scomparendo una volta realizzato il manufatto o sterminato una costiera.

Regione e provincia riportino i boschi nelle scuole, padri e madri riportino i loro bimbi nei boschi, riavviciniamoci a quegli ambienti, facciamoli nostri senza possederli, come si visita una montagna. Si stabiliscano zone riservate, selvagge, in cui non ci sia bisogno di norme, recinti o minacce. Quando le persone capiranno, vuol dire che si sarà finalmente insegnato il valore del bosco, e sarà forse bagaglio da trasmettere alle nuove generazioni, senza bisogno di finanziamenti, programmi, dispense, slide, esperti, corsi propedeutici.

ALESSANDRO MARENCO

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