Fuor di cornice (ovvero quel che spesso non si dice): la riconversione del mito nell’apologetica

Uno dei principali problemi della nascente religione cristiana fu ovviamente quello di sostituire nella mente delle persone una cultura con un’altra senza tuttavia creare fratture, dimostrando che in fondo ciò che aveva fatto parte della loro vita fino ad allora, non doveva essere cancellato, ma semplicemente rivisto e ricompreso alla luce di una nuova più matura interpretazione.
Per dare attuazione a questo assunto che coinvolgeva praticamente ogni campo, da quello socio-culturale a quello politico-religioso, gli apologeti cristiani hanno via via adattato, secondo un’opinione largamente condivisa:

– I santi agli dei minori (paradossalmente si percepisce che il popolo avrebbe avuto bisogno, irrazionalmente quanto si vuole, di affiancare ad un dio immenso e perfetto e perciò vissuto come troppo lontano, una figura più individuabile, dedicata e confidenziale (San Pietro per i pescatori, sant’Antonio per i panificatori, san Cristoforo per i viandanti…), ragione per la quale, unitamente al dogma della trinità, è tutto da dimostrare che il cristianesimo sia davvero una religione monoteista.
– La Madonna alla Gran Madre (a seconda dei popoli individuata in Iside, Gea, Astarte…).
– Cristo ai numerosi dei o semidei o figli di dei pagani. Ad esemplificazione ne evidenziamo uno, Horus, preso a caso tra almeno una mezza dozzina di altri con attribuzioni similari come Attis, Adonis, Dioniso… E vedremo che nasce il 25 dicembre; tre uomini sapienti gli portano dei doni; oltre al padre celeste Osiride, ha anche un padre terreno; gli vengono attribuiti gli epiteti di Buon Pastore, di Unto di Dio, di Messia; lotta per 40 giorni nel deserto contro il malvagio Set; cammina sulle acque; la sua nascita viene annunciata da un angelo; la madre lo concepisce pur essendo vergine; ha 12 discepoli etc.).
– Il cristianesimo al mitraismo (ma il mitraismo è cronologicamente molto anteriore) con il quale ha in comune, per limitarci al cuore della dottrina, la morte e la resurrezione dopo tre giorni del dio eponimo.

Ma gli apologeti hanno anche adattato i differenti miti che in epoca pre-cristiana avevano imbevuto il pensiero della gente; e con i miti, i protagonisti che li animavano.
Operazione che in alcuni casi riesce a incastrare nel puzzle della riconversione trame e personaggi in modo abbastanza fluido, mentre in altri è costretta a forzature funamboliche, comprimendo o espandendo il messaggio veicolato dal “monstrum” fino a farlo aderire al contenitore del cristianesimo per il quale a loro dire sarebbe, dopo un lungo cammino preparatorio avviato dal paganesimo, destinato.
Qui ci si limita a presentare sinteticissimamente alcuni di questi reindirizzamenti (re-indirizza-menti). Un elenco più breve sarebbe carente; uno più lungo, superfluo.

Il Grifone: Essere con (grossomodo) corpo da leone alato e testa d’aquila.
Per i pagani è in grado di estrarre l’oro dal sottosuolo e di essere custode di tesori, ed ha perciò una funzione di arricchimento e di difesa, oltre a quella di psicagogo. E’ la cavalcatura di Apollo, Dioniso e della dea della vendetta, Nemesi.
Per i cristiani diventa il simbolo della natura insieme umana (il leone, animale che regna in terra) e divina (l’aquila, animale che regna in cielo) di Cristo, vero uomo e vero dio.

Dante nel XXIX canto del Purgatorio gli fa tirare il carro che sta a rappresentare la Chiesa:

“Lo spazio dentro a lor quattro contenne
un carro, in su due rote, triunfale,
ch’al collo d’un grifon tirato venne.

Esso tendeva in sù l’una e l’altra ale
tra la mezzana e le tre e tre liste,
si ch’a nulla, fendendo, facea male.

Tanto salivan che non eran viste;
le membra d’oro avea quant’era uccello,
e bianche l’altre, di vermiglio miste.”

Nell’Età di Mezzo molti credevano che esistesse davvero e consideravano le sue unghie preziose reliquie perché se entravano in contatto con un veleno mutavano colore, mettendo sull’avviso la potenziale vittima.

L’Idra: Serpente acquatico a sette teste, di cui una soltanto mortale, e con la parte mediana del corpo rigonfia.
Le teste, se mozzate, ricrescevano; a meno che ad essere mozzata non fosse quella centrale, che staccandosi dal corpo, privava dell’immortalità tutte le altre.
Per il paganesimo, fu simbolo dell’incoercibile propensione dell’animo umano alla fascinazione del male e del disordine morale.
Nella sua seconda fatica Ercole riuscì nell’immane impresa di ammazzare questo animale tanto velenoso che bastava calpestare le sue orme per venirne uccisi, ma ebbe comunque bisogno dell’aiuto di suo nipote Iolao, altrimenti i suoi sforzi sarebbero stati vani.
Il cristianesimo la trasforma nel simbolo dei sette vizi capitali, combattuti dalla Chiesa, pronti però  a rialzare la testa se la Superbia, il più grave, non fosse stata debellata.
Ma è anche da vedersi, seguendo Ireneo da Lione, come un mostro le cui sette teste sono allegoria delle diverse declinazioni dello gnosticismo cui Ireneo stesso più di ogni altro apologeta dichiara guerra perché in esso vede, in definitiva, la matrice di tutte le dottrine devianti dalla vera fede.

Il Centauro: Essere con testa e busto di uomo, che si innesta con un cavallo all’altezza del garrese di quest’ultimo; a volte armato di clava, altre di arco e freccia talché ingloba anche la figura del Sagittario.
I Centauri vivevano preferibilmente in zone impervie, nelle foreste e tra i monti. Questa loro natura selvaggia si manifestò palesemente alle nozze del re dei Lapiti con Ippodamia, quando uno di loro insidiando la sposa, scatena la reazione dei nobili convitati. Ne nasce una lotta violentissima, la Centauromachia, che li vedrà soccombere.
Per i pagani il Centauro rappresenta la barbarie e la rozzezza degli istinti, ed è considerato alla stregua di semidivinità del mondo ìnfero, anche se tra i Centauri ve ne sono alcuni come Chirone che si affida più alla sua parte umana che equina, tanto da raggiungere una sapienza e una saggezza che gli permetteranno di essere il maestro di eroi come Giasone e Achille.
I cristiani trasformano il Centauro, con la sua cieca violenza, la sua sensualità incontrollata e il suo comportamento bestiale e soprattutto la sua iracondia, da démone in demònio, e lo assimilano anche alla figura dell’eretico, poiché con il suo arco e le sue frecce può uccidere animali ingenui come le colombe, ovvero coloro che tra i cristiani, meno sapienti e più ingenui, possono essere convinti ad abbandonare la vera fede.
Un po’ come tanti altri esseri del mito, anche questo è ambiguo, per cui in alcuni contesti giunge a rovesciare il significato più usuale e perviene a rappresentare nell’iconografia alquanto forzosa e adattativa dell’Età di Mezzo, nientemeno che Cristo il quale proprio alla stregua dei Centauri-Sagittario, trapassa con la sua freccia l’anima degli umani per saggiarne la fedeltà nella sofferenza.

La Chimera: E’ addirittura un essere trimorfo comparendo con sembianze di leone, di capra e di serpente il quale ultimo, per la sua forma, costituisce la coda del mostro e, in quanto venefico, la sua parte forse più temibile.
La Chimera, generata da esseri malvagi quali Tifone ed Echidna, non poteva che essere sinonimo di devastazione e tragedia per gli abitanti della contrada in cui, in una grotta di un vulcano, viveva. I danni che arrecava e la paura che incuteva erano tanti che Ipponoo quando la uccise versandole piombo fuso in gola, venne considerato un eroe, nonostante fino a quel momento lo si ritenesse colpevole per la morte di Bellero, re di Corinto, e con tale certezza da dargli il nuovo nome di Bellerofonte (Uccisore di Bellero).
Per i pagani la Chimera rappresentava qualcosa di irrealizzabile in quanto se la condizione ibrida degli altri esseri mostruosi poteva presentare tra le parti di cui erano composti una qualche sia pur tenue affinità logica, o psicologica o fisica, ciò non accadeva per la Chimera, in cui sono presenti animali tra loro differentissimi come la capra, il leone e il serpente, e quindi non riconducibili neanche idealmente ad un essere che li coinvolga insieme, a meno che non li si intenda (ed in effetti in effetti buona parte dei mitologi li intende), come la raffigurazione della dea-madre da cui tutto dipende, ovvero lo svolgersi del ciclo annuale ritmato dalle stagioni: l’ estate (il leone che alita fiamme dalla bocca e arde), l’inverno (il serpente che morde e col suo veleno gela) e le due stagioni (la capra) che in realtà, a differenza delle precedenti, non sono opposte e individuate, ma sono una stessa stagione dalla direzione invertita (dal freddo verso il caldo e dal caldo verso il freddo), e perciò più enigmatica e indefinibile.
Dai cristiani, in particolare dai monaci cistercensi che volevano ristabilire un rigore a mano a mano appannatosi tra i cluniacensi cui in gran parte si erano sostituiti, ci sarebbe stato il desiderio di eliminare la rappresentazione pittorica o scultorea della Chimera, in quanto elemento disturbante con la sua irrazionalità, una visione più congrua e armonica del creato. Non ci riuscirono. Anzi, se esiste un luogo preferenziale in cui la si possa vedere, esso è proprio nelle chiese, ed elettivamente a guarnire i capitelli di quelle romaniche, massicce nella costruzione e nell’ammonimento.
La assoluta importanza calendariale che pervade ogni civiltà di ogni tempo e di ogni luogo, se è valida l’interpretazione che della Chimera si è data, starebbe a testimoniare che essa
si è imposta al di là della religione divenuta dominante, la quale la ha alla bell’e meglio riadattata.
Se infatti asceti e monaci hanno voluto vedere nel leone il punitore  dei peccati e nel serpente il Tentatore stesso, non hanno saputo inserire il terzo tassello se non come doppione del secondo, e cioè la capra come, di nuovo e per superfetazione, il Tentatore.
In definitiva l’operazione di inglobare la rappresentazione di questo monstrum nell’immaginario e nella didattica cristiana stabilendo a tutti i costi dei rimandi inclusivi e convergenti verso il cristianesimo, ha finito per apparire debole, spia di un procedere che di naturale ha poco, fatta salva la naturale disposizione che ha il cavallo lasciato a briglie sciolte di dirigersi verso la sua stalla.

FULVIO BALDOINO

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