FELICITA’ E WELFARE

FELICITA’ E WELFARE

FELICITA’ E WELFARE

Basta poco per rendere una persona infelice. Prendi un giovane e mettilo davanti alla prospettiva di un lavoro e hai già centrato l’obiettivo. Le società moderne si fanno sempre più complesse e aumentando i bisogni aumenta l’infelicità.

Il ministro Fornero fa sfoggio di aggettivi desueti in lingua inglese e dice che i giovani italiani sono “choosy”, schizzinosi, vogliono fare solo lavori puliti e ben retribuiti, viceversa meglio stare in braccio a mammà. Una bella uscita che si pone nella scia di Padoa Schioppa, il terrore di tutti i “bamboccioni”.

Come ogni luogo comune anche questi si portano un fondo di verità, ma sviano dal problema reale, sono repertori stereotipati.

Il problema culturale c’è, non bisogna negarlo. Ogni analisi delle politiche del lavoro non può prescindere dall’esame della percezione del tema occupazionale, ma non può utilizzarlo come giustificazione a problemi strutturali. Col Sessantotto si è lottato perché l’accesso all’università fosse effettivamente per tutti e non solo della classe borghese: un diritto sacrosanto ma realizzato in un paese senza strutture. Ci hanno poi venduto il falso mito del poter stare tutti dietro la scrivania ed il lavoro manuale è stato svilito e demonizzato, questi guasti sociali hanno poi prodotto i loro scrosci devastanti incrociando le correnti calde della globalizzazione. Oggi il mondo del lavoro vive una fase involutiva: il lavoro di concetto è spesso mal retribuito e portato avanti da un esercito di tirocinanti e precari, il lavoro di fabbrica sta rinunciando alle tutele conquistate faticosamente in anni di battaglie.

Il capitalismo è un sistema che può soltanto crescere, se rallenta si chiama “crisi”. Che cosa interviene se c’è una crisi occupazionale? Il Welfare State, lo Stato assistenziale, attraverso i c.d. “ammortizzatori sociali”.

Welfare, letteralmente significa benessere, il Welfare State sarebbe lo Stato del Benessere, rapportato alla persona dovrebbe garantire il suo stato di benessere psicofisico attraverso la difesa dei bisogni irrinunciabili.

Ma oggi in Europa e soprattutto in Italia, si è compreso che il Welfare è anch’esso in crisi. Il vero ammortizzatore sociale, ciò che impedisce alla crisi di mostrare il suo volto brutale, sono le famiglie col gruzzoletto faticosamente rimpinguato negli anni del boom economico. Ma c’è un altro punto focale. Sia i governi di Sinistra che quelli di Destra inseguono un obiettivo che non è più un dogma: la piena occupazione.

Le sinistre rivendicano il diritto al lavoro e anche Silvio Berlusconi fece la sua campagna sul milione di nuovi posti, entrambi gli schieramenti forse inseguono una chimera.

“L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”: forse non sarà più così, forse dovrà fondarsi anche su altro, questa potrebbe essere la nuova frontiera del welfare; il nostro benessere non può più essere garantito soltanto dall’accesso al lavoro, il mito della piena occupazione vacilla.

Preso atto che la creazione di nuove posizioni lavorative è proibitiva e che i tradizionali ammortizzatori sociali, strettamente collegati a chi lavora, sono insufficienti, in Europa da tempo aleggia una nuova idea, che poi di nuovo non ha nulla, come la maggior parte delle idee, del resto, cioè l’idea di svincolare una parte del reddito dal lavoro: l’idea del reddito minimo universale.

Il reddito minimo, assume diverse denominazioni e forme, legate al suo carattere più o meno universale. Il precursore del reddito universale fu Charles Fourier, il socialista utopico vissuto a cavallo tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, dal suo pensiero sono sorte varie correnti e interessanti spunti per una società migliore.

Il reddito minimo oscilla tra due versioni. Una denominata allocazione universale, vale a dire una somma versata a tutti incondizionatamente, cioè scollegata dal lavoro e dalla verifica dei mezzi del beneficiario, l’altra denominata reddito minimo garantito o di base, che viene erogata solo a seguito di una verifica dei mezzi, più o meno approfondita, che si configura con i caratteri, più o meno accentuati, della misura assistenziale.

Le critiche a questa visione, specie quella universalizzante, sono ampie e motivate, ma anche gli argomenti a favore. La posizione più forte è che il reddito minimo possa affrancare dai bisogni, restituisca agli individui potere contrattuale, consenta lo sviluppo muovendo la società dal basso, retribuisca il merito non riconosciuto, soprattutto quello femminile, sia meno iniqua della situazione attuale.

Le sinistre farebbero bene ad approfondire il tema, perché in Europa il dibattito è partito da quasi trent’anni, ma anche le destre, poiché le tematiche che affondano le proprie radici nel socialismo libertario sono modulabili e ossimoriche per natura, hanno funzione di sintesi. Il socialismo libertario è paragonabile alla funzione dell’accento circonflesso in alcune lingue: determina la durata e l’intonazione di alcune vocali all’interno della parola, così il socialismo libertario modula continuamente tra giustizia sociale e libertà individuale. Se si calca sulla giustizia sociale si rischia di cronicizzare e stigmatizzare stati di bisogno, se ci si sofferma troppo sulla libertà individuale si rischia lo “stato minimo”, la negazione stessa del Welfare. In pratica è nella continua tensione e modulazione tra questi estremi che può nascere la sicurezza sociale che crea felicità, intesa quantomeno come libertà dal bisogno e senso di prospettiva.

Esiste un diritto alla felicità codificato? Sottratto alle intemperie elettorali e alle turbe del mercato?

I padri costituenti ci dicono di sì. Il fondamentale articolo 3 della Costituzione, dopo aver sancito il principio di uguaglianza formale, contiene un comma 2 di straordinaria portata, che impone alla Repubblica di rimuovere quegli impedimenti di natura economica e sociale, che mettendosi di traverso sul cammino dell’uguaglianza, limitano, di fatto, “il pieno sviluppo della persona umana”.

In questa locuzione è costituzionalizzato il diritto alla felicità. Nessun individuo che sia oppresso dal bisogno può sviluppare a pieno la sua personalità, in altre parole l’individuo che soffre per garantirsi la sussistenza difficilmente potrà esprimere se stesso ed aspirare alla felicità.

L’articolo 3 c. 2, come evidenziato da Piero Calamandrei e da Lelio Basso, si pone in polemica con l’ordine esistente, riconoscendolo imperfetto ed ingiusto, obbliga le istituzioni repubblicane ad intervenire in concreto per garantire una cittadinanza piena, partecipativa e redistributiva, morale.

La sanzione è nei fatti: un gruppo di privilegiati che governa una moltitudine infelice.

 

Carlo Rovello

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