Erbe anarchiche

Erbe anarchiche
Terminate le piogge primaverili, insieme ai prati si risvegliano i vecchietti raccoglitori

Erbe anarchiche

 Terminate le piogge primaverili, insieme ai prati si risvegliano i vecchietti raccoglitori. Pare una cosa trascurabile, e invece è il risveglio di quello che si potrebbe chiamare quasi un istinto umano, antico proprio come l’umanità stessa. Origina infatti, questa voglia di raccogliere i frutti spontanei, dal tempo in cui i nostri progenitori vagavano cacciando e raccogliendo quello che trovavano (due milioni di anni fa).

Evidentemente le tecniche e le conoscenze sono andate affinandosi, tanto che ora si raccolgono delle prelibatezze da cucinare secondo una ricetta o una consuetudine riconosciuta, e spesso si tratta proprio di pietanze buonissime e peculiari, che si possono mangiare solo in quel posto e in quella stagione.

 

 

 

Tutti sanno riconoscere il tarassaco, dal giallo fiore e dalla curiosa nuvola di semi paracadutisti. Si tratta inoltre di un’erba ad alta diffusione e facile riproduzione. Nonostante si vedano numerosi e incerti, armati di borsa e coltello, tagliare o estirpare le piantine, il tarassaco sopravvive, e sparge generoso il suo seme ogni anno. Previa pulitura e bollitura, sarà da mangiare con l’uovo duro, senz’altro. Diffuse sono anche le ortiche, un pochino meno le primule o le foglie del papavero. Il principe delle erbe spontanee, il più ricercato e apprezzato è il verdiscio (luvertin, bruscandoli) in realtà luppolo (Humulus lupulus L.1753). Per questa erba si vince la normale ritrosia e la buona educazione, e s’invade il territorio altrui nottetempo, all’alba, nel primo tramonto. Ho visto attempati signori penetrare in ore antelucane nel mio stesso orto (non si fa eh!) per spigolare una manciata di verdisci da farsi una frittata. Colti in flagranza di reato, fingersi in trance, non guardare da nessuna parte, spiccare ancora un paio di germogli e darsi elegantemente alla fuga. Peraltro (e ne sono convinto) con la scusa pronta da profferire in caso di attacco: “Sono erbe selvatiche, mica le ha piantate lei?!”

 

 

 

Eh lo so, ma visto che vengono nel mio, non sarebbe male per me assaggiarle, un anno. Ma non ci riesco. Vedo le punte germogliare, penso: domani magari me ne prendo una manciatina. L’indomani non ci sono più. Deve essere passato il gentile folletto dei verdisci, e ciau. Mi sembra di vederla l’anziana (perché è quasi sempre una donna) che armeggia in cucina, con un par d’ova del pollaio di una vicina, metter su una frittata per i nipotini (perché è quasi sempre una nonna) che la divoreranno quasi inconsapevoli, perché a dieci anni si è crudeli. Ma non tema, la nonna. Quel che oggi non le è stato riconosciuto (la fatica della raccolta, il rischio del piccolo furto, la progettazione e la preparazione del piatto) verrà mitizzato nel futuro. E i bimbetti, ormai divenuti rispettabili commercialisti, ricorderanno il tempo ormai lontano in cui la loro cara nonnina preparava per merenda una frittatina di verdisci, tutta per loro. Che adesso manco si trovano più, diranno sconsolati (non si trovano perché non si cercano). Sarà ricordata così buona soprattutto perché oggi ormai introvabile. Oggi, già oggi, non sappiamo quasi più alimentarci se non fuori dalla gabbia rassicurante della grande distribuzione. Eppure, or non è molto, i negozi (le botteghe, si chiamavano) servivano solo per integrare la mensa. Ora ne sono l’unico fornitore. Non abbiamo più tempo, voglia e soprattutto (purtroppo) conoscenza di chiedere alla natura, passeggiando, di fornirci qualcosa, qualche piccola cosa da aggiungere al pasto. Qualcosa di ampiamente locale e stagionale, che va conosciuto e discusso in casa, in famiglia, e che fa dunque parte di un piccolo patrimonio culturale non codificato e non ingabbiato da nessuna pubblicità. 

 


 

Così si comincia a scollarsi dal territorio, così cominciamo a sentire la terra sotto i nostri piedi come una cosa che non ci riguarda. Così accade che ci costruiscano un enorme capannone industriale e ci facciano notare: “Vedi: qui non c’era niente”. Eh no! C’era un campo. Si poteva seminare, si poteva lasciare selvatico, si poteva addirittura percorrere correndo o camminando, e ora non si può più”.

Così come ce ne importa sempre meno del paesaggio, di un pascolo, di un prato che incornicia una villa di pregio: che ci importa se ci fanno un supermercato? Dei verdisci, del tarassaco, delle ortiche non ce ne frega niente. C’è l’insalata già lavata e condita nella sua vaschetta di plastica. Ci sono le frittatine di erbe di montagna pronte e confezionate, prodotte in Turkmenistan, magari, ma perfette. 

Che ci importa della nostra terra? Della nostra acqua? Della nostra aria? Dei nostri boschi?

In chiusura mi verrebbe da aggiungere un corollario: anche raccogliere telline o pescare piccoli saraghi da un pontile o dalla spiaggia è un po’ la stessa cosa. Anche andare su una spiaggia libera, godere del bel mare e del sole, è una roba simile: significa costruire un legame empatico, analogico con il proprio territorio, farlo proprio, tenerci, averlo nella memoria e perciò, nel cuore. 

Servirà la piattaforma a Vado, io non lo so, non me ne intendo, ci mancherebbe. Certo che lo spazio libero, anarchico, svincolato, non regolato da norme o da biglietti d’entrata, per l’uomo, sta diventando sempre più esiguo. Come esiguo e sottile (una bava di lumaca) ci lega a un territorio che sentiamo sempre meno nostro.

    ALESSANDRO MARENCO

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