Epperò son posti di lavoro

Epperò son posti di lavoro

   

Epperò son posti di lavoro

In attesa del vecchio S. Paolo, di Lavagnola, del Priamar, della Margonara, di via Nizza e di chissà quali altri spazi commerciali in progetto o in itinere, ha aperto da poco un nuovo, irrinunciabile centro alla foce del Letimbro, presso il complesso Meraviglia e la vecchia centrale.  Certo, c’è da essere felici che alla fin fine della megaspeculazione quegli splendidi edifici della prima rivoluzione industriale siano stati recuperati e restaurati, anziché lasciar fare al tempo come avviene per altri luoghi e altre vestigia, dove si spera in un proficuo iter demolizione- ricostruzione- palazzone una volta ridotti a ruderi. Resta però l’amaro in bocca: possibile che anche quando si recupera, non si possa pensare ad altro che residenziale e commerciale, di cui siamo ormai strasaturi? Possibile che non si riesca mai a contrattare, da parte del pubblico e in sede di istruzione della pratica edilizia, niente di più utile alla comunità, nessun edificio che mantenga comunque destinazione ad uso veramente pubblico e non solo negozi e appartamenti? Ci si avvilisce a pensare che in altri luoghi e in altri contesti oggi forse lì avremmo, almeno in una parte della vecchia centrale, una biblioteca, un museo dell’industria, una sala concerti o conferenze o mostre, delle aule, o qualsiasi altro spazio proficuo di incontro e condivisione collettivi la mentalità di amministratori avveduti e cittadini sensibili riesca a immaginare, per rilanciare la qualità e la vivacità urbana, attualmente, come dire, sotto le scarpe.

  

Altrove, specie dove vige l’urbanistica partecipata, queste possibilità sono invocate e date per scontate, nel mettere mano a spazi e contesti da recuperare. Si ricercano equilibrio e armonia. Noi no, noi siamo felici dell’inutile, del privato, dello speculativo squallido al massimo guadagno, e dediti al mantra de “preferivi forse il degrado”?

Ma c’è un altro mantra che va per la maggiore in questi giorni.  Sui social è stato tutto un fiorire di discussioni contrapposte. Da una parte chi critica il consumismo, l’insostenibile crescita di centri commerciali ipertrofici che uccidono il piccolo commercio, il tessuto sociale, la vivibilità dei centri cittadini.  Dall’altra, i difensori della libera concorrenza, della libertà di scelta, del “progresso” vero o presunto, ma comunque inarrestabile, del cambiamento in ogni caso, che postano foto e inneggiano all’inaugurazione, tutti felici.

Due gruppi che non si parlano e non si capiscono, perché i secondi, i favorevoli, gli entusiasti, sono propensi ad etichettare i primi come ottusi, retrogradi, passatisti e nostalgici, mugugnoni a prescindere, quelli a cui non va mai bene niente per principio.

I contrari, invece, a cui io stessa mi ascrivo, soffrono di non essere capiti. Soffrono che non sia evidente per tutti la strada da lemming verso il baratro che stiamo percorrendo in allegria. Soffrono di vedere lo sviluppo di una bolla insostenibile che come tutte le bolle, prima o poi, scoppierà. E farà danni prima dopo e durante. Soffrono mentre tirano per la giacchetta i ballerini sul ponte del Titanic e vengono da questi respinti a calci negli stinchi.

Entrambi i gruppi sono convinti che gli altri non capiscano niente.

Ed ecco il mantra, a silenziare tutto, solenne come un monumento, esibito dai favorevoli, ma anche dai dubbiosi e dai neutrali, a tacitare ogni discussione: “però sono posti di lavoro”.

Ne siamo così sicuri? 

  

Ho contribuito anch’io alla discussione con un post di riflessione a margine, in costante aggiornamento man mano che mi vengono in mente altri esercizi spariti dal mio quartiere, dove vivo da sempre. Lo riporto parzialmente.

“Negli anni, qui alle Fornaci, ricordando a memoria hanno chiuso: quattro alimentari-ortofrutta, uno dopo solo due mesi dall’apertura; un abbigliamento bimbi; due pasta fresca e rosticceria, di cui uno due volte con due diverse gestioni; una pescheria; un fotografo; un’erboristeria; un detersivi-casalinghi; un’oggettistica; un camiciaio; un calzolaio; un briosciaro; due pizzerie da asporto; una cartolibreria; un serramentista; un ferramenta; una mesticheria; un elettricista; un riparatore di telefonini; un macellaio; un videonoleggio; un orologiaio; un gioielliere; un mobiliere; una pelletteria; una pasticceria, un ingrosso-dettaglio di dolciumi; una gelateria, una gelateria-pasticceria, una sarta, due mercerie…”

Riflessione a margine, dicevo. Infatti non ha la pretesa di un raffronto numerico fra vecchie e nuove attività, né di occupati.  Anche se sono e rimango convinta, pur senza poterlo provare cifre alla mano, che l’economia e i ritorni in termine di lavoro e benessere che poteva offrire un tessuto commerciale fatto di piccola e media impresa, con proventi e tasse sul territorio, occupati stabili, preziose licenze cedute a fine carriera, competenze consolidate,  approvvigionamento accurato e selettivo, non fossero minimamente da confrontare con l’attuale liberalizzazione selvaggia, che strangola il piccolo commercio, produce occupazione alienante di pessima qualità e porta i profitti direttamente in paradisi fiscali.

Neppure potrei dire che questo elenco-accozzaglia messo insieme nel mio ricordo sia colpa dell’avvento dei centri commerciali e della crisi. In qualche caso magari sì, (pensiamo a certi generi e pensiamo al caro affitti, ad esempio, non sostenibile quando gli incassi non bastano) ma ci sono stati anche ritiri per altri motivi, età, trasferimenti (pochi), o banalmente incapacità commerciale.

Devo però dire che statisticamente, negli ultimi anni, il periodo fra apertura e chiusura è sempre più ravvicinato, e rarissimi i casi di imprese che durino e funzionino.

Il mio pensiero piuttosto è un altro, ossia quanto, nell’apparente pletora di megadisponibilità di acquisto, abbiamo in realtà PERSO.  Leggendo l’elenco del passato si nota una DIVERSIFICAZIONE di generi e di servizi.  Ora, dappertutto, vige l’OMOLOGAZIONE.  Ossia, tanti centri, tanti supermercati, tanti negozi, ma sempre la stessa roba, gli stessi generi, la stessa paccottiglia, lo stesso cibo spazzatura, gli stessi oggetti ed utensili di pessima qualità e le cianfrusaglie del tutto rinunciabili. È questo per me l’indizio principale di negatività del fenomeno. Se fosse solo uno spostamento di ambiti e dimensioni del commercio, sarei anche propensa ad accettare l’etichetta di nostalgica passatista. Questi luoghi freddi e asettici non mi piacciono perché sono antiquata, in fondo i giovani sono a loro agio, questo sarà il futuro e devo accettarlo…  Ma non è così.  Da nessun punto di vista lo si guardi. Non è né così inevitabile, né così positivo, né così innocuo.

Mi è capitato di cercare una particolare merce, un determinato capo d’abbigliamento, un accessorio di arredo, un materiale, e di non trovarlo, dopo aver girato tutti questi luoghi alienanti detti, opportunamente, “non-luoghi”. Oppure trovarlo sì, ma talmente di pessima qualità che si rompeva solo a guardarlo, da farmelo posare subito sullo scaffale, da rimpiangere le materie prime, i trasporti e il lavoro sprecato per farlo.

Nessuna scelta dunque? Non proprio, diciamo molta scelta al ribasso, alla diseducazione, all’acquisto compulsivo, con prezzi inutilmente, anzi, pericolosamente stracciati.

Ma con un fenomeno collaterale pericolosissimo: una differenza sociale sempre più netta e marcata. Se vuoi l’oggetto migliore, semplice e non trattato, il cibo più sano, anche un cibo magari ritenuto povero un tempo, a meno che tu non sia così fortunato e tenace da avere fonti di approvvigionamento note a pochi, lo devi STRAPAGARE. Condizione necessaria ma non sufficiente. Tralasciando, almeno per i vestiti, l’effetto brand, il marchio, per cui in boutique trovi le stesse cinesate tossiche ma le paghi il triplo. E tralasciando l’assurdo di pagare molto di più, che so, un prodotto fatto con pochi ingredienti semplici rispetto a uno imbottito di grassi e zuccheri nocivi e sapori artificiali e conservanti.


Da qui, al fatto che solo i ricchi possano mangiare bene e vestirsi decentemente, e i poveri siano lasciati a uno squallido simulacro di consumismo intossicante, come negli USA, il passo è breve, brevissimo, e forse, a giudicare dai primi ciccioni malsani che vedo per strada, lo stiamo già superando, in attesa di Ceta e TTIP.

E a proposito di USA, gli antesignani, un passo avanti a noi: dopo che i centri commerciali sempre più grandi hanno ucciso il piccolo commercio, dopo che hanno iniziato a cannibalizzarsi fra loro (cosa che qui da noi sta già succedendo, lo si vede dalle varie offerte e iniziative e spettacolini acchiappa cliente), alla fine i loro mega mall hanno chiuso. Per l’avvento del commercio on line.

Non c’è motivo di credere che qui andrà diversamente. E se non si provvede per tempo a costruirsi un modello di società diverso, sarà una strage di posti di lavoro e un immiserimento globale sempre più marcato.

Cosa diceva San Francesco? Chiedeva a Dio di dargli la forza di combattere quel che si poteva combattere, di sopportare quel che non si poteva combattere, e l’intelligenza per distinguere fra i due. Lottare contro il “progresso” è impossibile, il luddismo era perdente in partenza, si tratta di distinguere fra ciò che è ineluttabile, come certi miglioramenti scientifici, la digitalizzazione e la robotizzazione, i cambiamenti nella produzione, nella distribuzione, e ciò che non è inevitabile, come il liberismo esasperato, il consumismo, la crescita infinita, lo spaventoso divario sociale, il ricatto economico e lavorativo. E di conseguenza evitare ciò che è evitabile e governare saggiamente ciò che non lo è. Non necessariamente robotizzazione e digitalizzazione significano male, lo diventano se non sappiamo prevedere e compensare la perdita di posti di lavoro, ma li subiamo e li trasformiamo in ricatto per le masse.  Se non sappiamo porre un argine al profitto avido e spietato, ma lo incoraggiamo.  Si pensava che il progresso avrebbe portato benessere e liberazione dai bisogni primari per l’essere umano. Così potrebbe ancora essere, se non lasciamo fare a chi ci vuole schiavi al soldo di pochi ricconi.

Alcuni hanno già iniziato una sorta di ribellione silenziosa, fatta di pochi acquisti, di scelta di negozi semplici, riducendo all’essenziale la frequentazione della grande distribuzione e degli scaffali-trappola.  Alcuni cominciano per fortuna a riflettere, avendo raggiunto la saturazione e non trovando alcuna soddisfazione nell’acquisto reiterato e compulsivo, ma maggior piacere nell’acquisto necessario e ragionato. È una base di partenza.

Ogni utopia va costruita.

Ma soprattutto, non devono più essere costruiti nuovi centri commerciali.

(Nota a margine: non potendolo fare singolarmente per ciascuno, ringrazio vari commenti e interventi letti su Facebook, che mi hanno fornito spunti per questo pezzo.)

  
Milena Debenedetti  Consigliera del Movimento 5 stelle
 
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