Devi leggere! (Soprattutto in biblioteca)

Devi leggere!
(Soprattutto in biblioteca)

Devi leggere!
(Soprattutto in biblioteca)

Ho avuto il privilegio di collaborare con la più grande biblioteca della Val Bormida. Dato che sono appassionato di lettura e di libri, il gruppo di lavoro della biblioteca ha pensato di comprendermi in un programma di promozione e incentivo alla lettura per i ragazzi delle prime classi del locale istituto tecnico.

È sempre stato molto emozionante, per me, entrare in contatto con gli studenti, con i giovinastri miei contemporanei, nati una trentina d’anni dopo di me.

Il programma prevedeva alcuni incontri in cui io ed altri volontari avremmo letto ad alta voce qualche brano. Quindi ci sarebbe stato un incontro con l’autore di uno dei libri letti e infine un “seminario” sulla scrittura, a cura di una casa editrice.


Si è deciso di leggere gialli, con la speranza di catturare meglio e di più l’attenzione dei ragazzi. Si è predisposta una sala tranquilla, una serie di titoli e brani, un minimo calendario di incontri.

Ci siamo poi ritrovati un pomeriggio nella bella biblioteca, sono arrivato prima e mi sono messo in poltrona. Vicino a me un tavolino pieno di libri, una bottiglia d’acqua.

Ero proprio emozionato: da una parte parlare ai ragazzi da questa posizione mi avrebbe dato un’autorità che non ho (l’uomo adulto che tiene in mano un libro di fronte a dei ragazzi è per forza autorevole – in immagine perlomeno – ), d’altra parte sappiamo tutti benissimo che i ragazzi, gli adolescenti, per loro natura devono provocare, anche poco, anche solo per saggiare e capire chi hanno davanti. Studiare le reazioni, le capacità.

Eccoli, sono entrati silenziosi e un po’ abbacchiati. Le sedie ordinate e inquadrate come una legione hanno suggerito loro di trovar posto lontano dal lettore: non si sa mai, meglio non esporsi. E le ultime sedie, in fondo, sono come l’ultima fila di sedili sul bus della gita: sono sempre i reprobi che si nascondono là dietro. Ai miei tempi da quelle parti, là in fondo, mentre i secchioni ascoltavano le spiegazioni del cicerone in prima fila, laggiù circolavano sigarette, giornaletti zozzi e panini fuori ordinanza.

Mi sono subito spostato alle loro spalle, minacciandoli di leggere da lì. Li ho sborditi in avanti (lo so che sbordire non è italiano, è anzi dialetto, e si usa per dire spaventare animali per costringerli alla fuga o al rientro nello stabbiolo apposito. Non c’è verbo più adatto…).

“A chi non piace leggere?”

A tutti, chi più chi meno. Anche perché la maggior parte alza le mani e gli altri, quelli a cui magari piacerebbe un pochino, preferiscono accodarsi e ridacchiare. No, no, non ci piace leggere.

Bene, proviamo.


Leggo io, leggono altri volontari. Ne approfitto per guardarli. Sono composti, tutto sommato silenziosi. L’unico moto di ribellione c’è stato quando l’insegnante ha invitato a depositare i cellulari. Però ce ne sono che rosicchiano bottiglie vuote, o che mantengono lo sguardo vacuo di chi pensa ad altro, lontano lontano. C’è pure chi segue, sembra. Uno dorme, lo svegliano. Dico: no, no, lasciatelo dormire. L’importante è che non si dia fastidio. Io sono un discepolo di Pennac: alla lettura ad alta voce ci si può pure addormentare, come succedeva da bambini con le favole prima di andare a letto.

Un altro ha arrotolato il giubbotto e se l’è messo da cuscino. Il tutto per far scena, mica per dormire sul serio. In media sono abbastanza disperati. In effetti il primo brano scelto non è troppo coinvolgente. C’è ora una parte più truculenta e questo li affascina, li incuriosisce. Ma cambiamo registro: passiamo a una lettura ironica, vivace e recente. Anziché leggere seduto mi alzo e leggo forte, in piedi, fra di loro. Esigo attenzione, e mi faccio aiutare da Stefano Benni che sa senz’altro essere molto divertente. Sento risatine, percepisco una certa attenzione. Perlomeno ora sanno che dentro quei pesanti mattoni di carta ci sono nascoste anche delle risate, anche delle cose scabrose, a saperle cercare.


Uno dei più esplicitamente scontenti è un ragazzone molto bello e alto, elegante. Si esprime con banalità, ma sa farsi capire. Sorride scettico. Risponde alle domande con naturalezza disarmante, guardano l’interlocutore negli occhi, fermo. Gli altri bofonchiano, si ritirano, rifiutano. Il ragazzone, mi dice un’insegnante, ha qualche problema con la scuola: bocciature, sospensioni. Anche a casa: una famiglia meridionale numerosa. Sono stupefatto: ancora siamo ai problemi di un ragazzo meridionale? Ancora oggi? Adesso? Qui? Possibile? Allora di tutta l’economia nazionale, dei piani di sviluppo, dei piani di integrazione, della didattica, della pedagogia, di tutto questo di altro insieme, non è servito niente, non è cambiato niente, salvo che per le dimensioni del fenomeno. Se ancora oggi dobbiamo dire: famiglia difficile, meridionale… Possibile?
E gli altri? Vedo (so) che si tratta di albanesi, marocchini, ucraini. Queste sono le nostre classi, dovrebbero essere, nello specifico, i tecnici che faranno funzionare questo Paese tra pochi anni. Quelli che avranno la responsabilità dell’energia, dei trasporti, comunicazioni, ricerca, distribuzione. Questi sono i vasi sanguigni e i nervi del nostro futuro prossimo corpo.


Gli insegnanti, riguardo alla lettura, dicono che sono disattenti, che non s’impegnano, che non ne hanno voglia. Mi fanno notare che qui, presenti, sono una quindicina, ma la classe effettiva conta più di trenta. E penso che fare l’insegnate con trenta alunni, fossero anche attentissimi e disciplinatissimi sarebbe difficile. Non posso pensare cosa sia insegnare a greggi tanto numerosi. Ripenso alla mia generazione: secondo me eravamo peggio. Tutti provenienti dalla stessa terra, tutti molto diversi, anche fisicamente. Tutti vestiti uguale (per motivi pratici), con una gran voglia di combinarne qualcuna, di ridere, di far caciara. Per come mi ricordo io dei “miei tempi” non saremmo durati, in quella sala, per più di un’oretta. Poi, a suon di frizzi, lazzi e risatine, ci avrebbero scacciato in malo modo.

Questi no. Tutto sommato stanno quieti. Scopro (non ci avevo mai fatto caso, non avendo figli) che portano quasi tutti scarpe da basket non allacciate. Buffo. Forse un atto di ribellione? Sicuramente una moda. Anche noi avevamo le nostre mode, forse avevamo delle scarpe più a buon patto, comprate sul mercato a inizio stagione, e che duravano sicuramente fino alla fine della primavera. Non era un motivo di orgoglio o di prostrazione. Non era un sacrificio. Ora sanno di avere le scarpe nei piedi. Trent’anni fa no.

I miei compagni di avventura, al termine di questi incontri, hanno dichiarato una vaga delusione. Non leggono, non ne hanno voglia, non gli interessa.

Non so, penso. È difficile recuperare una strada persa tempo fa. È difficile entrare in concorrenza con un sistema di televisori dagli infiniti canali, da computer coloratissimi, videogiochi, telefonini con vari accessi. Come si potrà mai dire loro che un libro è meglio?

Siamo sicuri che sia meglio?

  

 

Forse sarebbe il caso di dissacrare il libro, togliergli quell’aura mistica che lo allontana. Il libro è un supporto, una tavola che regge una storia. Ascoltare una storia è bello. Conoscere una storia è bello. Ma è bello soprattutto perché è divertente. Se uno non si diverte è peggio per lui. Io, allo stadio, non mi diverto. Non c’è niente da fare, il calcio mi annoia. Ci vadano pure gli appassionati, per carità. Io preferisco togliere le erbacce nel prezzemolo appena nato, cucinare, scrivere articoli discutibili per il blog amico.

E poi ancora una cosa vorrei dire: prima di uscire dalla biblioteca un ragazzone è venuto da me, per dirmi che veramente… insomma… lui un po’ legge… Ha letto “Cuore” e ora sta leggendo “Il sentiero dei nidi di ragno” di Calvino. Conosce?
Conosco, conosco. E questa è una cosa bellissima: due lettori che incrociano le proprie conoscenze, come facevano i vecchi, un tempo, in paese, quando si soffermavano a ricostruire un reticolo di conoscenze e parentele, e si finiva per narrare segreti e avventure di questo e di quello (non maldicenze) e alla fine, su quella rete imponderabile, costruire la propria vita e le relazioni con gli altri. Ecco a cosa serve leggere: per poter dire a uno appena conosciuto: “Hai mai letto Meliville? Forte eh?!” e l’altro: “Chiamatemi Ismaele…” e si sorride, e c’è qualcosa in comune di magico e leggero, che chi non legge non può capire. 

ALESSANDRO MARENCO

 

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