Dai funerali di Bergoglio alla Resistenza-Liberazione
Dai funerali di Bergoglio alla Resistenza-Liberazione
un excursus sull’impasto di retorica ipocrisia e menzogne
Alla vigilia dell’elezione del nuovo papa si è rapidamente dissolto l’ipocrita unanimismo toccato a Bergoglio solo da morto. All’interno della Chiesa c’è chi ne ha messo in dubbio la fede e lo ha nemmeno tanto velatamente accusato di agnosticismo per la sua apertura verso tutte le forme di religiosità. E fuori della comunità dei credenti qualcuno gli ha rinfacciato l’omaggio alla dea Terra dei nativi americani. Insomma un bersaglio da dritta e da manca, in nome del ritorno alla Tradizione.
Ritorno alla Tradizione. Come non essere d’accordo? La Tradizione è la nostra identità, ammesso che ne abbiamo ancora una. Ma ci sono tanti modi di intenderla la Tradizione. Un giovane studioso colto e intelligente come Fusaro, in compagnia del più scafato Veneziani e del cattolicissimo Socci tornano ad attaccare in Francesco l’iconoclasta che ha svuotato di senso la Chiesa di Roma l’Anticristo che ha usurpato il soglio di Pietro. Io ero e sono convinto che il papato e tutta la Chiesa sono un corpo estraneo alla civiltà a meno che non evolvano verso una totale laicizzazione, non dico mondanizzazione perché la Chiesa di Roma è sempre, ripeto sempre, stata materialista e ipermondana. Una ragion d’essere può recuperarla nella tutela della società e della civile convivenza, in una funzione di guida spirituale nel senso laico del termine senza la necessità di ricorrere alle favole. La condanna del riarmo e la spinta verso la pace non erano certo una novità: basti pensare a Benedetto XV. Ma nel caso di Bergoglio più che un appello pastorale il monito aveva uno spessore politico e non per niente il suo continuo ripetersi veniva silenziato dai media e ignorato dai politici di professione.
Come ben sanno i teorici della comunicazione è tutta una questione di punteggiatura: facciamo passare Francesco per il papa degli ultimi, per un terzomondista, per un fanatico dell’accoglienza enfatizzando fra le tante sue esternazioni quelle che lo confermano e oscuriamone una fondamentale: “bisogna aiutare quelli che vogliono lasciare la propria terra a rimanervi evitando loro di esporsi a una viaggio che più che della speranza è della disperazione”; e facciamo passare per vuota retorica le sue invocazioni alla pace, attenuiamo quelle sulla carneficina di Gaza, sorvoliamo su quell’“orribile” con cui siglava l’ aiuto militare all’Ucraina, utile solo a far moltiplicare il numero delle vittime.

PUBBLICITA’
Si dice: il suo “buonasera”, la frequentazione dei social, i bagni di folla hanno desacralizzato la Chiesa. Ma cosa mai di sacro ha mai avuto la chiesa cattolica? Tanto sessuofobica quanto incline alla pederastia, pauperistica a parole e affaristica nei fatti; millantava di guardare al mondo sub specie aeternitatis mentre intrallazzava con i potenti e la peggiore politica. Alla superbia delle cattedrali elevate verso il cielo faceva riscontro il lezzo delle sacrestie . Della Chiesa del passato, quella preconciliare, ricordo un fortunato libello, Sesso in Confessionale, che la rappresentava come il luogo del guardonismo e dei pettegolezzi, strumento di controllo e di pressione politica, tant’è che i compagni del Pci erano assai poco entusiasti del suffragio femminile.
Tanta superstizione e poco misticismo nelle processioni, nella devozione ai santi, nelle beghine che biascicavano orazioni in latino come formule magiche e snocciolavano ossessivamente rosari. Non so cosa ci sia da rimpiangere della Chiesa del passato. Forse l’indottrinamento nelle scuole? L’ossessione del peccato trasmessa alle acerbe coscienze di preadolescenti? La cloroformizzazione delle masse perché stessero buone e non disturbassero il manovratore? Il tentativo di impedire la stampa e la circolazione di scritti sgraditi o giudicati pericolosi per il prestigio del clero e l’autorità della Chiesa?
Trovo indecente che tanti dichiaratamente non credenti o comunque non osservanti si impiccino di questioni interne alla comunità ecclesiale e si intrufolino nella dottrina della Chiesa. Per me, che di quella comunità non sono parte, quel che conta è che l’autorità religiosa non interferisca con la dialettica politica, che già per conto suo ha dimenticato l’insegnamento di Machiavelli ed è incline a trincerarsi dietro scudi valoriali. È ancora fresco il tentativo di imporre l’indissolubilità del matrimonio e il reato di adulterio e, più in generale, la pretesa di contaminare il diritto con la morale cattolica
L’idea che ciascuno si fa del senso dell’esistenza, della nascita e della morte, di ciò che è veramente importante nella vita è cosa squisitamente privata. I riti collettivi vanno salvaguardati quando e se servono a mantenere e rafforzare l’identità nazionale. e fa bene Pellifroni a rimarcare l’importanza che per lo Stato e la coscienza collettiva della Terza Roma hanno i riti della Chiesa ortodossa russa. Quel che resta di quelli cattolici sicuramente non servono a questo scopo, come non servono quelli che ne hanno preso il posto, la festa dei lavoratori e quella della resistenza/liberazione, resistenza non si sa a che cosa e disfatta fatta passare per liberazione. La prima poteva aver senso al tempo delle rivendicazioni operaie, la seconda è un caso di scuola di manipolazionedella storia e di creazione di un mito fondato sul nulla.
La primavera del 1945 ha suggellato la débacle militare italiana di due anni prima. Il 25 luglio del 1943 il regime fascista si liquefece senza clamore e senza rimpianti. Nel paesino toscano in cui ero sfollato con la mia famiglia sono stato testimone della prima reazione all’annuncio delle dimissioni di Mussolini: il saccheggio della casa del fascio, con la convinta partecipazione dei fascisti del giorno prima; la guerra civile doveva ancora cominciare (e al Sud non c’è mai stata). La musica cambia quando i tedeschi, chiamati in Italia per difenderci dall’invasione angloamericana, si accorgono di essere finiti in un cul de sac e cominciano a ripiegare . Il resto è cronaca, la cronaca amara di un Paese dilaniato, smembrato, violentato. I marocchini del generale francese Juin al Sud, la ferocia tedesca e la guerra fratricida al Nord. Non c’è nulla da celebrare, c’è solo da rispettare quanti da una parte e dall’altra hanno creduto di combattere per una causa giusta. E dei tanti che, da una parte e dall’altra, hanno solo approfittato dell’impunità per dare libero sfogo alla loro rabbia, alla loro sete di vendetta e di rivalsa non vale la pena di continuare a parlare. Lo dobbiamo alle vittime, come la povera tredicenne savonese assassinata dai partigiani comunisti.
La storia si costruisce a partire dalla cronaca, dal resoconto dei fatti. Ma qualche volta si inventa di sana pianta, come il canto partigiano venuto fuori dieci anni dopo la fine della guerra. Reso celebre dalla Daffini come canto delle mondine, che in realtà non l’avevano mai cantato, col nuovo testo è progressivamente diventato l’inno della resistenza. buono per tutte le resistenze, a cominciare da quella palestinese. Premesso che i partigiani, e in particolare quelli della brigata Garibaldi, nel terribile biennio 44/45 erano impegnati in ben altre faccende poco commendevoli piuttosto che a cantare, i canti partigiani erano Fischia il vento, l’Internazionale e soprattutto Bandiera rossa. Mai sentita Bella Ciao.
Pretendere di fondare il presente su un passato inventato serve solo a creare incertezza, confusione, a disorientare e dividere le coscienze. Le violenze di questi giorni come gli attacchi a Liliana Segre lo dimostrano.
La nostra identità nazionale va cercata oltre il conservatorismo cattolico, oltre il desiderio della sinistra di farsi una verginità occultando la sua matrice stalinista e titina e anche oltre la retorica risorgimentale, che ha fatto passare per guerra di popolo gli ideali e gli obbiettivi di una minoranza irrisoria. La nostra identità è riposta nella lingua, nella letteratura, nell’arte, nel fil rouge che attraverso di esse ci lega alla civiltà romana. La lingua, che è il nuovo latino da difendere e imporre come ineguagliabile veicolo di cultura e di civiltà andrebbe continuamente rinsaldata nelle sue basi e rinvigorita attraverso il confronto con la sua matrice.
Il presente è ormai perso: Le generazioni che si sono succedute dopo gli anni Settanta hanno subito un progressivo impoverimento che ora si riflette nella politica, nel deserto culturale e morale, nell’ottundimento generalizzato che ha consentito l’affermazione di cialtroni in tutti i campi in cui il controllo del compito può essere facilmente eluso, come accade nelle discipline umanistiche o parascientifiche, nella la letteratura,nel giornalismo e in primis, appunto,nella politica. Nel giornalismo mi è difficile trovare una voce libera, critica e informata: tanta boria, tanta sicumera per nascondere il vuoto morale, intellettivo, culturale. Siamo al punto di dover apprezzare i balbettamenti di Belpietro o le reticenze di Borgonuovo e dover riconoscere che l’unica voce schietta è quella di Travaglio, sforzandoci di dimenticare la sua sintonia con l’avvocato furbacchione che ha sfilato a Grillo la sua creatura e la gratuita, acritica cattiveria con cui si è scatenato contro Berlusconi (Psiconano, Delinquente, Innominabile).
Se il presente è perso si può almeno sperare nel futuro? Sarei tentato di rispondere che non c’è necessariamente un futuro, che ci illudiamo che ci sia sempre un fine quando di sicuro c’è solo la fine. Ma voglio essere ottimista e augurarmi una rivoluzione culturale che sia anche recupero di intelligenza individuale e di dignità collettiva. Una rivoluzione che investa il sistema formativo, l’associazionismo, i partiti: più sport e meno palestra, più agonismo e meno tifo, più letture e meno televisione, più dialogo e meno chat. Una rivoluzione che consenta di ritrovare la disciplina interiore attraverso quella esterna e insieme ad essa la severità, il rigore e la fatica dello studio, l’etica del lavoro, l’ autorealizzazione nel fare nell’apprendere, nello scoprire al posto dell’ebetudine del turismo, dello svago, dello spettacolo.
E infine il recupero del senso del sacro non ancora incapsulato in una dottrina e il coraggio di porsi. soli e inermi di fronte al mistero nella condizione ancestrale di sbigottimento ma anche di apertura e accettazione. L’alternativa è l’angoscia o la fuga dalla ragione. Certo, non è la promessa di una vita eterna ma è la condizione per liberarci dall’infantilismo della violenza, della sopraffazione, dell’idea assurda, stupida, incosciente della guerra.
FRA SCEPSI E MATHESIS Il libro di Pierfranco Lisorini acquistalo su… AMAZON