Da “Satura”, Xenia II: 9
Le monache e le vedove, mortifere
maleodoranti prefiche,
non osavi guardarle. Lui stesso che ha mille occhi,
li distoglie da loro, n’eri certa.
L’onniveggente, lui… perché tu, giudiziosa,
dio non lo nominavi neppure con la minuscola.
“Mosca” equipara tra loro monache e vedove, e queste alle prefiche. Tutte accomunate dall’insincerità. Ed il poeta ce lo riferisce. Non spiega il giudizio della moglie, ma la definisce “giudiziosa” ed è perciò come se ne condividesse, al riguardo, il pensiero. E’ un giudizio pesante, netto: “n’eri certa”. Addirittura esse, monache e vedove, non attuerebbero un memento morale, o un accorato rimpianto sentimentale, ma, come da ètimo della parola “mortifere”, essendo la loro cifra la finzione, non evocano semplicemente la morte, ma la portano, e perciò sono maleodoranti come cadaveri. Il loro pianto è dovuto. I loro studiati lamenti, pertanto, appaiono pornografici agli occhi di chi, come Mosca, vive di una religiosità genuina e quasi ingenua, e comunque immediata. Lontanissima dalle lacrime a pagamento delle prefiche. Fuor di metafora, dalla finta partecipazione.
Un giudizio che, si suppone, non includeva tutte coloro che, pirandellianamente, si erano date una forma, un ruolo da svolgere nella società. Ma certo le molte immedesimate nella veste o nella parte. Lo “spettacolo” (è il caso di dire, poiché danno vita ad una rappresentazione che se non avesse luogo le priverebbe di identità e non appagherebbe le aspettative del “pubblico”) per il sentire di Mosca è indecente. Impudico nella (e anzi proprio per la) richiesta sociale che viene soddisfatta. Così lei distoglie lo sguardo. E distogliendolo le disconosce, suore e vedove, dalla funzione che hanno fatto propria. Lo distoglie da chi tra loro è così, cioè esiste nell’assunzione di una identità formalizzata che avrebbe pure la pretesa di essere esemplare.
Montale, con un verbo strano, che non ci aspetteremmo, riferisce che “non osavi guardarle”. Verbo strano perché il non osare, l’avere pudore e vergogna, dovrebbe essere di chi travalica l’accettabilità, di chi commette qualcosa di offensivo; non di chi lo giudica tale. E allora forse un simile dire rivela il tentativo di cancellare ciò che non si tollera. Il non volere che la realtà sia quella è un modo per statuire che essa non mi appartiene, neanche nella modalità passiva del recepire e non solo, ovviamente, in quella attiva del produrre. La sincerità del ripudio sta dunque, poiché si è parlato di spettacolo, nel non far parte degli spettatori. Che sarebbe già un “osare”.
Uno spettacolo che non piace neanche a Dio; ai mille occhi di Dio. All’ “onniveggente”: colui che sa guardare anche dentro, colui che non ha bisogno di dimostrazioni.
In contrasto con le pantomime di chi si lascia ridurre ad un ruolo da esibire, Mosca sa che non c’è bisogno neanche di nominarlo. E a proposito: che significa “dio non lo nominavi neppure con la minuscola”? Non è così immediato capirlo, perché di mezzo c’è il concetto per cui il rispetto verso la divinità lo si esprime indicandola con la lettera maiuscola; e perciò non nominarla neppure con la minuscola si potrebbe configurare come una doppia mancanza di rispetto. Tuttavia il verso si può intendere (e così in effetti lo intendiamo) come oltre la sconvenienza di insistentemente nominare il Dio canonico, predicato nella catechesi e definito dal catechismo, Mosca giudicasse sconveniente perfino nominare il dio intimo e personale, quello che, se esiste, non sovrasta, ma alberga. Nominarlo sarebbe pensarlo distratto. Cioè assurdamente pensare che lui dentro l’anima (il cuore, la mente, la coscienza o come altro la si voglia chiamare), dall’anima abbia bisogno di essere richiamato.
Siamo dunque davanti a una poesia che, come tutte le altre di “Xenia”, evidenzia l’allontanamento dall’ermetismo delle due prime raccolte, e, con esso, dalla rima e dalle regole metriche, con una sterzata verso la prosa, e una postura comunicativa improntata maggiormente all’orizzontalità. Il poeta infatti ora, persa per sempre la compagna di una vita, sente l’esigenza di accertarsi, nell’ossimoro della sua riservatezza, che il suo lutto sia condiviso, affinché i suoi Xenia siano un dono di riconoscenza a Mosca (il “caro piccolo insetto”) offerto oltreché da lui, anche da tutti coloro che attraverso di lui l’hanno potuta conoscere.