Commento all’ 8° Mottetto [da “Le Occasioni” di Eugenio Montale]
Ecco il segno; s’innerva
sul muro che s’indora:
un frastaglio di palma
bruciato dai barbagli dell’aurora.
Il passo che proviene
dalla serra sì lieve,
non è felpato dalla neve, è ancora
tua vita, sangue tuo nelle mie vene.
Prodigioso il segno, ma non stupefacente, perché atteso da chi ha abituato i sensi a riconoscere i messaggi che gli giungono come testimoni da un altrove.
Il poeta è in attesa: “Ecco”.
E il segno si mostra, non gli sfugge.
Di più. Vede che s’innerva, ossia dà dimostrazione della verità della sua epifania rendendo vitale la superficie su cui si poggia: un muro.
Non lo abbatte, non lo fora; semplicemente gli dà colore e vita. Il muro resta.
La metafora dell’incomunicabilità, della solitudine, dello scarto (come scoria e come divario) non viene meno. Il “miracolo” sta nel toglierle asprezza, nel liberarla dai “cocci aguzzi di bottiglia”.
E’ un arcano che un poco cede, ma non si concede.
Segno riconosciuto anche se non fosse stato atteso? Non sappiamo.
Sappiamo però che l’io lirico è in guardia. Così, puntualmente lo coglie. “L’occasione” non gli sfugge.
Grande cosa per lui. Ma altrimenti, valutata dall’esterno, rientrante nel qualsiasi del quotidiano.
E’ il sole, latore del messaggio, che si occupa, sorgendo, di tingere di giallo il muro e di stampargli sopra l’ombra di un ramo frastagliato di una palma, “bruciato dai barbagli”, ovvero dal risultato del gioco di luce un po’ in abbaglio, un po’ in filigrana, dell’aurora che a mano a mano avanza.
Il segno s’innerva di pari passo col muro che s’indora, perché la luce fa più netta la figura delle foglie della palma, bruciate in quanto rese brune dal controluce.
Sarà bene sottolineare ora che il cognome di Irma era Brandeis, dato immediatamente colto da Montale come occasione per immaginare una specie di struttura che lavora dietro quella che noi percepiamo come la nostra unica e solida realtà.
Infatti in tedesco “Brand” è fuoco, e “Eis” è ghiaccio. All’occasione potrà avere contribuito anche la pronuncia “eis” della parola inglese “ice”. Fatto sta che Irma in più di un’…occasione viene associata a questi due elementi. Perciò donna del fuoco e del ghiaccio.Ma quale il senso che sottende a una simile sintetica e icastica denotazione dell’amata?
La spiegazione la si deriva soprattutto dal dodicesimo Mottetto; tuttavia già da questo ottavo si fa strada l’idea che lei, vieppiù idealizzata in Clizia, abbia a che vedere con i due opposti del calore e del gelo, e che per portare in dono il primo debba affrontare il secondo.
Affinché il sangue abbia ancora forza e voglia di essere pompato dal cuore dell’uomo che ama e protegge, affinché gli dia vita e forza.
Riguardo il calore, ci aiuta il suo senhal di fanciulla innamorata di Apollo, personificazione del sole, tanto da accompagnarlo con lo sguardo fissamente per tutto il suo percorso nel cielo, e perdersi nella sua immagine al punto di diventarne la microcosmica copia terrena: l’elitropio.
Ecco il segno. E’ inviato da Clizia. Ce lo fa capire la luce (il calore, in senso lato): il muro s’indora, un frastaglio di palma, albero di paesi caldi, bruciato dai barbagli (bagliori e riflessi in controluce) dell’aurora. Clizia, insomma, è regista di un’epifania che è benefica per la benevolenza che porta e che dona il conforto della condivisione, ma che rimane pur sempre all’interno di un male ontologico.
Non ha il potere di svelare il senso della vita, ma dà la forza per affrontarla. Lei esiste, e questo basta affinché il poeta acconsenta che la propria esistenza, passo dopo passo, pulsazione dopo pulsazione, proceda.
Da dove muove Clizia?: “Il passo che proviene / dalla serra“.
Un posto protetto, sicuro, separato; che sta oltre i vetri, e perciò appare, se vogliamo, persino un po’ artificiale.
Lei è al riparo dalle intemperie della storia, salva. Ma per avvicinarsi e condividere deve uscire dalla serra quel tanto che basta a far accorti dell’occasione che offre. E nel farlo il suo incedere “è lieve / non è felpato dalla neve” (dove “felpato” è usato transitivamente). Cioè lieve di per sé, non perchè la neve lo renda tale.
Irma non è rappresentata iconicamente, ma attraverso identificativi. Anche se comincia a configurarsi come la donna-angelo, e ad assomigliare alla Beatrice dantesca, di lei, della sua figura, della sua persona, non si può dire “e par che sia una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare”. Viene presentata con altro dal corpo. E tuttavia ne sortisce lo stesso l’idea di una donna che “tanto gentile e tanto onesta pare” proprio dagli effetti che il suo segno mostra: oltre al muro che si indora (in rima con “aurora” la quale gli dà questo colore aranciato), il suo passo, ritmato al pulsare delle vene, gentile e generoso.
E infine la pianta della palma. Essa, slanciata e flessuosa, è trascelta per costruire un’immagine positiva, non nuova in Montale (“schietto come la cima d’una giovinetta palma” si leggeva negli “Ossi”), perché è simbolo religioso di pace, ringraziamento e lode, e qui perché con la disposizione delle sue foglie sempreverdi, forma delle frange per cui l’io lirico può parlare di frastagli, mettendoli in relazione e palesandoli in rima con barbagli.
Il passo che proviene dalla serra allora è lieve, non è felpato dalla neve che, fredda, viene richiamata per creare contrasto con il “sangue tuo nelle mie vene”.
Quello che, caldo, dà vita e che, vitale, dà calore.
Come ho già avuto modo di osservare, questi elaborati e originali commenti del prof. Baldoino meriterebbero di essere raccolti e pubblicati in un volume che potrebbe intitolarsi “Letture montaliane”. e, in ogni caso , sarebbe un peccato se andassero dispersi. Quest’ultima lettura dipana con la consueta acribia e precisione certosina la trama delle immagini simboliche e reali al tempo stesso che il poeta “legge” come altrettanti messaggi inviatigli dall’amata Irma Brandeis, a confortarlo e a sostenerlo nel suo aspro cammino esistenziale segnato dal “male di vivere” ontologico e inalienabile. Illuminante l’analisi semantica del cognome Brandeis, scomposto in Brand (fuoco) e in Eis (ghiaccio) a significare la sua doppia e ossimorica valenza di calore vitale e di freddo distacco e, al limite, di vita e di morte.