Commento al 15° Mottetto [da “Le Occasioni”] di Eugenio Montale

Al primo chiaro, quando
subitaneo un rumore
di ferrovia mi parla
di chiusi uomini in corsa
nel traforo del sasso
illuminato a tagli
da cieli ed acque misti;

al primo buio, quando
il bulino che tarla
la scrivanìa rafforza
il suo fervore e il passo
del guardiano s’accosta:
al chiaro e al buio, soste ancora umane
se tu a intrecciarle col tuo refe insisti.

A differenza di quanto spesso accade negli altri Mottetti, in questo la seconda strofa non cambia la scena rispetto la prima. La ribadisce. Con una specie di anafora-parallelo insistita cinque versi, per poi, nei due conclusivi, sintetizzare il tutto, sentenziando che sia da quando inizia il dì, sia da quando inizia la notte (un modo più solenne per dire sempre), si hanno dei ferma-immagine che possono nonostante tutto mantenere ancora un minimo di logica umana, avere un qualche senso, essere sopportabili, se lei, la donna amata, li lega insieme col suo refe.
Dove refe non è un filo qualsiasi, ma quello utilizzato per rilegare i libri; per tenere insieme, insomma, una storia; grande o piccola, strana o consueta.
Ma assomiglia molto anche al filo del mito di Arianna, che si contende con quelli di Clizia e di Beatrice, l’identificazione di Irma.
Si tratta di una lirica composta da 12 settenari (anche se due di essi potrebbero prestarsi ad essere letti come ottonari) e due versi resi in endecasillabi, proprio al fine di mutare ritmo segnalando così la parte sentenziosa propria della forma-mottetto, oltre, naturalmente, al fine di segnalare che si passa dalla parte dichiarativa a quella deduttiva.
I “chiusi uomini in corsa / nel traforo del sasso” richiamano con forza “gli automi” che “appaiono /  dai corridoi, murati!” del 5° Mottetto.
L’interno è quello del treno. E’ tuttavia un interno mobile, illuminato a intermittenze irregolari dall’interrompersi delle gallerie che lascia intravedere velocemente, e perciò spesso senza dare il tempo di distinguere, il cielo e il mare. Che altri passi intertestuali nonché dati empirici come la oggettiva vicinanza (non più di 200 metri) della villa dei Montale dalla ferrovia, ci confortano a dire siano il cielo e il mare delle Cinque Terre.
Decisamente di grande intensità semantica la rima parla-tarla, perché è in grado i condurci ad equiparare il rumore “di ferrovia”, vale a dire del treno, con quello del bulino, pur dopo sei versi e lo stacco della strofa.
Significativo che il poeta non dica “galleria” o “tunnel”, ma “traforo”; e che tanto quello nella montagna quanto quello nel legno siano un foro che trapassa qualcosa. Inducendo un’idea di ferita, se non proprio di morte.
Il “bulino che tarla / la scrivanìa rafforza / il suo fervore” è il tarlo stesso, perché fa, lui, minimo insetto, la stessa opera del bulino di forare il legno.
Così, concettualmente, viene ripresa la prima strofa, con un treno di viaggiatori inermi e soprattutto inerti, passivi e nello stesso tempo correi di quel foro. In qualche modo, anime morte.
Viaggiatori che in ossimoro “corrono” stando fermi e “chiusi”, vedendo solo a tratti l’aperto del cielo e del mare.
Poi, quattro enjambement.
In prosa bisognerebbe leggere aggiungendo una virgola, che aiuta a chiarire: “quando il bulino che tarla la scrivania rafforza il suo fervore [,] e il passo del guardiano s’accosta”. 
Per il bulino tarlare la scrivanìa è contestualmente rafforzare il suo proprio fervore; si autocelebra ed autoesalta.
Ma perché proprio la scrivanìa? Classicamente, quando si parla di mobili attaccati dai tarli, si citano il tavolo, o il letto, o la sedia. Perché non essere immediati indicando oggetti semplici, essenziali per tutti e che tutti hanno nelle loro case, invece di indicare un oggetto specifico alla scrittura? Non può essere un caso.
Così ecco presentarsi la figura più misteriosa: il guardiano. Cumulo di figure retoriche di cui ci limitiamo a citare le tre qui preminenti: allegoria; personificazione; metonimia. Data la funzione di esse, ora chiediamoci chi fa la guardia. Non forse qualcuno che controlla “la scrivanìa”? Ovviamente anche questa intesa come figura retorica per indicare chi se ne serve: lo scrittore, il giornalista, il filosofo, il poeta.
Il “primo buio”, sarà quando ormai il tarlo ha preso forza e s’infervora nel constatare che procede nella sua opera di demolizione, e l’attività dell’intellettuale a mano a mano sottostarà, sicché
la spontaneità e la verità che egli altrimenti esprimerebbe saranno condizionate e svuotate dal sapere della presenza, in qualche luogo, del guardiano, e dal rosicchìo delle mandibole-bulino del tarlo.
Una “presenza”, la sua, nel tempo sempre più pressante, fino a che, quando si fa notte, egli “s’accosta”: E’ lì, metaforicamente a fianco, occhiuto, si piega sul foglio. Soppesa, indaga.
Un angelo custode in nero, e così potente da riuscire ad affidare piano piano, impercettibilmente, paradossalmente, l’incarico di controllarsi al controllato, che lo accetta pur di non sentirsene addosso il fiato.
E’ così che soprattutto il suo persistere nel rosicchiare “la scrivanìa” prima o poi avrà successo.
E’ così che il tarlo dell’ansia afferra e accompagna tra i tentacoli di polpo del Polpol, e i tentacoli di piovra dell’ OVRA.
Ma ciò che accade al primo chiaro e al primo buio, estremi di situazioni intermedie non molto dissimili, continua a mantenere un sottofondo di umano, di speranza, se c’è lei, la donna-angelo, a dare un senso, forse solo con la sua presenza, alle altrimenti sconnesse e inammissibili cose della piccola e grande storia del mondo.

FULVIO BALDOINO

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3 thoughts on “Commento al 15° Mottetto [da “Le Occasioni”] di Eugenio Montale”

  1. Anche questo quindicesimo Mottetto montaliano presenta problemi di interpretazione ancor più ardui di quelli incontrati nel quattordicesimo, dove, se non altro, erano espliciti i riferimenti musicali a Debussy e a Delibes,, pur evocati nel contesto di un dialogo interiore con l’amata assente Clizia; qui ci troviamo di fronte a immagini e a simboli che mettono a dura prova anche un interprete raffinato come il prof. Baldoino, il quale opportunamente, da un lato spiega Montale con Montale, come nel caso dei “chiusi uomini in corsa / nel traforo del sasso” che richiamano “gli automi” che “appaiono / dai corridoi murati” del quinto Mottetto; e dall’altro mettendo in chiaro le analogie presenti nel testo, come quella del “traforo” che, così quello della montagna come quello del legno della scrivania a opera del tarlo-bulino, sono entrambi un foro che perfora un qualche oggetto. “Inducendo un’idea di ferita, se non proprio di morte”. (Questa analogia a me richiama quella baudelairiana del “ver rongeur”, il verme roditore del tempo che consuma la nostra vita). Quanto alla “scrivania” e al suo “guardiano” è più agevole leggervi la metonimia della scrittura e la prosopopea del poeta che a quella si accosta. ma sotto il controllo di un angelo custode nero, quindi più simile a un diavolo introiettato in funzione di autocensura per scansare la censura esterna dell’OVRA: Ma a salvare la libertà interiore del poeta “c’è lei, la donna-angelo” che, con la sua sola presenza, dà un senso anche a una vita senza senso, proprio come la poesia che ha il potere di redimere il male di vivere e la stessa morte corporale..

  2. Grazie Fulvio per il commento; in particolare apprezzo la tua interpretazione della figura del guardiano. E’ senz’altro più completa della mia.

    1. Non ho fatto che seguire la tua traccia dell’ “angelo custode in nero” . Ma è sempre caro a me, come sai, il tuo apprezzamento.

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